RECENSIONI
Stefan Zweig
Mendel dei libri
Adelphi, Pag. 53 Euro 5,50
Questo racconto, a volerlo avvicinare a certe considerazioni possibili su tanto sconcertante attualità, ci parla dritti al nostro cuore di turlupinati.
Stefen Zweig non è certo l'unico a pensarlo e dirlo, ma è quello che la mette giù nella maniera più dura: l'unica nostra possibilità di salvezza, di liberazione dal nostro commercio e scialo quotidiano è la pazzia. Ma, se per Platone la pazzia è santità, e il furore amoroso una chiave filosofica, per Zweig la santità è una condizione morbosa e, come mostra in Amok, l'unico furore amoroso possibile è la follia omicida. Il tutto, mi sembra, fa una maniera piacevolmente complessa per dire che non abbiamo speranza alcuna. E parrebbe proprio.
In Mendel dei Libri, poi, sotto questo riguardo, Zweig è ancora più esplicito. Ci troviamo in una Vienna di fine Austria totale. Il narratore cammina, ma è chiaro che la stagione di Baudelaire è finita. La folla è assente: forse sono tutti a lavorare e a fare affari; forse è spazzata dalla pioggia. In effetti piove. Piove, e il narratore si ripara dentro un locale. Ed è qui che inizia questo stupore dinnanzi ai miracoli della memoria. Infatti, piano piano, la voce narrante si rende conto di conoscerlo questo posto; di averlo vissuto tanti anni prima. Di avervi vissuto un'esperienza fondamentale. Si introduce così il nocciolo della questione: la memoria come eccezionalità; la memoria come trauma e, in quanto trauma, poesia (e lo sapevano i greci). Tutto molto Benjamin, Bergson; ovvio Proust. Ma ancora: la memoria non è, forse, l'arte rinascimentale per eccellenza?; l'arte per concepire il mondo? Un arte che ha un segreto: la memoria è immaginazione: immaginare è sapere. L'ultimo a dirlo con forza è Giordano Bruno; il quale, visti i tempi nuovi, la Chiesa, che si deve svecchiare da certe mistiche superstizioni e scandalosi paganesimi che ragionatori luterani, lucidi, laici e scientifici gli additano a colpa, te lo fa primo martire della modernità: ucciso dalla modernità. Voglio dire, la modernità sarebbe questo (non perfetto dal punto di vista del pensiero) penso dunque sono; che significa anche penso al posto di sentire, vivere, agire, provare, immaginare. Insomma, il pensiero come corollario ad un istinto proto-umano al risparmio; proto-umano e proto-capitalistico. Il pensiero (questo tipo di pensiero!) serve per lavorare di meno ed accumulare di più, fino al massimo ottimo dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Al contrario, l'immaginazione è un incessante e faticoso lavoro: quello della poesia, per esempio, o della mistica. Non è un caso, dunque, che, dal Settecento in poi, i mistici, per non lasciarli lì ad ingombrare i sistemi di produzione e sfruttamento, finiscano in manicomio e i Pico delle Mirandola diventino fenomeni da baraccone o casi clinici.
Il Mendel di cui racconta Zweig è appunto uno di questi fenomeni da baraccone: è un ometto che conosce a memoria tutta la bibliografia tedesca, che sa trovare tutti i libri del mondo; che vive nel paradiso estatico della sua missione paranoica e santa di conoscere i titoli e i prezzi di ogni libro pubblicato, e che finisce nelle maglia della burocrazia fino alla sua terminale eliminazione fisica; che, da demente e paranoico, si immette volontariamente in queste maglie. Perché questa paranoia, dice Zweig è la migliore qualità umana: ma non è una qualità.
Scritto nel '29, questo racconto è uno delle tante voci, più o meno piccole, che cercano di fare la più stridente resistenza alla marcia inarrestabile della macchina-mostro della nostra società contemporanea. Il '29 stesso è simbolo di questa marcia, per via della vitalità che il capitalismo, liberale o di Stato che sia, ha saputo manifestare, riuscendo più forte dalle quella crisi, più globalizzante, nel caso della Germania nazista perfino più efficiente, fino all'apoteosi teologica (di marca manichea) che ha visto, dopo la seconda guerra mondiale, affrontarsi due capitalismi, occidentale ed orientale, per la scontata vittoria finale del capitalismo.
Una vittoria che nella sconcertante attualità di cui sopra, in questa attualità senza santi e senza memoria e senza poesia, e quindi senza senso, permette perfino ad un modesto paese come il nostro di rilucere di un suo lume, sia pure in vulgata pecoreccia e grottesca, maligno: mentre la gente, in pieno amok tribale, si prende a coltellate per strada e ricominciano le paranoiche e dementi cacce agli zingari, il nostro personale capitalismo da avanguardia matriciana arriva a vette che coniugano la possibilità di consentire il falso in bilancio per l'imprenditore con la negazione del diritto ad ammalarsi per il lavoratore.
di Pier Paolo Di Mino
Stefen Zweig non è certo l'unico a pensarlo e dirlo, ma è quello che la mette giù nella maniera più dura: l'unica nostra possibilità di salvezza, di liberazione dal nostro commercio e scialo quotidiano è la pazzia. Ma, se per Platone la pazzia è santità, e il furore amoroso una chiave filosofica, per Zweig la santità è una condizione morbosa e, come mostra in Amok, l'unico furore amoroso possibile è la follia omicida. Il tutto, mi sembra, fa una maniera piacevolmente complessa per dire che non abbiamo speranza alcuna. E parrebbe proprio.
