CLASSICI
Alfredo Ronci
Un libro quasi dimenticato. A torto. “Azorin e Mirò” di Manlio Cancogni.
Strana sorte è toccata a Manlio Cancogni. In quasi tutte le storie o i commenti alla letteratura italiana, tranne brevi connotazioni o richiami, mai lo si è indicato come scrittore serio e appassionato. Tanto per fare un esempio: nella Storia generale della letteratura italiana a cura di Nino Borsellino e Waler Pedullà, lo scrittore è appena citato proprio per l’opera che andiamo a considerare e niente più. Si ignora persino il premio Strega che Cancogni vinse nel 1973 con Allegri, gioventù. Ben altre le sue imprese letterarie nel giornalismo e come inviato de L’espresso.
Azorin e Mirò rappresentò per il periodo (fu scritto a partire dal 1943 ma fu pubblicato solo nel 1948) un elemento di non ritorno. Sia la cultura che il modo di vivere erano segnate dal neorealismo e le cose al di fuori, se non decisamente lontane da esso, erano condannate a subire, spesso, l’allontanamento se non addirittura la condanna da parte dei settori più in vista dell’epoca.
Azorin e Mirò è semplicemente il resoconto di un’amicizia creata attorno ai libri e ad una visione dell’esistenza lontana dai criteri del tempo e descrive le alterne fortune dei due protagonisti, appunto Azorin e Mirò, dietro i quali si nascondevano lo stesso Manlio Cancogni e Carlo Cassola. E con la storia delle vicende dei due racconta anche la difficile e poco ragionevole teoria letteraria del subliminare.
Cos’era questa teoria? Lasciamola raccontare all’autore: Bisogna subito dire che il sub-limine era l’eccezione, e il non sub-limine la regola; che tutte le cose potevano in un certo momento essere sub-liminari ma che era più il tempo in cui non lo erano, e che Azorin e Mirò soffrivano proprio di questo, della normale non sub-liminarietà delle cose, e che perciò attendevano i rari istanti in cui il tessuto opaco delle cose si rompeva, e dal suo grigiore compatto scaturiva bello, puro, inimitabile il sub-limine.
Con questa espressione, nella storia, i due protagonisti, ma siamo praticamente certi che la definizione fu proprio del Cancogni, indicano ciò che sta “sotto” (sub) il limite esteriore delle cose. Per paradosso, sappiamo che le origini del romanzo sono da collocare appena prima della fine della seconda guerra mondiale, ai due amici non interessa la situazione reale (In quell’epoca regnava nel paese la dittatura ed egli non si occupava di politica) ma il semplice vivere delle cose e dell’identità.
Non me ne vogliano i più spocchiosi ma, dietro questa amicizia così vera ma nello stesso tempo inadatta, qualcuno ci ha visto fiorire un rapporto omosessuale. Un rapporto naturalmente costruito sulle parole, più che sui fatti, ma di sicuro non improvvisato (“Non farebbe così” riflettè un giorno Mirò, “se io fossi con lui”. Poi, in un momento d’insolita chiarezza, concluse: “Entrambi abbiamo perduto qualcosa a non stare insieme. Uomini come noi sono come gli animali che vivono in simbiosi. Divisi, non vivono più”).
La vera storia tra Cancogni e Cassola non ebbe un esito felice. La fuga (chiamiamola così) di Cancogni in America nel 1978 non fu bene accolta da Cassola. Dice Cancogni: Cassola aveva un atteggiamento molto ambivalente nei miei confronti. Vede, lui era uno scrittore nato, niente da dire, ma io ero più sveglio. Più vivace. Con interessi più svariati. E Cassola non me lo perdonava. Ma il vero motivo di rottura fu che, nel 1978, decisi di trasferirmi in America e lo feci senza avvisarlo. Cassola mi scrisse una lettera di fuoco alla quale io non risposi. Non ci sentimmo mai più.
Ovvio che Azorin e Mirò hanno un’altra conclusione, anche se non troppo lontana dalla verità: i due, dopo un periodo in cui non si sono visti, si riuniranno, confrontandosi ancora con le loro teorie letterarie, ma Mirò (Cassola) morirà per primo lasciando Azorin (ricordiamo che Cancogni è morto novantanovenne) nel ricordo di un’impresa mai assopita: E mentre credeva d’essere lontano le mille miglia dal suo amico, la sua anima si riuniva a lui nel mondo delle perfette realtà sub-liminari.
