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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Luciano Scateni, Ermete Ferrari

Scugnizzi

Intra Moenia, Pag. 111 Euro 14,00
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Questo libro (che si presenta in cofanetto, accompagnato da sedici cartoline di soggetti in accordo col titolo) offre tre morali (o forse quattro) al prezzo di una - senza però nemmeno in una riga venir afflitto da moralismo.

Prima di parlarne, tuttavia, vorrei ricordare due mie non recenti letture: una ripescata sul carrettino d'un bocchinìsta romano, l'altra nientemeno che trovata in una libreria de La Valletta - ragazzo diciottenne, feci un breve viaggio a Malta, suggestionato dalla lettura d'uno scritto di Peter Kolosimo "archeologo spaziale". Nel primo, (1) un sacerdote cattolico irlandese (dunque cattolico al quadrato) narrava opere e giorni suoi nell' Italia della guerra e del subito dopo, culminati con l'apertura a Napoli d'un "Albergo dello Sciuscià",e a Roma di quella "Città dei Ragazzi" che credo esista tuttora, e che - boy-scout del CNGEI (gli esploratori "laici" - e stronzi) - visitai, ricavandone un'impressione straordinaria, che tuttora dura. E che direi "positiva", anzi lieta, non fosse che, adulto e scaltrìto, provo per quell'entusiasmo infantile (potevo avere dieci, undici anni, e così piccolo ero già tanto cretino) una severa resistenza, al limite dell'abiura.

Non solo una testimonianza, sebbene un romanzo, è invece il secondo dei libri in questione. (2) Scritto da un Autore australiano, e strepitoso di successo - al suo apparire lodato sinanco dalla signora Roosevelt -, racconta una delle storie che viene ricordata in questo Scugnizzi, e che meritò un film, (3) per combinazione ritrasmesso da RaiTre nei giorni in cui componevo la noterella presente sulla vicenda di don Mario Borrelli.

Ho rammentato al Lettore l'intreccio di caso personale e vago interesse politico che mi avvicina al testo, per fargli presente la curiosa combinatoria che spinge il proprio intendimento verso un fatto o una situazione, piuttosto che altri, e ce li fa riconoscere e conoscere. Ciò muove a riflettere su ciò di cui parliamo quando parliamo di significato: il Volpe, (4) ne Il piccolo principe, sostiene che per lui il grano non ha nessuna attrattiva, come cibo. Ma, siccome è il colore dei capelli del principino, da quell'ora innanzi avrà comunque un senso - anche volendo dire che acquista percettibilità e veicola un'emozione.

Così, mentre ritrovo i fatti narrati, non "m'identifico" né "mi riconosco" in essi. Però, ugualmente non mi sono estranei. Senza invocare parentele od empatìe, scopro dei contatti fra l'umanità mia e quella, remota, dei fanciulli di strada. Li ritrovo nella mia storia, nella mia identità, italiana. Che basti o meno a commuovermi in interiore, o a muovermi nel sociale, è secondario - viene dopo. Intanto, c'è questo: un legame a doppia via, per quanto modesto, che mi occorre perché la realtà mi venga incontro sensata, per essere io, autentico, nella realtà - un'esperienza attraversata pure (con una densità un milione di volte superiore) da uno degli Autori (Ferrari), il quale, prima lettore di una raccolta di Selezione dal Reader's Digest, (5) quindi obiettore, assistente sociale e dirigente dell'organizzazione borelliana, di sé spiega "mi è successo - come ad Alice - di ritrovarmi dentro il libro che avevo cominciato a leggere a sette anni". (p. 54)

Al sodo: nel testo che si presenta in queste righe, si ricorda - nella prima parte - l'operato di una signora, d'un ammiraglio e d'uno scienziato e docente che aveva come motto "pensare bene, volere il bene e operare per il bene". (p. 23) Costui, David Levi Morenos, riconducendosi all'intuizione dell'ammiraglio Cattolica, (p. 28) prese in concessione (la storia si svolge tra il 1913 e il 1928) le due navi "Scilla" e "Caracciolo", perché ospitassero, impratichendoli nella marineria, prima gli orfani dei pescatori, quindi i figli partenopèi della miseria e dell'ingegno. La gestione fu affidata a Giulia Civita, che seppe offrire ai piccoli più che assistenza e non solo amore, ma un'adozione pedagogica e affettiva, (p. 31) nutrice di quel cambiamento, quel "change" che più moderni studiosi (p. 26) pongono, come distacco dal consueto, all'inizio di ogni mutazione personale o sociale. Attraversando ogni guaio che la ristrettezza dei mezzi e l'invidia degli inetti pongono a chi fa: e, pure, l'aiuto dei solleciti, tra i quali spicca "il lascito di una donna olandese". (p. 41) E donne sono, al fine degli anni Quaranta, quelle che ricordano alla città ancora sventrata, brulicante della scugnizzeria che oggi affolla e affratella le capitali della miseria e le megalopoli dei paesi che vantano il primato della civiltà, (pp. 7-9, p. 60) l'opera della filantropo: Lieta Nicodemi, Olga Arcuno. Donne, e un ebreo: marginali nell'italietta patriarcale e clericofascista, forse con più profonda ragione seppero riconoscere e alleviare l'emarginazione altrui. La Patria riconoscente tolse alla Civita le sue creature e sciupò ogni sua realizzazione; e, non fosse morto, avrebbe offerto a Levi Morenos la negazione d'ogni umano spirito: il campo di Fossoli.

