RACCONTI
Massimiliano Città
Spifferi
Il giorno in cui Gina fu messa alla porta, si sentì come un fazzoletto sgualcito. Uno di quelli che sua nonna teneva sempre in pugno, raffazzonato e pieno di dio chissà cosa. Si sentì usata, e lasciata lì, in mezzo alla strada. Eppure Gina non era niente di meno che un lurido fazzoletto. Aveva quarantanni appena, ed era stata una bella ragazza. I tratti del viso stanco e abusato lo lasciavano intravedere. Il corpo, abbondante e sodo del tempo migliore, aveva ceduto alle lusinghe di una vita sedentaria, e s’era lasciato andare. Non per questo il marito riusciva ancora a trarne beneficio, ogni qualvolta ne sentiva il bisogno. Fino a quando un bel giorno, dopo averla picchiata ripetutamente negli ultimi ventidue anni - rea, la donna, di non essere stata capace di dargli un figlio, neppure una femmina! - decise di scaraventarla in strada.
Erano anni difficili quelli, tempi in cui molti del villaggio, con miseri fagotti sulle spalle e mani infreddolite su tasche sfondate dalla povertà, si mettevano in cammino verso ovest, nella speranza di trovare un luogo migliore.
Il viaggio verso l’occidente, ultima posta di un percorso fatto di insopportabile tedio.
Gina fu raccolta dall’amica di sempre, la bella Irina. Piacente donna che a molti era piaciuta ma a pochi s’era concessa. Inquieta e frustrata per una vita che non le aveva dato ciò che prometteva. Irina era una donna dal fare bambino, una donna stanca e stufa di mangiare minestra d’estate e d’inverno. Abitava in casa con la madre, senza che tra le due donne si fosse mai ricucito almeno idealmente quel cordone ombelicale che aveva reciso ogni legame fin dalla nascita della donna. Viveva con la madre perché aveva provato a farlo altrove, ma non le era convenuto. Viveva con la madre perché nella sua camera, ritagliata dallo sgabuzzino che il padre adoperava per conservare quel liquore venerato come una divinità, aveva costruito un mondo entro il quale soltanto lei trovava equilibrio. Fatto di riviste patinate d’alta moda e abitazioni di lusso, con famiglie sempre sorridenti ad accogliere visitatori a braccia aperte e tazze di té fumante.
Irina aveva vissuto a lungo tra le pareti di quella prigione, talvolta sovrastata dall’eco delle grasse risate del padre preda di mistiche trance e bicchierini su bicchierini vuotati come fossero respiro, adesso provava a uscirne fuori, per vedere realmente cosa si poteva trovare. Aveva sentito dire che verso occidente, in Italia, si poteva cavare qualcosa di più.
Come in un film americano, girato su una pellicola scadente e con un cast rabberciato all’ultimo istante, le donne partirono di prima mattina, con gli occhi pieni di lacrime. Belli e lucenti quelli di Irina, ancora più belli se possibile, chiari come un cielo sgombro di nuvole, e decisi nel vedersi davanti una vita migliore. Gina tratteneva i suoi tra le mani, ché non venissero fuori dalle botte prese, e piangeva.
Migravano, lasciandosi il passato alle spalle, mettendo strade sterrate, e ferrovie, chilometri e chilometri di binari arrugginiti, e mare, acqua salata, dolorosa per sanare le ferite ma indispensabile per rimarginarle, di speranza.
Giunsero a destinazione dopo un’odissea che nessun cantore provò mai a raccontare e si ritrovarono tra le braccia di Bogdan, che non era proprio Penelope, ma aveva una camera e un materasso sul quale poter spegnere l’umiliazione di quei giorni trascorsi come bestie.
Bogdan era un lontano cugino di Irina. Come sempre accade per i migranti, c’è un filo, seppur tenue, che ti spinge a muoverti, anche per sola inerzia, verso un punto distinto e lontano. Quel filo era Bogdan, un filo malmesso, morsicato, con gli occhi convergenti e la stretta ruvida, e labbra che non avevano mai conosciuto dolcezza.
Quando Irina si svegliò, in tutti i sensi, vide bene che la speranza d’occidente non era altro che miseria già conosciuta, soltanto spostata di qualche migliaia di chilometri verso ovest. Pianse, come una bimba delusa a cui è stata promessa una splendida bambola dai capelli dorati e invece viene proposto un barboncino spelacchiato e moribondo.
Ancora una volta la vita l’aveva accolta al mattino con la menzogna della realtà. Fredda, triste, racchiusa negli occhi piccoli e cisposi del cugino. Un volto così diverso da quello che la sua mente s’ostinava a vedere da renderne invisibile la presenza.
Bogdan fumava in silenzio e le guardava. Davano l’impressione, lì, strette l’una all’altra in quell’angolo umido della camera, d’essere topolini finiti in trappola, stanchi di scappare ancora, rassegnati verso il destino ineluttabile. Al ragazzo parve addirittura di sentirle squittire, ma non poteva essere che la sua malsana fantasia.
Fin da bambino aveva visto e rivisto la scena che adesso, era certo, avrebbe toccato con mano. La pelle candida della cugina, vanto del quartiere, che lo aveva spinto a non chiuder occhi la notte, quando da ragazzino immaginava tutto, perché nulla sapeva dell’amore. Adesso la preda era lì, davanti ai suoi piedi, completamente indifesa. Da buon cacciatore, quale la vita era riuscito ad addestrarlo, non addentò subito, ma attese, mellifluo alcuni giorni. Accarezzando i volti tirati, prima dell’una poi dell’altra, provando a sussurrare parole confortevoli, illudendole, ancora una volta, che qualcosa di buono era possibile.
Il quarto giorno spalancò le fauci per addentare il corpo di Irina, che nonostante il viaggio e l’ennesima sconfitta reagì, d’istinto, come chi ad un passo dalla morte, consapevole di esserci dentro, prova a divincolarsi. Così fece la donna, e fuggì, dall’unico filo che poteva tenerla in piedi, come una marionetta impazzita s’affidò al vento.
Gina rimase muta, sola, senza neppure le voglie di un cacciatore smarrito dalla fuga improvvisa della preda agguantata. Bogdan sputò sull’uscio della porta e uscì.
Quando ritornò, dopo alcune settimane, non trovò ombra di donne, e un morso allo stomaco lo colpì violentemente.
Avrebbe approfittato anche di Gina in quel frangente.
Pochi giorni dopo esser stata abbandonata da tutti, Gina si rimise in piedi, come le aveva insegnato la vecchia zia. Quella donna pontificava consigli da una sedia a dondolo scricchiolante come la lancetta di un orologio a pendolo arrugginita. Zia Anja c’era rimasta piantata su quella sedia, inchiodata, fin da bambina, quando la ruota d’un carro le passò senza chieder scusa sulla schiena. L’esile bimba, che rincorreva per strada farfalle insieme ad altri fragili occhi come i suoi, finì col ritrovarsi spenta prima di spiccare il volo. Eppure quella donna non pianse mai, almeno così ricordava Gina, aveva una parola gentile per chiunque e molti s’intrattenevano al tempo singolare di quell’orologio saggio. In fondo era l’unico modo per togliersi da lì, quello di parlare con la gente e di ascoltarne le storie.
Il ricordo della zia le asciugò gli occhi e la rimise in cammino.
Furono giorni che Gina volle dimenticare. Giorni in cui la sporcizia del mondo le si appiccicò addosso, e neppure le numerose docce, che alcune settimane dopo ebbe la possibilità di ripetere, riuscirono a cancellare del tutto.
Strinse a sé le braccia, come a volersi sentire nuovamente amata, e la spugna a sfregare la pelle, quasi a graffiarsi, per cancellare, ma scoprendosi allo specchio arrossata e quasi sanguinante, capì che era dalla mente che avrebbe dovuto scartar via il ricordo, e non c’era nessuna spugna in grado di farlo.
Si vestì, con le poche cose che aveva con sé, modesti indumenti strappati al passato e alla strada. Discese in sala. Ad attenderla c’era una donna sui quarantacinque anni, alta, un fisico da modella raggrinzita, curva su se stessa, con gli occhi piccoli e neri e le labbra serrate in un tentativo maldestro di sorriso accennato. Accanto un uomo florido, dalla barba folta e il sorriso largo. Due bimbi, seduti sulla poltrona la scrutavano, indicandola. Un’anziana signora, malinconica e assente, aveva incontrato per un attimo i suoi occhi, poi s’era voltata altrove, cercando in tv qualcosa di più interessante.
L’uomo parlò.
«Don Saverio l’ha segnalata a mia moglie, ha detto che è una brava donna, massaia, lavoratrice e seria. Abbiamo sempre tenuto in conto i consigli di don Saverio, che c’è stato spesso vicino e di conforto. Mia suocera, come vede, ha necessità d’assistenza, sebbene sia perfettamente lucida e su di sé. Mia moglie, impegnata tutto il giorno a lavoro, non può occuparsi della madre e dei figli in contemporanea, dunque ci è necessaria una persona di fiducia che tratti mia suocera come una madre. Come una madre! » - ripetè in tono enfatico - «Questo le chiedo. Sarà ben retribuita e non le mancherà nulla, se nulla farà mancare alla signora.»
Disse l’uomo, dando la sensazione di recitare un copione provato e riprovato.
Gina teneva le mani serrate per la paura di perdere l’ennesima occasione, tremava nell’animo, eppure cercava di nasconderlo. Aveva capito a sue spese, nelle interminabili settimane precedenti, che mostrare apertamente lo sguardo carico di timore attirava lo squallore del mondo. Provò a scuotere la testa in segno d’assenso, aveva capito, ma le veniva particolarmente difficile rispondere qualcosa di sensato in una lingua che non era la sua.
L’uomo avanzò di alcuni passi, le fu davanti e tese il braccio corpulento e peloso, uno dei tanti bracci che Gina aveva dovuto sopportare in silenzio, adesso gli tendeva una mano paffuta, che non voleva nulla da lei se non sancire l’inizio di una nuova speranza.
Da quel giorno Gina divenne la badante della signora Caterina, e forse qualcosa di più.
