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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Salvatore Niffoi

L'ultimo inverno

Il Maestrale, Pag. 203 Euro 15,00
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Sospettavo che prima o poi sarebbe successo. Era nell'aria, incombente, come i mutamenti del clima (e c'è, nel libro, anche questo riferimento politicamente corretto). Sapevo, o meglio temevo, che presto o tardi il genio di Niffoi sarebbe esploso come una melagrana matura. Che le sue pulsioni simboliste avrebbero rotto gli argini, che il suo gusto magico, per non dire mistico, avrebbe passato i confini. Che il fiabesco sarebbe diventato fiaba, anzi peggio, apologo. Temevo, e quasi prevedevo, ma non fino a questo punto.

L'inquietudine mi ha assalita subito, quando mi sono accorta che sotto i miei occhi Niffoi si stava trasformando in Saramago. Quando l'ho visto avventurarsi in uno scenario surreale, affrontando catastrofi bibliche ambientate in una Sardegna che, pur essendo ben riconoscibile, è trasportata in un altrove immaginario. Mi ha lasciata subito allibita l'anagramma Degnasar, fatto non per mascherare ma per avvertire che l'Autore intende prendersi quelle stesse libertà che il narratore di fiabe si attribuisce dicendo c'era una volta, in un paese lontano... E il paese invece è vicino, perché è sempre la sua Sardegna, ma è lui che si è allontanato pretendendo di tessere una parabola universale su un'umanità ormai sterile ed autodistruttiva.

Ancora una volta esplora il mistero del femminile, ma qui arriva a vuotarlo di tutte le potenzialità salvifiche che sembrava attribuirgli. Racconta di un'umanità sottoposta prima alla piaga della siccità, poi a quella del diluvio universale. Solo cinque donne, visitate da un misterioso colombaccio, vengono prescelte per la salvezza. E qui già il simbolismo sarebbe pesante, ma come gli è venuto in mente, mi dico, di mettere nel becco del sacro uccello dei veri e propri bigliettini con le istruzioni? Dettaglio imbarazzante e spoetizzante, tanto più che le istruzioni sono vaghe, riferendosi al giorno ma non all'anno dell'appuntamento, per cui le malcapitate sono costrette a salire per due volte al luogo stabilito. Comincia così un'avventura abbastanza sconclusionata e, mi si perdoni l'anticipazione, decisamente fallimentare. La colpa pare sia tutta del maschio che, nonostante l'accanimento terapeutico delle donne, non riesce ad essere all'altezza della situazione.

La vena di Niffoi appare spaccata in due: da un lato la sua dimestichezza sempre più disinibita con la materialità della carne umana esplorata in tutte le sue miserie, dall'altro un algido intellettualismo. Bollore e diluvio, per l'appunto. Ma la commistione non riesce, e le cinque donne perdono in corso d'opera la caratterizzazione così accuratamente preparata all'inizio per diventare figure mistiche quasi intercambiabili. Per forza, costrette come sono in un contesto artificioso: non artificioso per il fatto di essere cinque sopravvissute ad un mondo ormai scomparso e rifugiate tra le nude mura di un convento, ma perché si trovano inamidate negli scomodi panni cuciti dal simbolismo.

Insomma, il nostro Niffoi che con tanta efficacia disegna pastori, preti, briganti, puttane e beghine, e che anche in questo romanzo l'ha fatto così bene, che bisogno aveva di gettare tutto questo ben di dio nel calderone grumoso e attaccaticcio della parabola? No, non glielo perdono.





di Giovanna Repetto


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Insipido


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Mi pare che l'espressione più adatta a definire la scrittura di Niffoi sia naturalismo magico. In quest'ossimoro si possono sintetizzare la sua arte e le sue contraddizioni. La sua arte si esprime in pieno in questo romanzo come nei precedenti, mentre le contraddizioni (non la dialettica dei contrari, che è essa stessa elemento prezioso, come già messo in luce nella nostra recensione a La vedova scalza, bensì qualche disomogeneità nel trattare la materia), mi sono apparse a tratti come disarmonie. Intendiamoci, non c'è niente di più armonico della prosa di Niffoi: vi invito ad ascoltarne il suono senza pensare al senso delle parole, e vi accorgerete che è canto e poesia.

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