Meglio andò a don Mario Borrelli, il quale, intonacato di fresco sacerdote, si stonacò per fingersi guappo e inciucione. Scopo: risvegliare la volontà d'un vivere normale negli scugnizzi, raggiungendoli nel fetore e nell'ingombro dove si rifugiavano, condividerne le asprezze, impararne la lingua. Cioè: uno dei giovanissimi assistiti (ma siamo già nei Sessanta, con situazioni serie ma non tragiche) arriva alla laurea, e trova che una delle sorelle gli confida che "non poteva parlarmi perché non potevo più capirla", (p. 109) e non certo per l'aver cambiato dialetto (da quello dei bassi al gergo dei dottori), bensì per aver cambiato vita. Una comprensione migliore, e un appiglio concreto, Borrelli intuì dovessero esistere nel condividere quel repertorio di atti, luoghi, fisionomie, memorie, che è, oltre ogni vocabolario o enciclopedia, la materia vivente della lingua: lo scrittore incapace o complessato può ben sfiancarsi nel descrivere facce, faccette, faccioni, ma se non rende ogni suo personaggio autentico nel dialogo, non origina che rigidi pupazzi. Non con fantocci, (p. 67-8) dunque, magari "per una lacrimetta che 'l mi toglie", (6) voleva avere a che fare "don Vesuvio" - o meglio "Naso Stuorto", (p. 61) il soprannome con cui i randagi lo conoscevano, e che potrebbe indirizzare a considerazioni sul tema del Doppio che chi scrive lascia a chi legge. No: con "compagni di strada", (p. 61) con i quali provare "solidarietà tra eguali" (p. 67) e da indirizzare, va bene, ma non da plasmare come cera molle. Mi pare di dovermi chiarire questo aspetto: esistono benintenzionati di ogni nazione, che accorrono a soccorrere, raccogliendoli in istituti o case o quant'altro, i bambini callejeros. Opera meritoria: che ho l'impressione tuttavia incida poco - non mi risultano file di ragazzini ansiosi di farsi salvare dinanzi a cotesti luoghi. E un po' sarà la consuetudine alla ribalderia, e un altro po' quel che ammette perfino, adulto, uno dei ragazzi accostati da don Mario: "sono scappato diverse volte (...) per essere libero". (p. 88) Ma un bel po' magari sarà nella mancanza di ascolto, nella presunzione di dare a ogni ragazzino e a ogni suo problema una soluzione liofilizzata, precotta. O calata dall'alto: quel farsi maestri di vita che è sgradevole con un bambino normale, figuriamoci con uno che ha dimostrato a sé stesso di potersi amministrare, senza bisogno di paterne o adulte guide, e sovente in ambiti che stroncherebbero un adulto, e uno di quelli grossi.

Ma a credito del prete Borrelli non sta solo questo, e l'aver fondato - dopo essersi scoperto ai suoi discoli - una "Casa dello Scugnizzo" basata su poche, semplici regole e sull'offerta di pane, studio e lavoro. A ciò, viene da dire, basterebbe il sacerdote: l'uomo chiede e si chiede di più. Si preoccupa "della profonda ingiustizia d'una società che li aveva emarginati", (p. 61) scopre nel disastro civile e umano degli adulti miseri "la fabbrica degli scugnizzi", (p. 69) e l'ancor più grave e ingiustificabile rovina morale di chi dovrebbe porvi rimedio. Con disincantata ironia, dedica a questi ultimi una lapide: "noi serviamo quelli che non servono a quelli che dovrebbero servirli"; (p. 75) e per conto suo organizza i baraccati, amplia e modernizza la "Casa", e studia (1969-70) seguendo corsi di università straniere, (p. 72) tutte attività che gli confermano che nei grandi numeri il difetto è nel manico, nell'essenza iniqua d'un sistema politico.