L’anziana signora, dopo anni e inaspettatamente, ritrovava la piacevole sensazione di sentirsi ascoltata, coccolata perfino, senza obblighi né rimproveri. Quei rimproveri che la figlia maggiore era solita distribuire con eccessiva generosità, unico campo in cui le era possibile esserlo.
Gina se ne stava lì, non usciva neppure per la pausa quotidiana che le era concessa, dalle cinque alle sei del pomeriggio, orario in cui per le strade tutte le badanti rumene, che avevano colonizzato un settore, s’abbellivano a festa e passeggiavano per le vie, ammiccando ai signorotti attempati che nascondevano sotto le patte umide di piscio ancora residui d’ardore giovanile.
Gina rimaneva a fianco di Caterina.
Bastarono poche settimane per cancellare quel distante «signora». Caterina le aveva intimato di darle del tu. E Gina con un sorriso che non pensava potesse appartenerle aveva acconsentito dicendo «Sì, signora», scatenando una sonora risata nell’anziana, col serio rischio di farle volar via la candida dentiera appena acquistata.
L’inverno trascorse dolcemente tra le due donne che entrarono in profonda confidenza al lume di un camino crepitante e una televisione sempre in sottofondo. Caterina, maestra d’elementari vecchio stampo, ritrovò a distanza di trent’anni una nuova alunna da formare, Gina, da parte sua, qualcuno da cui avere gratificazione umana.
«Caterina, io vado a fare spesa, te che serve? »
«La spesa, la spesa! Figlia mia, mettiamocelo l’articolo. Vado a fare la spesa», rimbrottava amorevolmente la signora ad ogni errore di Gina, che sorrideva come una bimbetta colta in fallo e puntualmente tornava a dimenticarsi di dover utilizzare quel maledetto articolo.
Raramente, le domeniche, la figlia, sempre più impettita, con prole e marito al seguito, veniva a degustare il pranzo, lamentandosi sempre di qualcosa. In cuor suo la donna capiva che negli occhi della madre s’era riaccesa una luce, e quella luce che scorgeva puntare ogni movimento della goffa donna straniera la irritava particolarmente. Ogni notte, di quei pranzi sdolcinati, sussurrava al marito «Che ne pensi? A me questa Gina sa di falso», ma l’uomo era troppo intento a resistere al suo imminente coito per darle la dovuta attenzione.
«Certe volte penso che sarebbe meglio spegnere tutto e andarsene via. Sì, cara. Penso proprio sia giusto così. Perché vivere in maniera ostinata senza nessuno stimolo equivale a morire, male. Come un animale che è sempre stato forte e vigoroso e poi d’improvviso si riscopre incapace di far tutto quello per cui ha vissuto. Certe volte avverto di essere così. Sento che ogni cosa scivola sulle mie spalle, e mi vedo incapace di trattenere alcunché.»
Caterina raccontava, confidava a filo di voce, mentre Gina stirava, e ascoltava. La donna, sebbene fosse restia a coniugare il verbo alla giusta persona e inserire l’articolo opportuno, comprendeva benissimo il disagio dell’anziana signora. In un certo senso l’aveva vissuto, e forse continuava ad avvertirne il peso in quella sua nuova quotidianità. Poi, rifletteva, e ammetteva a se stessa che non c’era possibilità di paragone tra ciò che aveva vissuto e il presente. Quella speranza ritrovata, per una vita semplice, certo, senza ambizioni né pretese, ma bastevole a cancellare, seppur lentamente, l’onta degli ultimi due anni. Perché in fondo, l’eco della voce del marito, rude e violenta, s’affievoliva sempre più nelle notti insonni. Notti che si contavano sulla punta delle dita, finalmente. Adesso Gina dormiva, e russava talvolta, a quanto le raccontava una Caterina divertita.
In quell’istante, però, gli occhi della signora non erano allegri, come quando sorridente puntava ogni difetto della sua badante, erano macchiati di un carico di malinconia che Gina non era abituata a vedere. Le pupille si muovevano placidamente, e parevano seguire il filo delle parole, quel filo che sostenuto dalle mani tremanti si spostava da una parte all’altra della cucina. Certe volte l’anziana signora provava a scuotersi sulla sedia, e rimettersi in sesto, poi tornava a scivolare in una postura che le era difficile, se non impossibile, cambiare.
La sua voce raccontava di quella difficoltà, con dolce rassegnazione.
«Tutti raccontano che ero una bellissima donna», diceva con un sorriso caricò di civettuosa vanità, «e puoi vedere bene cosa ne rimane adesso. In questa sedia ci sono i resti, i resti di una sconfitta. Il tempo vince cara mia, ogni cosa. Anche la più fulgida bellezza.»
«Ma tu ancora bella signora», disse convinta Gina, volendo sollevare il morale dell’anziana signora.
«Ah! », esclamò la signora, sollevando la mano destra come a voler scacciare una mosca fastidiosa dal viso. «Lascia perdere figliola, scusami lo sfogo, so bene quanto sia altro il dolore che hai dentro. Vediamo un po’ cosa dicono invece questi matti che litigano per le più stupide questioni. Sorridiamo un po’ della loro stupidità. Forse è una delle poche cose divertenti che ci resta da fare.»
Gina gettava un occhio ai vestiti da stirare, e poi passava lo sguardo amorevolmente sui capelli sfibrati della signora che sussultavano ogni volta che Caterina non riusciva a trattenere il sorriso per quelle liti artefatte che riempivano i pomeriggi catodici delle case italiane.
Un giorno Gina, mettendo in ordine alcune stanze abbandonate di quella casa immensa, si ritrovò di fronte ad una serie di scatoloni colmi di dischi, li lasciò all’angolo e preparando la cena accennò la cosa alla signora.
«Ah! », esclamò ancora una volta, così come faceva in tutte quelle occasioni che riaccendevano i ricordi. «Erano del cognato di mio marito. Un folle, credimi. Viaggiava di continuo. Riuscì a sperperare una dote, seppellendo sua moglie di risate, e riempiendo lo studio di Anselmo di quei polverosi scatoloni. Jazz, tutto Jazz. Dischi a centinaia. E ogni volta che ritornava a casa, perché dopo la morte di Alda venne ad abitare qui da noi, ecco ogni volta che ritornava dall’irrinunciabile viaggio, portava con sé una decina di quei vinili, e ci sottoponeva, come una tortura, all’ascolto guidato spiegandoci a modo suo ogni cosa, ogni strumento e perché e raccontando le scapestrate vite dei suoi musicisti preferiti. A me non dispiacevano, seppure non ne capissi granché ma Anselmo non li sopportava per nulla. Tanto che Mario fu costretto ad ascoltarli solamente quando mio marito era fuori per lavoro o al circolo del paese. Però se a te piace, magari potresti provare a metterne su qualcuno. Vedi, in salotto, e non so se funzioni ancora, c’è un giradischi, a quanto si dice meraviglioso, Mario se ne faceva vanto. Potresti provare, magari gira ancora.»
Ma Gina era troppo presa dalle faccende domestiche, s’era messa in testa di lustrare tutta la mobilia, l’argenteria, spolverare ogni angolo, e portava con sé gli occhi della signora, su quella seggiola girevole e moderna, e il ronzio del piccolo motorino che annunciava il suo arrivo. Non rimanevano mai distanti, e neppure in silenzio.
Gina per la prima volta, come neppure era riuscita a fare con don Saverio, aveva tirato fuori tutto lo sporco che tratteneva dentro, raccontando a Caterina ogni cosa. E nel momento in cui lo aveva fatto s’era sentita migliore, senza capire perché. Caterina, da parte sua, aveva confidato all’amica il dolore che le lacerava il petto, e che tuonava nelle notti di particolare umidità, raccogliendo i singulti dolorosi di una tosse che non voleva saperne di sparire.
Quel dolore si chiamava Giulio, e aveva quarant’anni. Si e no lo ritrovava a Natale, ma non sempre, veniva, litigava con la sorella, coccolava un po’ la madre, freddamente, e poi ritornava nell’oblio da cui era venuto e del quale nessuno sapeva nulla.
Da qualche giorno gli era arrivata, tramite la figlia, la novità che era stato mollato dall’ultima donna. A quanto si sapeva, Giulio l’aveva ritrovata con un altro, e al parapiglia che ne era seguito, con annessa chiamata ai carabinieri, era stato costretto ad abbandonare la casa. Che neppure era sua, per altro.
Dunque la pena per quello sconosciuto del figlio, immaginato in mezzo alla strada, aumentava, così come l’intensità della tosse.
Alcune settimane dopo, e ben distanti dal Natale, Gina si ritrovò gli occhi smarriti di quell’uomo. La barba incolta, il vestito trasandato e una bava d’ebbrezza che accompagnava le parole, che entrarono senza fare tanti complimenti in casa. Chiese alla madre, seccato, chi fosse quella donna e perché. Allora esplose in invettive volgari contro la sorella, incapace di provare amore verso chi le aveva consegnato tutta la sua vita, diceva in tono grottesco, incapace di badare alla madre, che abbandonava nelle mani di una sconosciuta, e per giunta rumena, disse senza darsi premura di parlare a bassa voce affinché Gina non venisse umiliata dalle sue affermazioni.
Caterina arrossì, come se le parole del figlio, bieche, l’avessero colpita nell’animo. Chiese in tono vigoroso, per quello che gli era possibile, che il figlio tacesse. Ma Giulio continuava in un’arringa senza senso che vedeva tutto il mondo colpevole di tradimento nei suoi confronti.
La donna sembrò sollevarsi dalla sedia, e con voce forte e salda disse:
«Con che diritto ti presenti qui, in casa mia, e urli contro chi non conosci neppure. Con che diritto aggredisci tua sorella, se per più di un anno non s’è avuta notizia di te? ».
Caterina era tornata l’autorevole donna d’un tempo, quando le bastava semplicemente un cenno per metter ordine nel mondo circostante, quel tempo in cui la sola inflessione di voce indirizzava il cammino dei suoi alunni, dei figli, del marito stesso. La forte personalità della donna non era rimasta inchiodata alla sedia, ma si sollevava come spirito sulle parole che indirizzava veementi contro il figlio.
