CLASSICI
Alfredo Ronci
Un caso quasi spietato: “Tiro al piccione” di Giose Rimanelli.
Dice il risvolto di copertina di questa edizione: “Uno dei più tragici, violenti, sofferti romanzi del secondo Novecento che torna, finalmente, dopo distorsioni politiche e ostracismi culturali, con la sua grande forza di opera letteraria”.
E’ vero, questo romanzo, come pochi altri nella nostra letteratura, ha subito un vero e proprio veto da un certo tipo di antifascismo che forse non era del tutto uscito dal regime e che costrinse non solo quest’opera, ma lo stesso autore, ad una sorta di ostracismo politico-culturale.
Non bastò il parere del tutto positivo di Cesare Pavese e Italo Calvino a convincere della bontà e della grandezza di Tiro al piccione. Fu Elio Vittorini a deciderne la pubblicazione per Mondadori nel 1953, ma soltanto nel 1991 la casa editrice Einaudi lo ripubblicò nelle edizioni economiche e nel 2022 la cara Rubbettino ha deciso per una ristampa in grande forma.
Cosa c’era di così tremendo in questo libro, tanto da decretare una sorta di allontanamento dell’autore (in effetti ci fu, perché Rimanelli si trasferì per molti anni negli Usa e lì vi morì nel 2018)? Ce lo dice lo stesso protagonista: “La prima vera scelta politica della mia vita è del 1959: feci la valigia e andai negli Stati Uniti. Quegli antifascisti che avevo tanto apprezzato mi chiusero il cancello delle loro case editrici e mi depennarono dalle loro storie letterarie. In America divenni professore. E’ qui che ho iniziato a vivere la vita dei doveri e della società, e soprattutto quella del pensiero e dell’educazione. Mai nessuno mi ha colpito col bastone, mai nessuno mi ha costretto ad iscrivermi a questo o a quel partito. Ho scelto io: sia come uomo che come scrittore sono sempre stato libero”.
Parole nette ed anche estremamente efficaci, e soltanto perché, col suo romanzo che in qualche modo rappresenta una sorta di vita quasi parallela, descrive le sorti e il destino di un ragazzino, per niente maturo, che deve affrontare la guerra (ovviamente la seconda guerra mondiale) senza una precisa collocazione ideologica. E’ preso prigioniero prima dai tedeschi e poi dai fascisti e finisce con l’arruolarsi nella Rsi per aver salva la vita.
Nel corso del romanzo, più volte l’autore descrive quel sentimento di inutilità ma anche di disperazione che lo attanaglia e lo fa sentire non idoneo al ruolo che gli altri lo hanno rinchiuso: “Io non conoscevo ancora bene quelle canzoni, né mi andava di cantare. Era il sergente Elia che mi stuzzicava dicendo: ‘proprio non ti va di cantare?’ Così gli risposi finalmente: ‘E’ obbligatorio cantare quando uno non ce la fa e gli viene il vomito?”
Oppure: “Di’ la verità Marco. A te non piace questa sporca cosa” “Che cosa?” “La nostra guerra: Non ti piace?” “Uh, uh” “Allora sei solo un ragazzo. Ma bisogna che ti piaccia, tanto ci sei dentro”. “E non se ne potrebbe uscire?” “Per farti ammazzare da noi stessi?”.
Marco è turbato dalla ferocia che vive, ma è anche consapevole che la fedeltà agli ideali di patria e libertà non può coincidere con la brutalità delle armi.
Dice ancora Rimanelli in un vecchio scritto: “La mia letteratura è quasi tutta di carattere autobiografico: romanzi, poesia, critica letteraria. E questo perché sono solo nel mondo. Il mio studio non è stato il mondo, ma la realtà della mia esistenza in contatto diretto con i fatti pratici o ideali offertimi dalle contingenze storiche del mondo in cui vivo”.
Nonostante ciò e nonostante le confessioni sentimentali, Rimanelli rimase un escluso. Non bastò nemmeno che Pavese giudicasse il suo libro apolitico. Nel senso che … non è un libro politico – non vi esiste il caso del fascista che si disgusta o si diverte, bensì il giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un’idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci.
Il finale di Tiro al piccione non risolve la questione, almeno non per gli antifascisti più irruenti: la guerra, così crudele e ingiusta decifra la sostanza. Persino il cappello, che Marco aveva raccolto dopo che un caro commilitone era stato ammazzato, viene gettato via, come, forse, l’ultima fase di un percorso non del tutto chiaro. Dice l’autore concludendo il libro: “… sapevo che era necessario tornare in mezzo alla gente, vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una ragione”.
Rimanelli, dopo la pubblicazione nel ’53 del libro, continuò a scrivere. Ricordiamo tra gli altri Peccato originale del ’54, Biglietto di terza del ’58, ma soprattutto, per lo scandalo che fece in ambiente letterario, il volume di saggi critici Il mestiere del furbo del ’59. Per alcuni una specie di rivalsa nei confronti di un ecosistema editoriale ben delineato.