In Mendel dei Libri, poi, sotto questo riguardo, Zweig è ancora più esplicito. Ci troviamo in una Vienna di fine Austria totale. Il narratore cammina, ma è chiaro che la stagione di Baudelaire è finita. La folla è assente: forse sono tutti a lavorare e a fare affari; forse è spazzata dalla pioggia. In effetti piove. Piove, e il narratore si ripara dentro un locale. Ed è qui che inizia questo stupore dinnanzi ai miracoli della memoria. Infatti, piano piano, la voce narrante si rende conto di conoscerlo questo posto; di averlo vissuto tanti anni prima. Di avervi vissuto un'esperienza fondamentale. Si introduce così il nocciolo della questione: la memoria come eccezionalità; la memoria come trauma e, in quanto trauma, poesia (e lo sapevano i greci). Tutto molto Benjamin, Bergson; ovvio Proust. Ma ancora: la memoria non è, forse, l'arte rinascimentale per eccellenza?; l'arte per concepire il mondo? Un arte che ha un segreto: la memoria è immaginazione: immaginare è sapere. L'ultimo a dirlo con forza è Giordano Bruno; il quale, visti i tempi nuovi, la Chiesa, che si deve svecchiare da certe mistiche superstizioni e scandalosi paganesimi che ragionatori luterani, lucidi, laici e scientifici gli additano a colpa, te lo fa primo martire della modernità: ucciso dalla modernità. Voglio dire, la modernità sarebbe questo (non perfetto dal punto di vista del pensiero) penso dunque sono; che significa anche penso al posto di sentire, vivere, agire, provare, immaginare. Insomma, il pensiero come corollario ad un istinto proto-umano al risparmio; proto-umano e proto-capitalistico. Il pensiero (questo tipo di pensiero!) serve per lavorare di meno ed accumulare di più, fino al massimo ottimo dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Al contrario, l'immaginazione è un incessante e faticoso lavoro: quello della poesia, per esempio, o della mistica. Non è un caso, dunque, che, dal Settecento in poi, i mistici, per non lasciarli lì ad ingombrare i sistemi di produzione e sfruttamento, finiscano in manicomio e i Pico delle Mirandola diventino fenomeni da baraccone o casi clinici.
Il Mendel di cui racconta Zweig è appunto uno di questi fenomeni da baraccone: è un ometto che conosce a memoria tutta la bibliografia tedesca, che sa trovare tutti i libri del mondo; che vive nel paradiso estatico della sua missione paranoica e santa di conoscere i titoli e i prezzi di ogni libro pubblicato, e che finisce nelle maglia della burocrazia fino alla sua terminale eliminazione fisica; che, da demente e paranoico, si immette volontariamente in queste maglie. Perché questa paranoia, dice Zweig è la migliore qualità umana: ma non è una qualità.
Scritto nel '29, questo racconto è uno delle tante voci, più o meno piccole, che cercano di fare la più stridente resistenza alla marcia inarrestabile della macchina-mostro della nostra società contemporanea. Il '29 stesso è simbolo di questa marcia, per via della vitalità che il capitalismo, liberale o di Stato che sia, ha saputo manifestare, riuscendo più forte dalle quella crisi, più globalizzante, nel caso della Germania nazista perfino più efficiente, fino all'apoteosi teologica (di marca manichea) che ha visto, dopo la seconda guerra mondiale, affrontarsi due capitalismi, occidentale ed orientale, per la scontata vittoria finale del capitalismo.
Una vittoria che nella sconcertante attualità di cui sopra, in questa attualità senza santi e senza memoria e senza poesia, e quindi senza senso, permette perfino ad un modesto paese come il nostro di rilucere di un suo lume, sia pure in vulgata pecoreccia e grottesca, maligno: mentre la gente, in pieno amok tribale, si prende a coltellate per strada e ricominciano le paranoiche e dementi cacce agli zingari, il nostro personale capitalismo da avanguardia matriciana arriva a vette che coniugano la possibilità di consentire il falso in bilancio per l'imprenditore con la negazione del diritto ad ammalarsi per il lavoratore.
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Elliot, Pag. 128 Euro 10,00Un uomo, uno scrittore, Stefan Zweig, ebreo fuggito dall'Austria negli anni della furia nazista, prima a Londra, poi a New York, suicida infine in Brasile, assieme alla moglie, non sempre ben visto, non da tutti, con qualche tratto misterioso, dedicò il suo ultimo libro, Amerigo, a una figura almeno per questioni nominali molto più nota della sua (e di una fama davvero paradossale, "vuota" per certi versi, per una serie di circostanze risolta proprio in una controversa faccenda di nomi).
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