Giulio indietreggiò di qualche passo, e si lasciò cadere sulla sedia. Portò le mani alla fronte e si nascose. I due rimasero in silenzio per più di mezz’ora. Sembrava quasi che il figlio si fosse addormentato. Poi, come ripresosi da un incubo, sollevò il capo e si guardò intorno. Disorientato. Dava l’impressione di non sapere dov’era finito. Spaesato e impaurito guardò la madre, poi le si avvicinò inginocchiandosi e poggiandole, come faceva da bambino, la testa in grembo.
Le mani scheletriche della donna passarono sui capelli arruffati e unti, intrecciati di sporcizia e sudore. Carezzò le spalle grandi del figlio e lo invitò a far un bel bagno. Gina, la rumena, disse con una punta di acre rimprovero, avrebbe preparato tutto.
Fu così che Giulio si stabilì in casa della madre insinuandosi tra le maglie della trama che in quegli ultimi mesi le donne avevano cucito per tenersi l’un l’altra legate, ed entrambe legate alla vita.
L’irruenza e la forza dell’uomo non impiegarono molto tempo a sfibrarne il tessuto.
La miccia scatenante del tragico epilogo s’accese in una domenica di novembre. La figlia con famiglia al seguito finalmente accettava l’ennesimo invito di Caterina a pranzare tutt’insieme. Gina era stata messa all’opera di buon mattino, il pasto era abbondante come sempre, e ricco di varie portate. Stranamente tutto filò liscio. I figli s’ignorarono cordialmente, mentre Giulio si divertiva a giocare con i nipoti, come se avesse scoperto d’averli in quel momento. Il cognato era troppo impegnato a riempir la bocca per parlare. Al momento del caffè la figlia chiese di parlare in disparte al fratello.
Si accomodarono nello studio che era stato del padre, e che dalla morte, avvenuta dieci anni prima, se n’era rimasto tristemente abbandonato.
«Hai fatto caso alla tosse insistente di mamma spero», disse la donna in tono inquisitorio.
Dall’altra parte nessuna risposta.
Senza scomporsi affatto la sorella continuò.
«Le resta poco. Il dottore Mineo che la segue da anni m’ha telefonato l’altro ieri. Era affranto come da copione. Mi confidava in via ufficiosa, perché a quanto pare mamma non vuole che si sappia. Strenuamente legata alla vita, non so come faccia quella donna...» e si fermò, stizzita volgendo lo sguardo verso la cucina, «Comunque le resta davvero poco, è questione di mesi, se va bene, l’ha detto il medico e non trovo motivo per cui non credergli. Ne capirà qualcosa quel tipo per tutti i soldi che si prende a visita.»
Si fermò, restando in attesa di un minimo cenno d’interesse da parte del fratello, che svogliato lanciava occhiate entro la stanza senza soffermarsi su nulla.
«Mamma ha fatto testamento, sai? »
«No» rispose finalmente Giulio, quasi per inerzia, mentre continuava ad accarezzare con lo sguardo tutte le memorie del padre, e si stupiva a rivederlo, vivo, dietro la scrivania, a scartabellare tra le carte sempre confuse del suo lavoro. Ricordò come certe volte gli aveva chiesto aiuto per mettere in ordine, tra le bolle d’accompagnamento, le fatture, i resi, e ogni piccolo documento dell’attività che catalogava secondo principî a molti sconosciuti.
«Ecco, adesso lo sai? » continuò la sorella incurante del malinconico viaggio a ritroso di Giulio.
«Quindi? » chiese senza alcun interesse il fratello.
«Quindi, ti comunico che ha diviso tutto in parti uguali.»
Giulio sorrise. «Mamma è sempre stata così, idealista. Forse magari pensavi di aver un trattamento di favore perché le sei stata vicina, ma come vedi, l’idea vince sulla materia deperibile che ci compone», affermò con un sorriso ironico che voleva pungere l’orgoglio della sorella.
Inaspettatamente la donna esplose in una fragorosa risata. Un misto di sfrenata allegria e di rabbia mal contenuta.
Giulio rimase a guardarla. Ricordava bene quanto la sorella fosse stata bella, tutti le andavano dietro, e i compagni del liceo facevano a gara per venire a studiare in casa, nella speranza di poter scorgere un lembo di pelle scoperta della sorella, sogno erotico di tutta la sua generazione. Adesso se ne stava davanti a lui una donna esageratamente curata. Con gli zigomi tirati in alto, diversi dalle forme morbide e delicate che l’avevano fatta meravigliosa adolescente, le labbra cariche di rossetto, gli occhi infossati, e le mani rinsecchite. E poi la postura! Giulio avvertiva che si fosse incurvata, dando un’immagine grottesca di sé. Niente più dell’altezzosa e regale andatura di fiera bellezza consapevole, con la quale inebriava il cammino al suo passaggio.
Giulio aveva davanti una caricatura di ciò che era stato un tempo la sorella, che sorrideva distorcendo i segni di una mutata bellezza. In qualche modo quella visione lo sdegnava, lo infastidiva. Volse lo sguardo verso la libreria. Ma la sorella chiese attenzione.
Battè il palmo sullo scrittoio.
«Idiota», esclamò, «lo sei sempre stato. Sempre impacciato nel capire le cose. La vera natura delle cose. Cocco di mamma anche quando te ne sei sbattuto i coglioni di quello che era successo alla mamma. E adesso pontifichi da vecchio saggio sugli ideali di tua madre, di una donna che sai riconoscere appena. E soltanto entro le mura di questo piccolo castello dorato. Ma non ti rendi conto? Non capisci? Guarda ogni cosa in casa. Pare che il tempo scorra fuori da queste mura, e non qua dentro. Ogni cosa s’è fermata. Dieci anni fa. Non permette a nessuno di spostare nulla da allora. Mette in disparte i regali che le amiche o io o qualcun altro s’ostina a fare a quella vecchia pazza, questo è diventato mamma, tanto furba da non farlo notare veramente. Li fa mettere in cantina, perché nulla deve essere diverso rispetto a dieci anni fa. Quella donna tu la consideri un’idealista? E poi non hai capito un cazzo, come al solito fratellino. Ha sì diviso in parti uguali, ma tieniti forte, anzi siediti, credimi, sarà meglio per te, rischieresti di fracassare sul pavimento quella testa di cazzo che ti ritrovi.»
Concluse con violenza la sorella, che era riuscita, se possibile, a stravolgere ancor di più i tratti del viso.
Giulio provò a rispondere ma sentiva di non averne la forza. Né la volontà. Da quando ricordava era stata sempre una lotta con la sorella. Per una supremazia sterile, in cui la vera dominante rimaneva la madre. Il margine delle loro azioni si svolgeva nelle zone di non interesse della madre. Dunque quasi nulla era stata la loro libertà.
Adesso, ciò che aveva profondamente odiato nella madre, lo ritrovava negli occhi della sorella, animati da una violenza che però era sconosciuta all’anziana signora.
«Divide tutto in parti uguali, mio caro coglioncello. Ma non in DUE parti uguali. Tieniti forte», disse riproponendo la risata isterica di pochi minuti prima. «Cinque parti uguali, a te fratellino caro toccherà un quinto della giostra.»
Giulio rinculò, come colpito da uno sparo accidentale, senza esser riuscito a capire il punto d’origine. Guardò sperso gli occhi furiosi della sorella, che parve acquisire una maggiore calma.
«Provo a farti capire un po’ meglio la questione, mio bel giovane inconsistente dalle idee sognanti che non hai mai provato a far poggiare per terra. La vecchia», e sottolineò la parola con un odio che mai Giulio avrebbe pensato potesse venir fuori da una figlia verso la madre, e sputacchiando di rabbia continuò, «ha pensato bene di considerare la famiglia in maniera allargata e senza alcuna distinzione. Dunque io, tu, i miei due figli e la nostra Ginetta. Sì, caro mio, anche quell’ebete rientra a tutti gli effetti nella famiglia da cui a veder bene è stato gentilmente scartato il mio consorte. Dunque ha applicato la linea di sangue a volerci vedere una logica folle in questa scelta, considerando la sguattera alla nostra stregua. E non è tutto. I miei figli dovranno laurearsi a pieni voti, così ha fatto mettere la vecchia nel testamento, per poter beneficiare della loro parte, che altrimenti andrà alla parrocchia di don Saverio.»
Una lama di gelo tagliò l’aria che divideva i due fratelli. Senza averne consapevolezza Giulio si ritrovò con le gambe piegate e la punta del culo, miracolosamente poggiata pesantemente sulla sedia, che lo aveva frenato in quell’istantanea caduta.
Per tutta la vita Giulio s’era come sentito scippato di qualcosa. Mancante. Certe volte durante la notte l’assaliva il pensiero di ritrovarsi, al mattino, senza una gamba, cieco d’un occhio, sordo d’orecchi, senza possibilità di parola, mai privo di vita, perché a quel punto non avrebbe potuto avvertirne la mancanza, ne era certo. Quell’incompiutezza lo aveva accompagnato come un’ombra lunga e lugubre durante tutto il cammino di una vita che egli ben sapeva essere misera, aldilà dell’acredine con cui la sorella lo aveva sottolineato.
La vita di Giulio poteva dirsi defilata, ai margini di altre esistenze cui per sopravvivere s’era aggrappato. La madre, la sorella stessa, qualche amico d’infanzia, e poi le donne, che scorgendo in lui l’animo di un povero cucciolo d’accudire si alternavano in quell’opera di carità. Eppure, nonostante la buona volontà con la quale coccolavano il piccolo, finivano sempre per uscirsene fuori esasperate dalle sue subdole paranoie. E le storie si concludevano nel peggiore dei modi. Come era accaduto all’ultima, tale Clara, che dopo appena un anno, aveva gettato la spugna e un paio di stoviglie sulla faccia dello smarrito compagno, che negli ultimi mesi s’ostinava a vederla con altri uomini senza che la povera Clara ne avesse occasione né volontà. Era sempre così, le insicurezze di Giulio prendevano forma e voce e colore in pensieri che non avevano riscontro nella realtà delle cose, ma che invadevano in maniera così pressante la sua mente da uscirne fuori come fossero reali.