Per altri, decisamente no.
L’edizione da noi considerata è:
Giose Rimanelli
Tiro al piccione
Rubbettino
E’ vero, questo romanzo, come pochi altri nella nostra letteratura, ha subito un vero e proprio veto da un certo tipo di antifascismo che forse non era del tutto uscito dal regime e che costrinse non solo quest’opera, ma lo stesso autore, ad una sorta di ostracismo politico-culturale.
Non bastò il parere del tutto positivo di Cesare Pavese e Italo Calvino a convincere della bontà e della grandezza di Tiro al piccione. Fu Elio Vittorini a deciderne la pubblicazione per Mondadori nel 1953, ma soltanto nel 1991 la casa editrice Einaudi lo ripubblicò nelle edizioni economiche e nel 2022 la cara Rubbettino ha deciso per una ristampa in grande forma.
Cosa c’era di così tremendo in questo libro, tanto da decretare una sorta di allontanamento dell’autore (in effetti ci fu, perché Rimanelli si trasferì per molti anni negli Usa e lì vi morì nel 2018)? Ce lo dice lo stesso protagonista: “La prima vera scelta politica della mia vita è del 1959: feci la valigia e andai negli Stati Uniti. Quegli antifascisti che avevo tanto apprezzato mi chiusero il cancello delle loro case editrici e mi depennarono dalle loro storie letterarie. In America divenni professore. E’ qui che ho iniziato a vivere la vita dei doveri e della società, e soprattutto quella del pensiero e dell’educazione. Mai nessuno mi ha colpito col bastone, mai nessuno mi ha costretto ad iscrivermi a questo o a quel partito. Ho scelto io: sia come uomo che come scrittore sono sempre stato libero”.
Parole nette ed anche estremamente efficaci, e soltanto perché, col suo romanzo che in qualche modo rappresenta una sorta di vita quasi parallela, descrive le sorti e il destino di un ragazzino, per niente maturo, che deve affrontare la guerra (ovviamente la seconda guerra mondiale) senza una precisa collocazione ideologica. E’ preso prigioniero prima dai tedeschi e poi dai fascisti e finisce con l’arruolarsi nella Rsi per aver salva la vita.
Nel corso del romanzo, più volte l’autore descrive quel sentimento di inutilità ma anche di disperazione che lo attanaglia e lo fa sentire non idoneo al ruolo che gli altri lo hanno rinchiuso: “Io non conoscevo ancora bene quelle canzoni, né mi andava di cantare. Era il sergente Elia che mi stuzzicava dicendo: ‘proprio non ti va di cantare?’ Così gli risposi finalmente: ‘E’ obbligatorio cantare quando uno non ce la fa e gli viene il vomito?”
Oppure: “Di’ la verità Marco. A te non piace questa sporca cosa” “Che cosa?” “La nostra guerra: Non ti piace?” “Uh, uh” “Allora sei solo un ragazzo. Ma bisogna che ti piaccia, tanto ci sei dentro”. “E non se ne potrebbe uscire?” “Per farti ammazzare da noi stessi?”.
Marco è turbato dalla ferocia che vive, ma è anche consapevole che la fedeltà agli ideali di patria e libertà non può coincidere con la brutalità delle armi.
Dice ancora Rimanelli in un vecchio scritto: “La mia letteratura è quasi tutta di carattere autobiografico: romanzi, poesia, critica letteraria. E questo perché sono solo nel mondo. Il mio studio non è stato il mondo, ma la realtà della mia esistenza in contatto diretto con i fatti pratici o ideali offertimi dalle contingenze storiche del mondo in cui vivo”.
Nonostante ciò e nonostante le confessioni sentimentali, Rimanelli rimase un escluso. Non bastò nemmeno che Pavese giudicasse il suo libro apolitico. Nel senso che … non è un libro politico – non vi esiste il caso del fascista che si disgusta o si diverte, bensì il giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un’idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci.
Il finale di Tiro al piccione non risolve la questione, almeno non per gli antifascisti più irruenti: la guerra, così crudele e ingiusta decifra la sostanza. Persino il cappello, che Marco aveva raccolto dopo che un caro commilitone era stato ammazzato, viene gettato via, come, forse, l’ultima fase di un percorso non del tutto chiaro. Dice l’autore concludendo il libro: “… sapevo che era necessario tornare in mezzo alla gente, vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una ragione”.
Rimanelli, dopo la pubblicazione nel ’53 del libro, continuò a scrivere. Ricordiamo tra gli altri Peccato originale del ’54, Biglietto di terza del ’58, ma soprattutto, per lo scandalo che fece in ambiente letterario, il volume di saggi critici Il mestiere del furbo del ’59. Per alcuni una specie di rivalsa nei confronti di un ecosistema editoriale ben delineato.
Per altri, decisamente no.
L’edizione da noi considerata è:
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