RECENSIONI
Juan Pablo Villalobos
Se vivessimo in un paese normale
Gran Via, Traduzione di Stefania Marinoni, Pag. 128 Euro 13,00
E’ implicito nel titolo. Il Messico di Villalobos, e in particolare il paese di Lago de Moreno, non ha niente di normale.
..ci sono più mucche che persone, più charros che cavalli, più preti che mucche e alla gente piace credere all’esistenza di fantasmi, miracoli, navicelle spaziali, santi e roba simile.
Lo sa perfettamente Oreste, che è consapevole del fatto che anche la sua famiglia è piuttosto scombinata.
Il padre, professore di educazione civica, si trasforma la sera in “professionista dell’insulto” davanti al telegiornale che propone la pagina politica. In un mondo di corrotti, si è costruito la sua personale torre d’avorio in cui coltivare una famiglia dai principi adamantini. A maggior riprova del suo senso della polis ha battezzato i numerosi figli con celebri nomi greci, cominciando dal primogenito Aristotele.
Anche la madre è una donna non comune, che però privilegia gli aspetti pratici, dovendo sfamare e tenere insieme sette figli perennemente in lotta per accaparrarsi il cibo.
Mia madre non aveva paura della folla, era il suo habitat naturale (…) Era una specialista di tumulti, capace di accaparrarsi il terzo turno alla salumeria quando c’era un centinaio di persone che reclamava il macellaio.
La vera specialità della mamma però è la quesadilla, una sorta di focaccia buona per tutti i momenti e per tutte le occasioni, purché sia sfornata in quantità industriali onde non scatenare in famiglia guerre fratricide.
E la casa! La casa è tutto un programma. Basterebbe dire che è situata in una località definita Colle di Merda. Ma non è indifferente nemmeno il fatto che abbia dovuto adattarsi forzatamente ad accogliere una prole sempre più numerosa, pur non essendo mai arrivata al traguardo della rifinitura conclusiva. Mattoni in vista, pavimenti non piastrellati, impianti precari.
Sembrava che la nostra casa amasse andare in giro nuda, o quanto meno vestita leggera.
Questo romanzo, di godibile lettura per l’umorismo, la vena satirica, il gusto dell’iperbole e del paradosso, capace di strappare genuine risate e di suscitare amare riflessioni, è però un po’ debole dal punto di vista della trama. Intendiamoci, è ben chiaro che le avventure picaresche di Oreste sono un pretesto per dipingere un quadro (non direi un affresco, sarebbe esagerato) della società messicana vista con gli occhi dei poveri o quasi-poveri che vivono schiacciati fra le necessità quotidiane e le assurdità di una politica cialtrona e corrotta. Tuttavia, dal momento che Villalobos mette della carne al fuoco, ci si aspetta che in un modo o nell’altro la cucini. Il fatto di partenza non è da poco. E’ la sparizione di due gemelli di cinque anni dalla famiglia del protagonista. Da qui si origina innanzitutto un gustoso gioco degli equivoci, perché i gemelli, in quanto eterozigoti, vengono definiti “finti gemelli”, e questo scatena ogni sorta di illazione e sospetto perfino tra le forze dell’ordine.
Poi ha inizio il viaggio di Oreste e del fratello Aristotele alla ricerca dei bambini. Un’occasione per incontrare le assurdità della fede popolare, fra processioni e superstizioni, e fare la conoscenza di un uomo politico con tutto il suo bagaglio di criticità. Approdando infine, inaspettatamente, ai misteri della fecondazione bovina. Il ben noto realismo magico della letteratura latino americana è sempre ironicamente presente, con una inedita sfumatura di modernità grazie a un supposto intervento di extraterrestri che, nella fantasia saccente di Aristotele, avrebbero rapito i piccoli.
Bene, dicevo, tanta carne al fuoco, e un tono di accattivante cinismo che accompagna il lettore per tutto il tempo, ma alla fine c’è come l’impressione che l’Autore dica: ora che avete tutti gli ingredienti, portate a compimento la cottura nel modo che più vi piace. In alternativa tocca accontentarsi di una gran sarabanda finale, simile alla conclusione dei fuochi d’artificio, dove si fa deflagrare di tutto e di più. E questo, più che una trovata, mi sembra un espediente.
di Giovanna Repetto
..ci sono più mucche che persone, più charros che cavalli, più preti che mucche e alla gente piace credere all’esistenza di fantasmi, miracoli, navicelle spaziali, santi e roba simile.