Adesso se ne stava lì, smarrito ancora una volta, con la sensazione d’essere stato nuovamente scippato. Sebbene non riuscisse a definire concretamente da cosa, visto che la fortuna aveva sempre assistito il suo tedio esistenziale, portandolo a ricoprire lavori ottimamente retribuiti. Pensava in qualche modo d’esser stato defraudato dal titolo di figlio, nel momento in cui la sorella gli aveva illuminato la vicenda ponendo la servetta rumena al pari dei due rampolli.
Il patrimonio dei Ficuzza era notevole, senza dubbio, e proveniva da tre generazioni di brillanti commercianti, affaristi, in molti casi senza molti scrupoli, che, allargando le competenze dalla legna a prodotti lavorati, erano riusciti a metter su un ingente proprietà ramificata. E tutto finiva nelle mani di donna Caterina, l’unica superstite. Lentamente il tempo aveva reciso i rami di quell’albero, fino a pochi anni prima rigoglioso.
Un incidente spazzò di netto la famiglia di zio Sante fratello del padre di Giulio. E con lui zia Assunta e i cugini Aldo, Margherita e Santa, che Giulio s’era scoperto ad amare nemmeno adolescente. Finirono dritti oltre il burrone a causa di un’incauta manovra del guidatore. Rimaneva zia Carla, eterea, snob perfino che, non avendo mai piegato la schiena e le dita in attività che potessero lontanamente dirsi lavoro, non s’era mai fatta mancare amanti e corteggiatori, senza poi lasciare al mondo traccia del suo passaggio. Era morta in un villaggio africano, per febbre malarica, neppure cinquantenne.
Quella triste famiglia lasciava un solco nella città di appartamenti e ville e infiniti magazzini affittati a molteplici attività che costituivano rendite fruttuose per generazioni.
Il tarlo paranoico s’insinuò nella debole mente di Giulio e vide Gina architettare ogni cosa, ruffiana e docile serva con un fine ben preciso, prendersi ogni cosa, ad ogni costo. E forse lo stesso don Saverio, che aveva in ogni modo cercato di affascinare la vecchia (e qui gli venne in mente il tono con cui la sorella aveva definito la madre) affinché donna Caterina si ricordasse della chiesa nel momento di lasciar qualcosa. Ecco, la questione era abbastanza chiara agli occhi deviati del giovane. Tutto prestabilito affinché lui rimanesse senza nulla. In un certo modo pensò che anche la sorella fosse coinvolta. Non aveva lei acconsentito all’ingresso di quella serpe in casa? Non l’aveva scelta proprio lei su indicazione del parroco?
Era in corso un preciso tentativo da parte di molti di fotterlo per bene.
Ne era sicuro.
Tanto da scorgere nel sorriso con cui Caterina l’accolse all’ingresso della cucina il marchio di tutta quella operazione.
Non chiuse occhio per una settimana intera. E durante la notte i pensieri lo invadevano devastandolo. Mangiava poco, e parlava meno. Ascoltava però con la massima attenzione le due donne confabulare. Le seguiva, distrattamente, come stesse portando avanti una segretissima indagine. Non usciva quasi più di casa, o lo faceva ad orari in cui, nella sua mente ormai quasi in frantumi, era difficile per le donne ordire qualcosa alle sue spalle.
Usciva a notte inoltrata.
Finiva sempre al solito pub fino alle prime luci dell’alba. Poi, seguiva il proprietario per alcune centinaia di metri, come un cagnone zuppo d’alcol e senza meta. certe volte rincasava fortuitamente, completamente smarrito riusciva a riconoscere il chiosco dei giornali ancora serrato e da lì pochi passi e avrebbe lasciato il corpo sempre più stressato sul letto. Talvolta si fermava nel quartiere in cui una decina di somale discinte scaldavano l’aria e l’anima dei passanti, ma il freddo che avvertiva non era di quel genere, dunque se ne ritornava ancora più gelido per quel rantolo consumato in piedi, dietro l’angolo alla vista di molti.
Non dormiva da settimane, e gli occhi parevano venir fuori lentamente dalle orbite, mentre la madre provava a consolarlo, ogni giorno a pranzo. Eppure le dolci parole che non avevano alcun intento se non quello di provare a confortare l’anima in pena del figlio, venivano come tutto fraintese da Giulio, che scorgeva in ogni inflessione, nel minimo accento carezzevole, un sordido inganno tramato dalle due donne alle sue spalle.
C’erano giorni in cui abbandonava completamente il compito che s’era assegnato, cioè quello di controllare le sue nemiche, per fare un giro delle immense proprietà in giro per la città. E armato di un piccolo taglierino lasciava sul ferro delle cancellate, sul legno fradicio delle palizzate la sua firma, come un animale che segnava il territorio.
Era preda di forti deliri paranoici in quelle occasioni.
Alcuni abitanti di una zona, in particolare, dopo aver notato per ore, lungo tutta una mattinata, quello strano tizio aggirarsi attorno ad un magazzino abbandonato chiamarono la polizia, che in tranquillo ritardo giunse a chiedere i documenti all’uomo.
«Perché? » chiese con un tono stridulo Giulio.
«Ci dia i documenti, cortesemente, è un controllo di routine, nulla di preoccupante, ma ci favorisca i documenti, le ripeto» disse pacatamente l’agente.
Visibilmente scosso Giulio disse, con un giro di parole difficilmente comprensibile, che non li aveva con sé, disse che quel magazzino era suo, da sempre, sottolineò da sempre, lasciando perplessi i poliziotti, disse anche che non c’era nulla di mare nell’andar a far visita ai nostri figli, e le sue proprietà altro non erano che figli, per lui che non aveva voluto averne di carne. Parlò anche dell’amore, di quell’amore che abbiamo dentro e che va riversato verso i nostri figli. Chiese se gli agenti ne avessero, e se riuscissero a dar loro tutto l’amore che meritavano così come lui faceva verso le proprietà.
I due poliziotti si guardarono perplessi, e gentilmente invitarono l’uomo a salire sulla volante. Giulio li fissò e poi esplose in una sonora risata. Alla fine salì, con l’animo di un bimbo che prova un nuovo gioco.
Il cognato andò a riprenderlo dopo due ore estenuanti in cui gli agenti non riuscirono a cavare una semplice informazione: l’indirizzo di casa. Giulio aveva parlato loro incessantemente per tutto il tempo dell’importanza della proprietà che ci tiene legati all’esistenza terrena, l’unica possibile. La proprietà delle cose infatti ci rende vivi, senza niente da possedere non saremmo nulla in questo mondo, affermava l’uomo completamente rapito ed estasiato dalle sue idee.
Caterina non fu informata dell’accaduto, e il cognato fece finta d’aver incontrato per caso Giulio e averlo accompagnato a casa. Giulio del resto aveva quasi dimenticato tutto, o di certo il perché di quella particolare giornata. Si andava delineando in maniera lucida e compiuta la soluzione al problema. La contromossa all’inganno era lì, davanti ai suoi occhi, e rimase a sorridere, come un ebete, guardandosi allo specchio della sua camera, picchiando il palmo delle mani sulla fronte, come a volersi ricordare quant’era facile risolvere quel problema, e come lui, stupidamente fosse giunto così tardi alla soluzione.
Il temporale illuminava a giorno la notte. La pioggia batteva incessante le tegole antiche della vecchia casa, umida e fredda. Le donne erano andate a dormire da ore. Giulio se ne stava in silenzio ad ascoltare il fragore della natura, che si scatenava colpendo ogni cosa. Eppure lui era salvo, al riparo, in quella proprietà che la sua famiglia s’era tramandata di generazione in generazione, così come la vita stessa. Dunque andava preservata dall’inganno.
Verso le quattro del mattino entrò leggero come un ombra nella camera di Gina. Rapido come un rapace si fiondò sulla donna. Non durò molto, le braccia forti e pesanti dell’uomo, i muscoli tesi e gli occhi iniettati di sangue, spensero in pochi minuti il respiro della badante. Il cucino premuto con ostinazione sul volto della donna le mozzò il respiro. Non fece neppure in tempo ad abbozzare una difesa. Dal sonno della stanchezza passò quasi direttamente alla veglia della morte.
Giulio non degnò di uno sguardo il volto stravolto della donna, che rimaneva esanime con il terrore disegnato sulle labbra. Si alzò diretto verso la camera della madre, quella donna che aveva organizzato tutto il piano per privarlo d’ogni cosa, dunque della vita stessa. Era, in fondo, per legittima difesa che agiva a quel modo. Difendeva la sua sopravvivenza, questo s’era detto in tutta la giornata pianificando la soluzione che gli era balzata agli occhi d’improvviso.
Caterina non si svegliò neppure, a Giulio parve di sentire un suono particolare, come una rottura di qualcosa, ma non fece caso. Rimase qualche istante in più con le mani pressate sul cuscino sopra al volto della madre.
Poi si vestì e uscì nella pioggia.
Lo ritrovarono un paio di giorni dopo, farneticante.
Il funerale delle donne fu celebrato quattro giorni dopo l’accaduto, il tempo necessario ad espletare le analisi. Dalle quali risultava che la badante era morta per soffocamento, mentre alla signora Caterina era stato spezzato il collo.
La sorella, con un enorme paio d’occhiali scuri a coprirne il volto dolente apriva il corteo, stretta al braccio del marito. Accanto il dottor Mineo, figura di spicco della cittadina e rinomato medico, nonché amico di famiglia da sempre.
In una pausa s’avvicinò alla donna e con lieve imbarazzo provò a consolarla.
«Certo che Giulio, chi l’avrebbe detto», disse con la sua caratteristica parlata teatrale, «Particolare lo è sempre stato, certo, insicuro fino all’eccesso, ma da lì a diventare uno spietato omicida, della madre perfino nessuno l’avrebbe pensato mai. E pensare che Caterina era riuscita a sconfiggere con una forza incredibile il male che l’aveva piegata. La forza di tua madre è sempre stata ammirevole. Nonostante tutto si teneva ben salda alla vita, e potevi scorgere nei suoi occhi la gioia stessa di esserci, tra noi. Poi quella povera Gina, che donna, era stata la luce nuova che era riuscita a far risplendere tua madre. Che donna! Caterina. Mi mancherà, la sua dolcezza, la gentilezza nei modi, quel sorriso piccato quando la si prendeva in giro. Ma lei sempre salda sulle sue convinzioni. Che tragedia assurda. E proprio adesso che s’era completamente ristabilita da quel tumore alla gola. Tossiva talvolta, ma niente di ché. Il male era stato del tutto debellato. Ricordi con quanta gioia ti chiamai per riferirti delle analisi cara. sembrava quasi un miracolo, non c’era nessuna traccia del tumore, svanito. E adesso... adesso è tutto finito.»