Il testo, per sue ragioni, (cfr. p. 78) non prosegue nella biografia e nell'analisi: una considerazione però mi viene di farla, quarta "morale" che risalta dopo la linguistica, la pedagogica, la civile. Uno degli ormai attempati stradaròli lamenta: "la situazione mi pare che oggi è peggiorata. Sì, allora noi eravamo scugnizzi, ma non facevamo le cattiverie che fanno adesso. Facevamo gli scugnizzi per avere una certa libertà noi, non per fare del male agli altri...". (p. 92) E facciamoci la tara, perché "i tempi nostri" son sempre i migliori; però, sul finire dei Settanta Leonardo Sciascia, oggettivo, considerava di non più sentir dire dai vecchi "avessi vent'anni", come invece spesseggiava tra chi era anziano quando lo scrittore era cucciolo. (7) Allora, mi viene da considerare una differenza tra lo ieri che anch'io ho attraversato, e l'oggi dove mi ritrovo: fatta salva l'ipocrisia delle faìne e delle iguane, il conformismo delle pecore, la retorica degli asini e dei gufi in cattedra, meritevole era volere "una società migliore" - che nebulosamente consisteva in un mondo che facesse uguale chi uguale non era, dove la legge la cultura la parola insomma sarebbero state espressioni dello sfruttato e non dello sfruttattore, e in cui ogni rapporto tra uomini sarebbe stato un rapporto umano - màssime quello erotico.

Quel che invece si richiede da capo a vent'anni fa e attualmente è tutt'altro curriculum: ammesso che abbiamo guadagnato nella proterva sincerità di chi si sente abbastanza sicuro per poter buccinare la propria stronzaggine "sanza tema d'infamia", si raccomanda, per un'esistenza confortevole, il disprezzo per le leggi - non quello sofferto di chi ne subisce l'eventuale ingiustizia, ma quello prepotente e vile degli impuniti -, la viscida furberia, il successo ad ogni costo, la grettezza e meschinità più radicate, il cinismo e la fredda cattiveria. E si magnificano l'ingordigia e la ferocia crudele - oltretutto in tempi che già mostrano come si debba cominciare a parlar più velato, perché siamo in vista d'una resa dei conti.

Dal paragone di queste due (in)temperie, mi figuro la difficoltà che s'aggiunge, per l'educatore odierno, alle consuete d'aver a che fare con delle coscienze ancora ribelli e gagliarde come quelle dei ragazzi "difficili": in una società il cui discorso principale non è nemmeno la competizione più o meno sana, ma che l'uomo è lupo per il simile, insegnare la strada della maturità a chi ha già la mente e il cuore orientati a sopraffare e ad arricchirsi, può sembrare patetico, inutile, vagamente antisociale. Ma come: spendiamo tante energie per creare uomini-bestioni che si sgozzino al primo semaforo rosso, e questi ci remano contro?

No: "la colpa" non è "della società", come noialtri sempliciotti dicevamo. Poi però siamo cresciuti, e abbiamo capito che, se questo è vero a un livello individuale, personale, psichico - non è la società a farti nascere frocio, ad esempio -, non lo è nella massa - se questa ritiene che esser froci è roba da manicomi, ti fanno gli elettroshock e non i PACS. E dunque, se c'è da pigliarsi colpe come individui - e la società lo pretende -, essa società si faccia carico del suo dòlo. Possibilmente, nelle persone dei suoi privilegiati, che a loro immagine l'hanno resa deforme.



*****

1) G. Patrizio Carroll-Abbing, Le città dei ragazzi, Garzanti, Milano 1968;

2) Morris West, Children of the sun, Fontana su lic. Heinemann, 1980(3);

3) Il bacio del sole - don Vesuvio. Regia: Siro Marcellini. Con Otto Vilhelm (sic!) Fischer, Chris Wolf, Nino Taranto, Marisa Merlini, Gianfranco Porelli, Lorella De Luca, Lauro Gazzolo, Franco Turco. Italia, 1958. Avverto che, nella nota a p. 80 che riguarda la pellicola, né Fischer né la De Luca vengono ricordati. D'argomento affine, ma girato dieci anni prima sulla suggestione de La città dei ragazzi (1940) di Norman Taurog con Spencer Tracy, ricordo Proibito rubare, di Luigi Comencini, conAdolfo Celi, Tina Pica, Mario Russo e altri attori non professionisti;

4) se non rammento male il testo, è un maschio di quella specie;

5) "il libro che nessuno ordina e che t'arriva sempre": così Enrico Montesano;

6) E' il verso del quinto del Purgatorio che apre la sceneggiatura di Accattone;

7) cfr. Per un ritratto dello scrittore da giovane, L'Unità/Sellerio, Roma 1993, pp. 17-8.





di Marco Lanzòl


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