CLASSICI
Alfredo Ronci
Un guerriero contro la società: Vittorio Imbriani e il suo “Dio ne scampi dagli Orsenigo”.
Di questi tempi, sono fermamente convinto, uno come Vittorio Imbriani farebbe venir giù anche le stelle cadenti. E sarebbe una star della televisione e di tutti i media.
Lui però visse, passionatamente, intorno alla metà dell’ottocento: personalità complessa, fu fervente patriota di tendenze conservatrici (però, nella sua gagliardia esasperata partecipò anche all’impresa dei mille) e dotato anche di una profonda erudizione e di vasti interessi che più di una volta lo portarono a scontrarsi con altri colleghi.
Le inimicizie che si crearono e l’incapacità di scendere a compromessi ebbero non poca influenza nell’assegnazione della cattedra universitaria, sulla quale lo scrittore contava per sistemarsi definitivamente e liberarsi dalla dipendenza economica nei confronti della famiglia. Tale cattedra (Estetica presso l’Università di Napoli) la ottenne troppo tardi, a pochi mesi dalla sua morte.
Non credo poi che furono le delusioni scolastiche a portarlo verso la letteratura. Meglio, non furono solo queste. Nel 1867 produsse Merope IV, scritto giovanile e autobiografico, che però per molti non fu considerato come un vero e proprio romanzo, tanto che c’è la tendenza, anche contemporanea, a considerare Dio ne scampi dagli Orsenigo l’unico scritto di pura letteratura.
Scritto che però non ottenne il successo che l’autore sperava. Molti critici di allora lo ritenevano abbastanza stravagante, paradossale e il senso della storia non fu minimamente toccato. L’unico ad accorgersi della validità del romanzo fu Benedetto Croce. Un giudizio, il suo, decisamente positivo e ribattendo alle obiezioni degli studiosi individuò acutamente l’errore di prospettiva anche dei lettori, che erano ormai abituati a storie naturali e sdolcinate e non all’originale operazione letteraria di Imbriani.
Di cosa tratta Dio ne scampi dagli Orsenigo? Donna Almerinda Ruglia-Scielzo, nobildonna di prestigio, dopo essersi invaghita dell’ufficiale di cavalleria, tale Maurizio Della Morte (sic!), decide all’improvviso che di tale cosa non se ne fa più nulla, soprattutto per il decoro che la donna dovrebbe portare a suo marito, ormai settantenne.
Per rendere le cose più semplici decide di farsi aiutare da un’altra nobildonna, tale Radegonda Orsenigo, che a sua volta fa sì il proprio ruolo di assistente ma, malauguratamente, s’innamora perdutamente di Maurizio Della Morte.
L’amore eterno e sublime che l’eroina vota al povero ufficiale in realtà è un profondo equivoco, una trappola velenosa di cui però l’ultima ad accorgersene è proprio la Orsenigo. Maurizio, pur disdegnando la donna, finirà inchiodato a questo gioco delle parti, ma nemmeno uno scontro epico con un suo rivale potrà mai liberarlo dalla schiavitù e da una donna che è disposta a sacrificarsi interamente a lui.
Il racconto fatto gioca un po’ sugli equivoci e su come la storia è realmente descritta. I benefattori di Imbriani puntano soprattutto sullo stile dello scrittore, tanto che alcuni critici contemporanei, assai di getto, ritengono che si sia in presenza di una sorta di Gadda antelitteram, sia per gli intenti della storia, ma soprattutto per la profonda eruzione in campo letterario (Imbriani fu anche uno studioso ed un critico attento, famoso il suo saggio di critica letteraria Fame usurpate).
Il testo è ricchissimo di riferimenti storico-letterari e di uno stile linguistico che lo fa apparire al lettore fresco, grottesco ed irriverente, come ad esempio l’uso di dialettismi e di modi di dire assolutamente locali (tipo: Vattel’a pesca; ed a me non importa un fico… oppure… Farlo cornuto e mazziato (come suol dirsi a Napoli) ed ancora… Ci sarebbe volsuto un bel coraggio… espressione celliniana di puro toscano popolare).
Ma forse tutto questo, cioè anche l’eccessiva rappresentazione linguistica della storia, fa apparire l’Imbriani lontano da certe disamine dell’epoca. E la sua critica di una borghesia ormai ridotta ad un quadro impietoso dell’epoca gli si ritorce contro.
Il suo modo di rappresentarsi, di esprimere tutte le correnti sotterranee del suo universo, frammenti di autobiografia, passioni personali, sarcasmi riservati ad un mondo e a un’età da disprezzare, forse rimangono un’utopia, soprattutto se rivolti ad una platea che non era adeguatamente preparata a coglierne il senso finale.