Erano anni difficili quelli, tempi in cui molti del villaggio, con miseri fagotti sulle spalle e mani infreddolite su tasche sfondate dalla povertà, si mettevano in cammino verso ovest, nella speranza di trovare un luogo migliore.
Il viaggio verso l’occidente, ultima posta di un percorso fatto di insopportabile tedio.
Gina fu raccolta dall’amica di sempre, la bella Irina. Piacente donna che a molti era piaciuta ma a pochi s’era concessa. Inquieta e frustrata per una vita che non le aveva dato ciò che prometteva. Irina era una donna dal fare bambino, una donna stanca e stufa di mangiare minestra d’estate e d’inverno. Abitava in casa con la madre, senza che tra le due donne si fosse mai ricucito almeno idealmente quel cordone ombelicale che aveva reciso ogni legame fin dalla nascita della donna. Viveva con la madre perché aveva provato a farlo altrove, ma non le era convenuto. Viveva con la madre perché nella sua camera, ritagliata dallo sgabuzzino che il padre adoperava per conservare quel liquore venerato come una divinità, aveva costruito un mondo entro il quale soltanto lei trovava equilibrio. Fatto di riviste patinate d’alta moda e abitazioni di lusso, con famiglie sempre sorridenti ad accogliere visitatori a braccia aperte e tazze di té fumante.
Irina aveva vissuto a lungo tra le pareti di quella prigione, talvolta sovrastata dall’eco delle grasse risate del padre preda di mistiche trance e bicchierini su bicchierini vuotati come fossero respiro, adesso provava a uscirne fuori, per vedere realmente cosa si poteva trovare. Aveva sentito dire che verso occidente, in Italia, si poteva cavare qualcosa di più.
Come in un film americano, girato su una pellicola scadente e con un cast rabberciato all’ultimo istante, le donne partirono di prima mattina, con gli occhi pieni di lacrime. Belli e lucenti quelli di Irina, ancora più belli se possibile, chiari come un cielo sgombro di nuvole, e decisi nel vedersi davanti una vita migliore. Gina tratteneva i suoi tra le mani, ché non venissero fuori dalle botte prese, e piangeva.
Migravano, lasciandosi il passato alle spalle, mettendo strade sterrate, e ferrovie, chilometri e chilometri di binari arrugginiti, e mare, acqua salata, dolorosa per sanare le ferite ma indispensabile per rimarginarle, di speranza.
Giunsero a destinazione dopo un’odissea che nessun cantore provò mai a raccontare e si ritrovarono tra le braccia di Bogdan, che non era proprio Penelope, ma aveva una camera e un materasso sul quale poter spegnere l’umiliazione di quei giorni trascorsi come bestie.
Bogdan era un lontano cugino di Irina. Come sempre accade per i migranti, c’è un filo, seppur tenue, che ti spinge a muoverti, anche per sola inerzia, verso un punto distinto e lontano. Quel filo era Bogdan, un filo malmesso, morsicato, con gli occhi convergenti e la stretta ruvida, e labbra che non avevano mai conosciuto dolcezza.
Quando Irina si svegliò, in tutti i sensi, vide bene che la speranza d’occidente non era altro che miseria già conosciuta, soltanto spostata di qualche migliaia di chilometri verso ovest. Pianse, come una bimba delusa a cui è stata promessa una splendida bambola dai capelli dorati e invece viene proposto un barboncino spelacchiato e moribondo.
Ancora una volta la vita l’aveva accolta al mattino con la menzogna della realtà. Fredda, triste, racchiusa negli occhi piccoli e cisposi del cugino. Un volto così diverso da quello che la sua mente s’ostinava a vedere da renderne invisibile la presenza.
Bogdan fumava in silenzio e le guardava. Davano l’impressione, lì, strette l’una all’altra in quell’angolo umido della camera, d’essere topolini finiti in trappola, stanchi di scappare ancora, rassegnati verso il destino ineluttabile. Al ragazzo parve addirittura di sentirle squittire, ma non poteva essere che la sua malsana fantasia.
Fin da bambino aveva visto e rivisto la scena che adesso, era certo, avrebbe toccato con mano. La pelle candida della cugina, vanto del quartiere, che lo aveva spinto a non chiuder occhi la notte, quando da ragazzino immaginava tutto, perché nulla sapeva dell’amore. Adesso la preda era lì, davanti ai suoi piedi, completamente indifesa. Da buon cacciatore, quale la vita era riuscito ad addestrarlo, non addentò subito, ma attese, mellifluo alcuni giorni. Accarezzando i volti tirati, prima dell’una poi dell’altra, provando a sussurrare parole confortevoli, illudendole, ancora una volta, che qualcosa di buono era possibile.
Il quarto giorno spalancò le fauci per addentare il corpo di Irina, che nonostante il viaggio e l’ennesima sconfitta reagì, d’istinto, come chi ad un passo dalla morte, consapevole di esserci dentro, prova a divincolarsi. Così fece la donna, e fuggì, dall’unico filo che poteva tenerla in piedi, come una marionetta impazzita s’affidò al vento.
Gina rimase muta, sola, senza neppure le voglie di un cacciatore smarrito dalla fuga improvvisa della preda agguantata. Bogdan sputò sull’uscio della porta e uscì.
Quando ritornò, dopo alcune settimane, non trovò ombra di donne, e un morso allo stomaco lo colpì violentemente.
Avrebbe approfittato anche di Gina in quel frangente.
Pochi giorni dopo esser stata abbandonata da tutti, Gina si rimise in piedi, come le aveva insegnato la vecchia zia. Quella donna pontificava consigli da una sedia a dondolo scricchiolante come la lancetta di un orologio a pendolo arrugginita. Zia Anja c’era rimasta piantata su quella sedia, inchiodata, fin da bambina, quando la ruota d’un carro le passò senza chieder scusa sulla schiena. L’esile bimba, che rincorreva per strada farfalle insieme ad altri fragili occhi come i suoi, finì col ritrovarsi spenta prima di spiccare il volo. Eppure quella donna non pianse mai, almeno così ricordava Gina, aveva una parola gentile per chiunque e molti s’intrattenevano al tempo singolare di quell’orologio saggio. In fondo era l’unico modo per togliersi da lì, quello di parlare con la gente e di ascoltarne le storie.
Il ricordo della zia le asciugò gli occhi e la rimise in cammino.
Furono giorni che Gina volle dimenticare. Giorni in cui la sporcizia del mondo le si appiccicò addosso, e neppure le numerose docce, che alcune settimane dopo ebbe la possibilità di ripetere, riuscirono a cancellare del tutto.
Strinse a sé le braccia, come a volersi sentire nuovamente amata, e la spugna a sfregare la pelle, quasi a graffiarsi, per cancellare, ma scoprendosi allo specchio arrossata e quasi sanguinante, capì che era dalla mente che avrebbe dovuto scartar via il ricordo, e non c’era nessuna spugna in grado di farlo.
Si vestì, con le poche cose che aveva con sé, modesti indumenti strappati al passato e alla strada. Discese in sala. Ad attenderla c’era una donna sui quarantacinque anni, alta, un fisico da modella raggrinzita, curva su se stessa, con gli occhi piccoli e neri e le labbra serrate in un tentativo maldestro di sorriso accennato. Accanto un uomo florido, dalla barba folta e il sorriso largo. Due bimbi, seduti sulla poltrona la scrutavano, indicandola. Un’anziana signora, malinconica e assente, aveva incontrato per un attimo i suoi occhi, poi s’era voltata altrove, cercando in tv qualcosa di più interessante.
L’uomo parlò.
«Don Saverio l’ha segnalata a mia moglie, ha detto che è una brava donna, massaia, lavoratrice e seria. Abbiamo sempre tenuto in conto i consigli di don Saverio, che c’è stato spesso vicino e di conforto. Mia suocera, come vede, ha necessità d’assistenza, sebbene sia perfettamente lucida e su di sé. Mia moglie, impegnata tutto il giorno a lavoro, non può occuparsi della madre e dei figli in contemporanea, dunque ci è necessaria una persona di fiducia che tratti mia suocera come una madre. Come una madre! » - ripetè in tono enfatico - «Questo le chiedo. Sarà ben retribuita e non le mancherà nulla, se nulla farà mancare alla signora.»
Disse l’uomo, dando la sensazione di recitare un copione provato e riprovato.
Gina teneva le mani serrate per la paura di perdere l’ennesima occasione, tremava nell’animo, eppure cercava di nasconderlo. Aveva capito a sue spese, nelle interminabili settimane precedenti, che mostrare apertamente lo sguardo carico di timore attirava lo squallore del mondo. Provò a scuotere la testa in segno d’assenso, aveva capito, ma le veniva particolarmente difficile rispondere qualcosa di sensato in una lingua che non era la sua.
L’uomo avanzò di alcuni passi, le fu davanti e tese il braccio corpulento e peloso, uno dei tanti bracci che Gina aveva dovuto sopportare in silenzio, adesso gli tendeva una mano paffuta, che non voleva nulla da lei se non sancire l’inizio di una nuova speranza.
Da quel giorno Gina divenne la badante della signora Caterina, e forse qualcosa di più.
L’anziana signora, dopo anni e inaspettatamente, ritrovava la piacevole sensazione di sentirsi ascoltata, coccolata perfino, senza obblighi né rimproveri. Quei rimproveri che la figlia maggiore era solita distribuire con eccessiva generosità, unico campo in cui le era possibile esserlo.
Gina se ne stava lì, non usciva neppure per la pausa quotidiana che le era concessa, dalle cinque alle sei del pomeriggio, orario in cui per le strade tutte le badanti rumene, che avevano colonizzato un settore, s’abbellivano a festa e passeggiavano per le vie, ammiccando ai signorotti attempati che nascondevano sotto le patte umide di piscio ancora residui d’ardore giovanile.