Lo sa perfettamente Oreste, che è consapevole del fatto che anche la sua famiglia è piuttosto scombinata.
Il padre, professore di educazione civica, si trasforma la sera in “professionista dell’insulto” davanti al telegiornale che propone la pagina politica. In un mondo di corrotti, si è costruito la sua personale torre d’avorio in cui coltivare una famiglia dai principi adamantini. A maggior riprova del suo senso della polis ha battezzato i numerosi figli con celebri nomi greci, cominciando dal primogenito Aristotele.
Anche la madre è una donna non comune, che però privilegia gli aspetti pratici, dovendo sfamare e tenere insieme sette figli perennemente in lotta per accaparrarsi il cibo.
Mia madre non aveva paura della folla, era il suo habitat naturale (…) Era una specialista di tumulti, capace di accaparrarsi il terzo turno alla salumeria quando c’era un centinaio di persone che reclamava il macellaio.
La vera specialità della mamma però è la quesadilla, una sorta di focaccia buona per tutti i momenti e per tutte le occasioni, purché sia sfornata in quantità industriali onde non scatenare in famiglia guerre fratricide.
E la casa! La casa è tutto un programma. Basterebbe dire che è situata in una località definita Colle di Merda. Ma non è indifferente nemmeno il fatto che abbia dovuto adattarsi forzatamente ad accogliere una prole sempre più numerosa, pur non essendo mai arrivata al traguardo della rifinitura conclusiva. Mattoni in vista, pavimenti non piastrellati, impianti precari.
Sembrava che la nostra casa amasse andare in giro nuda, o quanto meno vestita leggera.
Questo romanzo, di godibile lettura per l’umorismo, la vena satirica, il gusto dell’iperbole e del paradosso, capace di strappare genuine risate e di suscitare amare riflessioni, è però un po’ debole dal punto di vista della trama. Intendiamoci, è ben chiaro che le avventure picaresche di Oreste sono un pretesto per dipingere un quadro (non direi un affresco, sarebbe esagerato) della società messicana vista con gli occhi dei poveri o quasi-poveri che vivono schiacciati fra le necessità quotidiane e le assurdità di una politica cialtrona e corrotta. Tuttavia, dal momento che Villalobos mette della carne al fuoco, ci si aspetta che in un modo o nell’altro la cucini. Il fatto di partenza non è da poco. E’ la sparizione di due gemelli di cinque anni dalla famiglia del protagonista. Da qui si origina innanzitutto un gustoso gioco degli equivoci, perché i gemelli, in quanto eterozigoti, vengono definiti “finti gemelli”, e questo scatena ogni sorta di illazione e sospetto perfino tra le forze dell’ordine.
Poi ha inizio il viaggio di Oreste e del fratello Aristotele alla ricerca dei bambini. Un’occasione per incontrare le assurdità della fede popolare, fra processioni e superstizioni, e fare la conoscenza di un uomo politico con tutto il suo bagaglio di criticità. Approdando infine, inaspettatamente, ai misteri della fecondazione bovina. Il ben noto realismo magico della letteratura latino americana è sempre ironicamente presente, con una inedita sfumatura di modernità grazie a un supposto intervento di extraterrestri che, nella fantasia saccente di Aristotele, avrebbero rapito i piccoli.
Bene, dicevo, tanta carne al fuoco, e un tono di accattivante cinismo che accompagna il lettore per tutto il tempo, ma alla fine c’è come l’impressione che l’Autore dica: ora che avete tutti gli ingredienti, portate a compimento la cottura nel modo che più vi piace. In alternativa tocca accontentarsi di una gran sarabanda finale, simile alla conclusione dei fuochi d’artificio, dove si fa deflagrare di tutto e di più. E questo, più che una trovata, mi sembra un espediente.
di Giovanna Repetto
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