Vittorio Imbriani
Dio ne scampi dagli Orsenigo
BUR
Lui però visse, passionatamente, intorno alla metà dell’ottocento: personalità complessa, fu fervente patriota di tendenze conservatrici (però, nella sua gagliardia esasperata partecipò anche all’impresa dei mille) e dotato anche di una profonda erudizione e di vasti interessi che più di una volta lo portarono a scontrarsi con altri colleghi.
Le inimicizie che si crearono e l’incapacità di scendere a compromessi ebbero non poca influenza nell’assegnazione della cattedra universitaria, sulla quale lo scrittore contava per sistemarsi definitivamente e liberarsi dalla dipendenza economica nei confronti della famiglia. Tale cattedra (Estetica presso l’Università di Napoli) la ottenne troppo tardi, a pochi mesi dalla sua morte.
Non credo poi che furono le delusioni scolastiche a portarlo verso la letteratura. Meglio, non furono solo queste. Nel 1867 produsse Merope IV, scritto giovanile e autobiografico, che però per molti non fu considerato come un vero e proprio romanzo, tanto che c’è la tendenza, anche contemporanea, a considerare Dio ne scampi dagli Orsenigo l’unico scritto di pura letteratura.
Scritto che però non ottenne il successo che l’autore sperava. Molti critici di allora lo ritenevano abbastanza stravagante, paradossale e il senso della storia non fu minimamente toccato. L’unico ad accorgersi della validità del romanzo fu Benedetto Croce. Un giudizio, il suo, decisamente positivo e ribattendo alle obiezioni degli studiosi individuò acutamente l’errore di prospettiva anche dei lettori, che erano ormai abituati a storie naturali e sdolcinate e non all’originale operazione letteraria di Imbriani.
Di cosa tratta Dio ne scampi dagli Orsenigo? Donna Almerinda Ruglia-Scielzo, nobildonna di prestigio, dopo essersi invaghita dell’ufficiale di cavalleria, tale Maurizio Della Morte (sic!), decide all’improvviso che di tale cosa non se ne fa più nulla, soprattutto per il decoro che la donna dovrebbe portare a suo marito, ormai settantenne.
Per rendere le cose più semplici decide di farsi aiutare da un’altra nobildonna, tale Radegonda Orsenigo, che a sua volta fa sì il proprio ruolo di assistente ma, malauguratamente, s’innamora perdutamente di Maurizio Della Morte.
L’amore eterno e sublime che l’eroina vota al povero ufficiale in realtà è un profondo equivoco, una trappola velenosa di cui però l’ultima ad accorgersene è proprio la Orsenigo. Maurizio, pur disdegnando la donna, finirà inchiodato a questo gioco delle parti, ma nemmeno uno scontro epico con un suo rivale potrà mai liberarlo dalla schiavitù e da una donna che è disposta a sacrificarsi interamente a lui.
Il racconto fatto gioca un po’ sugli equivoci e su come la storia è realmente descritta. I benefattori di Imbriani puntano soprattutto sullo stile dello scrittore, tanto che alcuni critici contemporanei, assai di getto, ritengono che si sia in presenza di una sorta di Gadda antelitteram, sia per gli intenti della storia, ma soprattutto per la profonda eruzione in campo letterario (Imbriani fu anche uno studioso ed un critico attento, famoso il suo saggio di critica letteraria Fame usurpate).
Il testo è ricchissimo di riferimenti storico-letterari e di uno stile linguistico che lo fa apparire al lettore fresco, grottesco ed irriverente, come ad esempio l’uso di dialettismi e di modi di dire assolutamente locali (tipo: Vattel’a pesca; ed a me non importa un fico… oppure… Farlo cornuto e mazziato (come suol dirsi a Napoli) ed ancora… Ci sarebbe volsuto un bel coraggio… espressione celliniana di puro toscano popolare).
Ma forse tutto questo, cioè anche l’eccessiva rappresentazione linguistica della storia, fa apparire l’Imbriani lontano da certe disamine dell’epoca. E la sua critica di una borghesia ormai ridotta ad un quadro impietoso dell’epoca gli si ritorce contro.
Il suo modo di rappresentarsi, di esprimere tutte le correnti sotterranee del suo universo, frammenti di autobiografia, passioni personali, sarcasmi riservati ad un mondo e a un’età da disprezzare, forse rimangono un’utopia, soprattutto se rivolti ad una platea che non era adeguatamente preparata a coglierne il senso finale.
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