Gina rimaneva a fianco di Caterina.
Bastarono poche settimane per cancellare quel distante «signora». Caterina le aveva intimato di darle del tu. E Gina con un sorriso che non pensava potesse appartenerle aveva acconsentito dicendo «Sì, signora», scatenando una sonora risata nell’anziana, col serio rischio di farle volar via la candida dentiera appena acquistata.
L’inverno trascorse dolcemente tra le due donne che entrarono in profonda confidenza al lume di un camino crepitante e una televisione sempre in sottofondo. Caterina, maestra d’elementari vecchio stampo, ritrovò a distanza di trent’anni una nuova alunna da formare, Gina, da parte sua, qualcuno da cui avere gratificazione umana.
«Caterina, io vado a fare spesa, te che serve? »
«La spesa, la spesa! Figlia mia, mettiamocelo l’articolo. Vado a fare la spesa», rimbrottava amorevolmente la signora ad ogni errore di Gina, che sorrideva come una bimbetta colta in fallo e puntualmente tornava a dimenticarsi di dover utilizzare quel maledetto articolo.
Raramente, le domeniche, la figlia, sempre più impettita, con prole e marito al seguito, veniva a degustare il pranzo, lamentandosi sempre di qualcosa. In cuor suo la donna capiva che negli occhi della madre s’era riaccesa una luce, e quella luce che scorgeva puntare ogni movimento della goffa donna straniera la irritava particolarmente. Ogni notte, di quei pranzi sdolcinati, sussurrava al marito «Che ne pensi? A me questa Gina sa di falso», ma l’uomo era troppo intento a resistere al suo imminente coito per darle la dovuta attenzione.
«Certe volte penso che sarebbe meglio spegnere tutto e andarsene via. Sì, cara. Penso proprio sia giusto così. Perché vivere in maniera ostinata senza nessuno stimolo equivale a morire, male. Come un animale che è sempre stato forte e vigoroso e poi d’improvviso si riscopre incapace di far tutto quello per cui ha vissuto. Certe volte avverto di essere così. Sento che ogni cosa scivola sulle mie spalle, e mi vedo incapace di trattenere alcunché.»
Caterina raccontava, confidava a filo di voce, mentre Gina stirava, e ascoltava. La donna, sebbene fosse restia a coniugare il verbo alla giusta persona e inserire l’articolo opportuno, comprendeva benissimo il disagio dell’anziana signora. In un certo senso l’aveva vissuto, e forse continuava ad avvertirne il peso in quella sua nuova quotidianità. Poi, rifletteva, e ammetteva a se stessa che non c’era possibilità di paragone tra ciò che aveva vissuto e il presente. Quella speranza ritrovata, per una vita semplice, certo, senza ambizioni né pretese, ma bastevole a cancellare, seppur lentamente, l’onta degli ultimi due anni. Perché in fondo, l’eco della voce del marito, rude e violenta, s’affievoliva sempre più nelle notti insonni. Notti che si contavano sulla punta delle dita, finalmente. Adesso Gina dormiva, e russava talvolta, a quanto le raccontava una Caterina divertita.
In quell’istante, però, gli occhi della signora non erano allegri, come quando sorridente puntava ogni difetto della sua badante, erano macchiati di un carico di malinconia che Gina non era abituata a vedere. Le pupille si muovevano placidamente, e parevano seguire il filo delle parole, quel filo che sostenuto dalle mani tremanti si spostava da una parte all’altra della cucina. Certe volte l’anziana signora provava a scuotersi sulla sedia, e rimettersi in sesto, poi tornava a scivolare in una postura che le era difficile, se non impossibile, cambiare.
La sua voce raccontava di quella difficoltà, con dolce rassegnazione.
«Tutti raccontano che ero una bellissima donna», diceva con un sorriso caricò di civettuosa vanità, «e puoi vedere bene cosa ne rimane adesso. In questa sedia ci sono i resti, i resti di una sconfitta. Il tempo vince cara mia, ogni cosa. Anche la più fulgida bellezza.»
«Ma tu ancora bella signora», disse convinta Gina, volendo sollevare il morale dell’anziana signora.
«Ah! », esclamò la signora, sollevando la mano destra come a voler scacciare una mosca fastidiosa dal viso. «Lascia perdere figliola, scusami lo sfogo, so bene quanto sia altro il dolore che hai dentro. Vediamo un po’ cosa dicono invece questi matti che litigano per le più stupide questioni. Sorridiamo un po’ della loro stupidità. Forse è una delle poche cose divertenti che ci resta da fare.»
Gina gettava un occhio ai vestiti da stirare, e poi passava lo sguardo amorevolmente sui capelli sfibrati della signora che sussultavano ogni volta che Caterina non riusciva a trattenere il sorriso per quelle liti artefatte che riempivano i pomeriggi catodici delle case italiane.
Un giorno Gina, mettendo in ordine alcune stanze abbandonate di quella casa immensa, si ritrovò di fronte ad una serie di scatoloni colmi di dischi, li lasciò all’angolo e preparando la cena accennò la cosa alla signora.
«Ah! », esclamò ancora una volta, così come faceva in tutte quelle occasioni che riaccendevano i ricordi. «Erano del cognato di mio marito. Un folle, credimi. Viaggiava di continuo. Riuscì a sperperare una dote, seppellendo sua moglie di risate, e riempiendo lo studio di Anselmo di quei polverosi scatoloni. Jazz, tutto Jazz. Dischi a centinaia. E ogni volta che ritornava a casa, perché dopo la morte di Alda venne ad abitare qui da noi, ecco ogni volta che ritornava dall’irrinunciabile viaggio, portava con sé una decina di quei vinili, e ci sottoponeva, come una tortura, all’ascolto guidato spiegandoci a modo suo ogni cosa, ogni strumento e perché e raccontando le scapestrate vite dei suoi musicisti preferiti. A me non dispiacevano, seppure non ne capissi granché ma Anselmo non li sopportava per nulla. Tanto che Mario fu costretto ad ascoltarli solamente quando mio marito era fuori per lavoro o al circolo del paese. Però se a te piace, magari potresti provare a metterne su qualcuno. Vedi, in salotto, e non so se funzioni ancora, c’è un giradischi, a quanto si dice meraviglioso, Mario se ne faceva vanto. Potresti provare, magari gira ancora.»
Ma Gina era troppo presa dalle faccende domestiche, s’era messa in testa di lustrare tutta la mobilia, l’argenteria, spolverare ogni angolo, e portava con sé gli occhi della signora, su quella seggiola girevole e moderna, e il ronzio del piccolo motorino che annunciava il suo arrivo. Non rimanevano mai distanti, e neppure in silenzio.
Gina per la prima volta, come neppure era riuscita a fare con don Saverio, aveva tirato fuori tutto lo sporco che tratteneva dentro, raccontando a Caterina ogni cosa. E nel momento in cui lo aveva fatto s’era sentita migliore, senza capire perché. Caterina, da parte sua, aveva confidato all’amica il dolore che le lacerava il petto, e che tuonava nelle notti di particolare umidità, raccogliendo i singulti dolorosi di una tosse che non voleva saperne di sparire.
Quel dolore si chiamava Giulio, e aveva quarant’anni. Si e no lo ritrovava a Natale, ma non sempre, veniva, litigava con la sorella, coccolava un po’ la madre, freddamente, e poi ritornava nell’oblio da cui era venuto e del quale nessuno sapeva nulla.
Da qualche giorno gli era arrivata, tramite la figlia, la novità che era stato mollato dall’ultima donna. A quanto si sapeva, Giulio l’aveva ritrovata con un altro, e al parapiglia che ne era seguito, con annessa chiamata ai carabinieri, era stato costretto ad abbandonare la casa. Che neppure era sua, per altro.
Dunque la pena per quello sconosciuto del figlio, immaginato in mezzo alla strada, aumentava, così come l’intensità della tosse.
Alcune settimane dopo, e ben distanti dal Natale, Gina si ritrovò gli occhi smarriti di quell’uomo. La barba incolta, il vestito trasandato e una bava d’ebbrezza che accompagnava le parole, che entrarono senza fare tanti complimenti in casa. Chiese alla madre, seccato, chi fosse quella donna e perché. Allora esplose in invettive volgari contro la sorella, incapace di provare amore verso chi le aveva consegnato tutta la sua vita, diceva in tono grottesco, incapace di badare alla madre, che abbandonava nelle mani di una sconosciuta, e per giunta rumena, disse senza darsi premura di parlare a bassa voce affinché Gina non venisse umiliata dalle sue affermazioni.
Caterina arrossì, come se le parole del figlio, bieche, l’avessero colpita nell’animo. Chiese in tono vigoroso, per quello che gli era possibile, che il figlio tacesse. Ma Giulio continuava in un’arringa senza senso che vedeva tutto il mondo colpevole di tradimento nei suoi confronti.
La donna sembrò sollevarsi dalla sedia, e con voce forte e salda disse:
«Con che diritto ti presenti qui, in casa mia, e urli contro chi non conosci neppure. Con che diritto aggredisci tua sorella, se per più di un anno non s’è avuta notizia di te? ».
Caterina era tornata l’autorevole donna d’un tempo, quando le bastava semplicemente un cenno per metter ordine nel mondo circostante, quel tempo in cui la sola inflessione di voce indirizzava il cammino dei suoi alunni, dei figli, del marito stesso. La forte personalità della donna non era rimasta inchiodata alla sedia, ma si sollevava come spirito sulle parole che indirizzava veementi contro il figlio.
Giulio indietreggiò di qualche passo, e si lasciò cadere sulla sedia. Portò le mani alla fronte e si nascose. I due rimasero in silenzio per più di mezz’ora. Sembrava quasi che il figlio si fosse addormentato. Poi, come ripresosi da un incubo, sollevò il capo e si guardò intorno. Disorientato. Dava l’impressione di non sapere dov’era finito. Spaesato e impaurito guardò la madre, poi le si avvicinò inginocchiandosi e poggiandole, come faceva da bambino, la testa in grembo.