Cancogni non è più tornato a raccontare del suo esordio letterario ma dice in conclusione: Personalmente, ritengo che sia stata una scelta giusta. Il senso c’è, ancora e intatto.
L’edizione da noi considerata è:
Manlio Cancogni
Azorin e Mirò
Rizzoli
Azorin e Mirò rappresentò per il periodo (fu scritto a partire dal 1943 ma fu pubblicato solo nel 1948) un elemento di non ritorno. Sia la cultura che il modo di vivere erano segnate dal neorealismo e le cose al di fuori, se non decisamente lontane da esso, erano condannate a subire, spesso, l’allontanamento se non addirittura la condanna da parte dei settori più in vista dell’epoca.
Azorin e Mirò è semplicemente il resoconto di un’amicizia creata attorno ai libri e ad una visione dell’esistenza lontana dai criteri del tempo e descrive le alterne fortune dei due protagonisti, appunto Azorin e Mirò, dietro i quali si nascondevano lo stesso Manlio Cancogni e Carlo Cassola. E con la storia delle vicende dei due racconta anche la difficile e poco ragionevole teoria letteraria del subliminare.
Cos’era questa teoria? Lasciamola raccontare all’autore: Bisogna subito dire che il sub-limine era l’eccezione, e il non sub-limine la regola; che tutte le cose potevano in un certo momento essere sub-liminari ma che era più il tempo in cui non lo erano, e che Azorin e Mirò soffrivano proprio di questo, della normale non sub-liminarietà delle cose, e che perciò attendevano i rari istanti in cui il tessuto opaco delle cose si rompeva, e dal suo grigiore compatto scaturiva bello, puro, inimitabile il sub-limine.
Con questa espressione, nella storia, i due protagonisti, ma siamo praticamente certi che la definizione fu proprio del Cancogni, indicano ciò che sta “sotto” (sub) il limite esteriore delle cose. Per paradosso, sappiamo che le origini del romanzo sono da collocare appena prima della fine della seconda guerra mondiale, ai due amici non interessa la situazione reale (In quell’epoca regnava nel paese la dittatura ed egli non si occupava di politica) ma il semplice vivere delle cose e dell’identità.
Non me ne vogliano i più spocchiosi ma, dietro questa amicizia così vera ma nello stesso tempo inadatta, qualcuno ci ha visto fiorire un rapporto omosessuale. Un rapporto naturalmente costruito sulle parole, più che sui fatti, ma di sicuro non improvvisato (“Non farebbe così” riflettè un giorno Mirò, “se io fossi con lui”. Poi, in un momento d’insolita chiarezza, concluse: “Entrambi abbiamo perduto qualcosa a non stare insieme. Uomini come noi sono come gli animali che vivono in simbiosi. Divisi, non vivono più”).
La vera storia tra Cancogni e Cassola non ebbe un esito felice. La fuga (chiamiamola così) di Cancogni in America nel 1978 non fu bene accolta da Cassola. Dice Cancogni: Cassola aveva un atteggiamento molto ambivalente nei miei confronti. Vede, lui era uno scrittore nato, niente da dire, ma io ero più sveglio. Più vivace. Con interessi più svariati. E Cassola non me lo perdonava. Ma il vero motivo di rottura fu che, nel 1978, decisi di trasferirmi in America e lo feci senza avvisarlo. Cassola mi scrisse una lettera di fuoco alla quale io non risposi. Non ci sentimmo mai più.
Ovvio che Azorin e Mirò hanno un’altra conclusione, anche se non troppo lontana dalla verità: i due, dopo un periodo in cui non si sono visti, si riuniranno, confrontandosi ancora con le loro teorie letterarie, ma Mirò (Cassola) morirà per primo lasciando Azorin (ricordiamo che Cancogni è morto novantanovenne) nel ricordo di un’impresa mai assopita: E mentre credeva d’essere lontano le mille miglia dal suo amico, la sua anima si riuniva a lui nel mondo delle perfette realtà sub-liminari.
Cancogni non è più tornato a raccontare del suo esordio letterario ma dice in conclusione: Personalmente, ritengo che sia stata una scelta giusta. Il senso c’è, ancora e intatto.
L’edizione da noi considerata è:
Manlio Cancogni
Azorin e Mirò
Rizzoli
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