Le mani scheletriche della donna passarono sui capelli arruffati e unti, intrecciati di sporcizia e sudore. Carezzò le spalle grandi del figlio e lo invitò a far un bel bagno. Gina, la rumena, disse con una punta di acre rimprovero, avrebbe preparato tutto.
Fu così che Giulio si stabilì in casa della madre insinuandosi tra le maglie della trama che in quegli ultimi mesi le donne avevano cucito per tenersi l’un l’altra legate, ed entrambe legate alla vita.
L’irruenza e la forza dell’uomo non impiegarono molto tempo a sfibrarne il tessuto.
La miccia scatenante del tragico epilogo s’accese in una domenica di novembre. La figlia con famiglia al seguito finalmente accettava l’ennesimo invito di Caterina a pranzare tutt’insieme. Gina era stata messa all’opera di buon mattino, il pasto era abbondante come sempre, e ricco di varie portate. Stranamente tutto filò liscio. I figli s’ignorarono cordialmente, mentre Giulio si divertiva a giocare con i nipoti, come se avesse scoperto d’averli in quel momento. Il cognato era troppo impegnato a riempir la bocca per parlare. Al momento del caffè la figlia chiese di parlare in disparte al fratello.
Si accomodarono nello studio che era stato del padre, e che dalla morte, avvenuta dieci anni prima, se n’era rimasto tristemente abbandonato.
«Hai fatto caso alla tosse insistente di mamma spero», disse la donna in tono inquisitorio.
Dall’altra parte nessuna risposta.
Senza scomporsi affatto la sorella continuò.
«Le resta poco. Il dottore Mineo che la segue da anni m’ha telefonato l’altro ieri. Era affranto come da copione. Mi confidava in via ufficiosa, perché a quanto pare mamma non vuole che si sappia. Strenuamente legata alla vita, non so come faccia quella donna...» e si fermò, stizzita volgendo lo sguardo verso la cucina, «Comunque le resta davvero poco, è questione di mesi, se va bene, l’ha detto il medico e non trovo motivo per cui non credergli. Ne capirà qualcosa quel tipo per tutti i soldi che si prende a visita.»
Si fermò, restando in attesa di un minimo cenno d’interesse da parte del fratello, che svogliato lanciava occhiate entro la stanza senza soffermarsi su nulla.
«Mamma ha fatto testamento, sai? »
«No» rispose finalmente Giulio, quasi per inerzia, mentre continuava ad accarezzare con lo sguardo tutte le memorie del padre, e si stupiva a rivederlo, vivo, dietro la scrivania, a scartabellare tra le carte sempre confuse del suo lavoro. Ricordò come certe volte gli aveva chiesto aiuto per mettere in ordine, tra le bolle d’accompagnamento, le fatture, i resi, e ogni piccolo documento dell’attività che catalogava secondo principî a molti sconosciuti.
«Ecco, adesso lo sai? » continuò la sorella incurante del malinconico viaggio a ritroso di Giulio.
«Quindi? » chiese senza alcun interesse il fratello.
«Quindi, ti comunico che ha diviso tutto in parti uguali.»
Giulio sorrise. «Mamma è sempre stata così, idealista. Forse magari pensavi di aver un trattamento di favore perché le sei stata vicina, ma come vedi, l’idea vince sulla materia deperibile che ci compone», affermò con un sorriso ironico che voleva pungere l’orgoglio della sorella.
Inaspettatamente la donna esplose in una fragorosa risata. Un misto di sfrenata allegria e di rabbia mal contenuta.
Giulio rimase a guardarla. Ricordava bene quanto la sorella fosse stata bella, tutti le andavano dietro, e i compagni del liceo facevano a gara per venire a studiare in casa, nella speranza di poter scorgere un lembo di pelle scoperta della sorella, sogno erotico di tutta la sua generazione. Adesso se ne stava davanti a lui una donna esageratamente curata. Con gli zigomi tirati in alto, diversi dalle forme morbide e delicate che l’avevano fatta meravigliosa adolescente, le labbra cariche di rossetto, gli occhi infossati, e le mani rinsecchite. E poi la postura! Giulio avvertiva che si fosse incurvata, dando un’immagine grottesca di sé. Niente più dell’altezzosa e regale andatura di fiera bellezza consapevole, con la quale inebriava il cammino al suo passaggio.
Giulio aveva davanti una caricatura di ciò che era stato un tempo la sorella, che sorrideva distorcendo i segni di una mutata bellezza. In qualche modo quella visione lo sdegnava, lo infastidiva. Volse lo sguardo verso la libreria. Ma la sorella chiese attenzione.
Battè il palmo sullo scrittoio.
«Idiota», esclamò, «lo sei sempre stato. Sempre impacciato nel capire le cose. La vera natura delle cose. Cocco di mamma anche quando te ne sei sbattuto i coglioni di quello che era successo alla mamma. E adesso pontifichi da vecchio saggio sugli ideali di tua madre, di una donna che sai riconoscere appena. E soltanto entro le mura di questo piccolo castello dorato. Ma non ti rendi conto? Non capisci? Guarda ogni cosa in casa. Pare che il tempo scorra fuori da queste mura, e non qua dentro. Ogni cosa s’è fermata. Dieci anni fa. Non permette a nessuno di spostare nulla da allora. Mette in disparte i regali che le amiche o io o qualcun altro s’ostina a fare a quella vecchia pazza, questo è diventato mamma, tanto furba da non farlo notare veramente. Li fa mettere in cantina, perché nulla deve essere diverso rispetto a dieci anni fa. Quella donna tu la consideri un’idealista? E poi non hai capito un cazzo, come al solito fratellino. Ha sì diviso in parti uguali, ma tieniti forte, anzi siediti, credimi, sarà meglio per te, rischieresti di fracassare sul pavimento quella testa di cazzo che ti ritrovi.»
Concluse con violenza la sorella, che era riuscita, se possibile, a stravolgere ancor di più i tratti del viso.
Giulio provò a rispondere ma sentiva di non averne la forza. Né la volontà. Da quando ricordava era stata sempre una lotta con la sorella. Per una supremazia sterile, in cui la vera dominante rimaneva la madre. Il margine delle loro azioni si svolgeva nelle zone di non interesse della madre. Dunque quasi nulla era stata la loro libertà.
Adesso, ciò che aveva profondamente odiato nella madre, lo ritrovava negli occhi della sorella, animati da una violenza che però era sconosciuta all’anziana signora.
«Divide tutto in parti uguali, mio caro coglioncello. Ma non in DUE parti uguali. Tieniti forte», disse riproponendo la risata isterica di pochi minuti prima. «Cinque parti uguali, a te fratellino caro toccherà un quinto della giostra.»
Giulio rinculò, come colpito da uno sparo accidentale, senza esser riuscito a capire il punto d’origine. Guardò sperso gli occhi furiosi della sorella, che parve acquisire una maggiore calma.
«Provo a farti capire un po’ meglio la questione, mio bel giovane inconsistente dalle idee sognanti che non hai mai provato a far poggiare per terra. La vecchia», e sottolineò la parola con un odio che mai Giulio avrebbe pensato potesse venir fuori da una figlia verso la madre, e sputacchiando di rabbia continuò, «ha pensato bene di considerare la famiglia in maniera allargata e senza alcuna distinzione. Dunque io, tu, i miei due figli e la nostra Ginetta. Sì, caro mio, anche quell’ebete rientra a tutti gli effetti nella famiglia da cui a veder bene è stato gentilmente scartato il mio consorte. Dunque ha applicato la linea di sangue a volerci vedere una logica folle in questa scelta, considerando la sguattera alla nostra stregua. E non è tutto. I miei figli dovranno laurearsi a pieni voti, così ha fatto mettere la vecchia nel testamento, per poter beneficiare della loro parte, che altrimenti andrà alla parrocchia di don Saverio.»
Una lama di gelo tagliò l’aria che divideva i due fratelli. Senza averne consapevolezza Giulio si ritrovò con le gambe piegate e la punta del culo, miracolosamente poggiata pesantemente sulla sedia, che lo aveva frenato in quell’istantanea caduta.
Per tutta la vita Giulio s’era come sentito scippato di qualcosa. Mancante. Certe volte durante la notte l’assaliva il pensiero di ritrovarsi, al mattino, senza una gamba, cieco d’un occhio, sordo d’orecchi, senza possibilità di parola, mai privo di vita, perché a quel punto non avrebbe potuto avvertirne la mancanza, ne era certo. Quell’incompiutezza lo aveva accompagnato come un’ombra lunga e lugubre durante tutto il cammino di una vita che egli ben sapeva essere misera, aldilà dell’acredine con cui la sorella lo aveva sottolineato.
La vita di Giulio poteva dirsi defilata, ai margini di altre esistenze cui per sopravvivere s’era aggrappato. La madre, la sorella stessa, qualche amico d’infanzia, e poi le donne, che scorgendo in lui l’animo di un povero cucciolo d’accudire si alternavano in quell’opera di carità. Eppure, nonostante la buona volontà con la quale coccolavano il piccolo, finivano sempre per uscirsene fuori esasperate dalle sue subdole paranoie. E le storie si concludevano nel peggiore dei modi. Come era accaduto all’ultima, tale Clara, che dopo appena un anno, aveva gettato la spugna e un paio di stoviglie sulla faccia dello smarrito compagno, che negli ultimi mesi s’ostinava a vederla con altri uomini senza che la povera Clara ne avesse occasione né volontà. Era sempre così, le insicurezze di Giulio prendevano forma e voce e colore in pensieri che non avevano riscontro nella realtà delle cose, ma che invadevano in maniera così pressante la sua mente da uscirne fuori come fossero reali.
Adesso se ne stava lì, smarrito ancora una volta, con la sensazione d’essere stato nuovamente scippato. Sebbene non riuscisse a definire concretamente da cosa, visto che la fortuna aveva sempre assistito il suo tedio esistenziale, portandolo a ricoprire lavori ottimamente retribuiti. Pensava in qualche modo d’esser stato defraudato dal titolo di figlio, nel momento in cui la sorella gli aveva illuminato la vicenda ponendo la servetta rumena al pari dei due rampolli.
Il patrimonio dei Ficuzza era notevole, senza dubbio, e proveniva da tre generazioni di brillanti commercianti, affaristi, in molti casi senza molti scrupoli, che, allargando le competenze dalla legna a prodotti lavorati, erano riusciti a metter su un ingente proprietà ramificata. E tutto finiva nelle mani di donna Caterina, l’unica superstite. Lentamente il tempo aveva reciso i rami di quell’albero, fino a pochi anni prima rigoglioso.
Un incidente spazzò di netto la famiglia di zio Sante fratello del padre di Giulio. E con lui zia Assunta e i cugini Aldo, Margherita e Santa, che Giulio s’era scoperto ad amare nemmeno adolescente. Finirono dritti oltre il burrone a causa di un’incauta manovra del guidatore. Rimaneva zia Carla, eterea, snob perfino che, non avendo mai piegato la schiena e le dita in attività che potessero lontanamente dirsi lavoro, non s’era mai fatta mancare amanti e corteggiatori, senza poi lasciare al mondo traccia del suo passaggio. Era morta in un villaggio africano, per febbre malarica, neppure cinquantenne.
Quella triste famiglia lasciava un solco nella città di appartamenti e ville e infiniti magazzini affittati a molteplici attività che costituivano rendite fruttuose per generazioni.
Il tarlo paranoico s’insinuò nella debole mente di Giulio e vide Gina architettare ogni cosa, ruffiana e docile serva con un fine ben preciso, prendersi ogni cosa, ad ogni costo. E forse lo stesso don Saverio, che aveva in ogni modo cercato di affascinare la vecchia (e qui gli venne in mente il tono con cui la sorella aveva definito la madre) affinché donna Caterina si ricordasse della chiesa nel momento di lasciar qualcosa. Ecco, la questione era abbastanza chiara agli occhi deviati del giovane. Tutto prestabilito affinché lui rimanesse senza nulla. In un certo modo pensò che anche la sorella fosse coinvolta. Non aveva lei acconsentito all’ingresso di quella serpe in casa? Non l’aveva scelta proprio lei su indicazione del parroco?
Era in corso un preciso tentativo da parte di molti di fotterlo per bene.
Ne era sicuro.
Tanto da scorgere nel sorriso con cui Caterina l’accolse all’ingresso della cucina il marchio di tutta quella operazione.
Non chiuse occhio per una settimana intera. E durante la notte i pensieri lo invadevano devastandolo. Mangiava poco, e parlava meno. Ascoltava però con la massima attenzione le due donne confabulare. Le seguiva, distrattamente, come stesse portando avanti una segretissima indagine. Non usciva quasi più di casa, o lo faceva ad orari in cui, nella sua mente ormai quasi in frantumi, era difficile per le donne ordire qualcosa alle sue spalle.
Usciva a notte inoltrata.
Finiva sempre al solito pub fino alle prime luci dell’alba. Poi, seguiva il proprietario per alcune centinaia di metri, come un cagnone zuppo d’alcol e senza meta. certe volte rincasava fortuitamente, completamente smarrito riusciva a riconoscere il chiosco dei giornali ancora serrato e da lì pochi passi e avrebbe lasciato il corpo sempre più stressato sul letto. Talvolta si fermava nel quartiere in cui una decina di somale discinte scaldavano l’aria e l’anima dei passanti, ma il freddo che avvertiva non era di quel genere, dunque se ne ritornava ancora più gelido per quel rantolo consumato in piedi, dietro l’angolo alla vista di molti.
Non dormiva da settimane, e gli occhi parevano venir fuori lentamente dalle orbite, mentre la madre provava a consolarlo, ogni giorno a pranzo. Eppure le dolci parole che non avevano alcun intento se non quello di provare a confortare l’anima in pena del figlio, venivano come tutto fraintese da Giulio, che scorgeva in ogni inflessione, nel minimo accento carezzevole, un sordido inganno tramato dalle due donne alle sue spalle.
C’erano giorni in cui abbandonava completamente il compito che s’era assegnato, cioè quello di controllare le sue nemiche, per fare un giro delle immense proprietà in giro per la città. E armato di un piccolo taglierino lasciava sul ferro delle cancellate, sul legno fradicio delle palizzate la sua firma, come un animale che segnava il territorio.
Era preda di forti deliri paranoici in quelle occasioni.
Alcuni abitanti di una zona, in particolare, dopo aver notato per ore, lungo tutta una mattinata, quello strano tizio aggirarsi attorno ad un magazzino abbandonato chiamarono la polizia, che in tranquillo ritardo giunse a chiedere i documenti all’uomo.
«Perché? » chiese con un tono stridulo Giulio.
«Ci dia i documenti, cortesemente, è un controllo di routine, nulla di preoccupante, ma ci favorisca i documenti, le ripeto» disse pacatamente l’agente.
Visibilmente scosso Giulio disse, con un giro di parole difficilmente comprensibile, che non li aveva con sé, disse che quel magazzino era suo, da sempre, sottolineò da sempre, lasciando perplessi i poliziotti, disse anche che non c’era nulla di mare nell’andar a far visita ai nostri figli, e le sue proprietà altro non erano che figli, per lui che non aveva voluto averne di carne. Parlò anche dell’amore, di quell’amore che abbiamo dentro e che va riversato verso i nostri figli. Chiese se gli agenti ne avessero, e se riuscissero a dar loro tutto l’amore che meritavano così come lui faceva verso le proprietà.
I due poliziotti si guardarono perplessi, e gentilmente invitarono l’uomo a salire sulla volante. Giulio li fissò e poi esplose in una sonora risata. Alla fine salì, con l’animo di un bimbo che prova un nuovo gioco.
Il cognato andò a riprenderlo dopo due ore estenuanti in cui gli agenti non riuscirono a cavare una semplice informazione: l’indirizzo di casa. Giulio aveva parlato loro incessantemente per tutto il tempo dell’importanza della proprietà che ci tiene legati all’esistenza terrena, l’unica possibile. La proprietà delle cose infatti ci rende vivi, senza niente da possedere non saremmo nulla in questo mondo, affermava l’uomo completamente rapito ed estasiato dalle sue idee.
Caterina non fu informata dell’accaduto, e il cognato fece finta d’aver incontrato per caso Giulio e averlo accompagnato a casa. Giulio del resto aveva quasi dimenticato tutto, o di certo il perché di quella particolare giornata. Si andava delineando in maniera lucida e compiuta la soluzione al problema. La contromossa all’inganno era lì, davanti ai suoi occhi, e rimase a sorridere, come un ebete, guardandosi allo specchio della sua camera, picchiando il palmo delle mani sulla fronte, come a volersi ricordare quant’era facile risolvere quel problema, e come lui, stupidamente fosse giunto così tardi alla soluzione.
Il temporale illuminava a giorno la notte. La pioggia batteva incessante le tegole antiche della vecchia casa, umida e fredda. Le donne erano andate a dormire da ore. Giulio se ne stava in silenzio ad ascoltare il fragore della natura, che si scatenava colpendo ogni cosa. Eppure lui era salvo, al riparo, in quella proprietà che la sua famiglia s’era tramandata di generazione in generazione, così come la vita stessa. Dunque andava preservata dall’inganno.
Verso le quattro del mattino entrò leggero come un ombra nella camera di Gina. Rapido come un rapace si fiondò sulla donna. Non durò molto, le braccia forti e pesanti dell’uomo, i muscoli tesi e gli occhi iniettati di sangue, spensero in pochi minuti il respiro della badante. Il cucino premuto con ostinazione sul volto della donna le mozzò il respiro. Non fece neppure in tempo ad abbozzare una difesa. Dal sonno della stanchezza passò quasi direttamente alla veglia della morte.
Giulio non degnò di uno sguardo il volto stravolto della donna, che rimaneva esanime con il terrore disegnato sulle labbra. Si alzò diretto verso la camera della madre, quella donna che aveva organizzato tutto il piano per privarlo d’ogni cosa, dunque della vita stessa. Era, in fondo, per legittima difesa che agiva a quel modo. Difendeva la sua sopravvivenza, questo s’era detto in tutta la giornata pianificando la soluzione che gli era balzata agli occhi d’improvviso.
Caterina non si svegliò neppure, a Giulio parve di sentire un suono particolare, come una rottura di qualcosa, ma non fece caso. Rimase qualche istante in più con le mani pressate sul cuscino sopra al volto della madre.
Poi si vestì e uscì nella pioggia.
Lo ritrovarono un paio di giorni dopo, farneticante.
Il funerale delle donne fu celebrato quattro giorni dopo l’accaduto, il tempo necessario ad espletare le analisi. Dalle quali risultava che la badante era morta per soffocamento, mentre alla signora Caterina era stato spezzato il collo.
La sorella, con un enorme paio d’occhiali scuri a coprirne il volto dolente apriva il corteo, stretta al braccio del marito. Accanto il dottor Mineo, figura di spicco della cittadina e rinomato medico, nonché amico di famiglia da sempre.
In una pausa s’avvicinò alla donna e con lieve imbarazzo provò a consolarla.
«Certo che Giulio, chi l’avrebbe detto», disse con la sua caratteristica parlata teatrale, «Particolare lo è sempre stato, certo, insicuro fino all’eccesso, ma da lì a diventare uno spietato omicida, della madre perfino nessuno l’avrebbe pensato mai. E pensare che Caterina era riuscita a sconfiggere con una forza incredibile il male che l’aveva piegata. La forza di tua madre è sempre stata ammirevole. Nonostante tutto si teneva ben salda alla vita, e potevi scorgere nei suoi occhi la gioia stessa di esserci, tra noi. Poi quella povera Gina, che donna, era stata la luce nuova che era riuscita a far risplendere tua madre. Che donna! Caterina. Mi mancherà, la sua dolcezza, la gentilezza nei modi, quel sorriso piccato quando la si prendeva in giro. Ma lei sempre salda sulle sue convinzioni. Che tragedia assurda. E proprio adesso che s’era completamente ristabilita da quel tumore alla gola. Tossiva talvolta, ma niente di ché. Il male era stato del tutto debellato. Ricordi con quanta gioia ti chiamai per riferirti delle analisi cara. sembrava quasi un miracolo, non c’era nessuna traccia del tumore, svanito. E adesso... adesso è tutto finito.»
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