ATTUALITA'
Pier Paolo Di Mino
A proposito degli 'Arditi del popolo'
Queste poche note sono una riflessione sul disagio che, ultimamente, la mia recensione al bel libro di Valerio Gentili Gli arditi del popolo di Roma ha procurato in alcuni lettori.
Il fatto, bisogna dirlo, è che l'impresa fiumana prima, e l'azione politica degli arditi del popolo, poi, sono fatti sconosciuti, rimossi; ed il mio articolo troppo breve e inesaustivo: non c'è chi veda che questa, dunque, sarebbe una situazione del tutto virtuosa, aperta a diverse implicazioni, ognuna capace di arricchire l'immaginazione e la curiosità di chicchessia. Va bene, avrei potuto seguire Teofrasto, e la sua voce in qualche ultimo libero neoplatonico, ed essere più allusivo, meno preciso e inesatto, più provocatorio, per dare modo al lettore di usare i mezzi della propria intelligenza, di usare le parole del suo prossimo come macchina per pensare: ma non è epoca questa di certe libertà, e allora, oggi, sarò chirurgico: come un'operazione militare in medioriente.
E allora andiamo con le domanda chirurgica ed esaustiva: perché davanti a quello che non conosciamo, come ci succede nel presente caso, invece che un invito a dire di più, a spiegarsi, si riceve un'accusa di avere detto cose false, sì, insomma di avere mentito? E perché, poi, quella, addirittura, di essersi espressi da idioti?
Parliamo di cose troppe note: mentire ed essere pazzi: ecco i due lembi del problema: da tutte le culture e religioni di fantasia monoteista, desumiamo un concetto di verità assoluta; dal momento che la verità va dimostrata, chi dimostra deve esibire documenti: per vincere bisogna che il documento l'abbia scritto Dio, oppure possedere più documenti del nemico; chi perde è pazzo e la Santa Inquisizione lo spedisce in Siberia.
Ed allora, infatti, ecco la vera fonte del disagio procurato nel lettore: qui tutto puzza di eresia (scelta): prima di tutto D'annunzio. E certo, perché Fiume è un impresa di D'Annunzio e gli arditi nella fase di lotta antifascista si richiamavano ancora a lui in qualità di Comandante di Fiume; e D'Annunzio ce l'aveva tutte, meno quella di essere un uomo seriamente tentato da fantasie monoteiste. Parliamoci chiaro, D'Annunzio non aveva esattamente una verità in cui credere, a ben vedere nemmeno quella del proprio io: semmai aveva certo culto della propria estenuante maschera. Quando dico che D'Annunzio non aveva fantasie monoteiste, dico che gli era preclusa la possibilità di credere in una verità e in una realtà data: non poteva credere con Sant'Antonio, a quanto ci rivela Atanasio, che i demoni sono odiosi perché pure ombre e gli angeli amabili perché veri, e veri perché fanno stermini: D'annunzio si portava appresso un parnaso di stucchevoli diavoli. Avere questa preclusione alla verità e alla mistica della realtà comporta tante cose: non potrai mai ammazzare qualcuno con la storia di padron 'Toni e rincagnarlo nell'idea che se sei nato infelice, quello è, e zitto e pippa; non potrai mai freudianamente pensare che tutto si riduca a un tuo problema con lui (ma tu ce lo vedi uno scrittore nostrale chic in epoca dc-pci a fare l'amore con due donne, vestito da donna, senza mai toccarle come D'Annunzio: gioie che capisce solo un bambino pagano); e nemmeno puoi morire come Defoe, convinto che Robinson Crusoe è esistito per davvero, perché se ne aveva scritto era un documento, e il documento fa verità. (questa storia su Defoe controllatevela da soli. Se per caso me la sono inventata scrivete in redazione, che ne ho altre). Insomma D'Annunzio: aveva frainteso Nietzsche prima di leggerlo; era diventato dostoevskiano senza avere la più pallida idea di cose volesse dire Dostoevskij e, dopo essere stato un imboscato alla leva militare, pensa bene di essere un poeta-soldato e il vate dell'Italia in armi. Mercurialità pura: metti un monaco di qualsiasi religione giù a pregare, digiunare e flagellarsi per eoni e non so se si riduce l'ego a una roba tanto slabbrata. E qui, poi, arriviamo a Fiume: la città italiana di Fiume non era nelle richieste italiane, ma con un plebiscito la città, annessa come corpo separato al collassato impero austro-ungarico, chiede di divenire comune italiano. I Francesi non gradiscono che l'Italia abbia quel porto, i croati meno che mai; Wilson s'oppone e scatta la causa nazionalistica: D'Annunzio, nazionalista che non ti dico, e svariati militari conquistano la città. Bene. Però, dopo poche settimane gli svariati generali, come per esempio il fedelissimo al Re, alla Corona, al Papa e a tutto quello che capita Rocco Vadalà generale dei carabinieri; insomma, dopo poco, tutti i conservatori se ne fuggono via: D'Annunzio non è più nazionalista: è il principe della giovinezza sulla soglia della vecchiaia (più o meno parole sue). Fiume pullula di arditi, una formazione militare fatta di giovani volontari, spesso intellettuali, la maggior parte dei quali futuristi: nella guerra cercano la rivoluzione, perché, per esempio nel teorema di Mussolini, la guerra avrebbe accelerato la crisi dello stato liberale e fatto insorgere le masse: e ci siamo andati vicino, ma non troppo. E, siccome ci eravamo andati vicini ma non troppo, e in Italia stavamo tutti di nuovo alla vuoi al burro o al sugo, e alla mano lava l'altra, molti di questi ragazzi, invece di tornare a casa, andarono a Fiume per vedere se da lì sarebbe scoppiato qualcosa. Altri ragazzi, invece, non volevano tornare a casa perché la guerra, se non sei uno che ha la pace dentro, se non sei uno che ha la pace di chi la vita è la sua guerra; la guerra è più bella di qualsiasi altra cosa: e a Fiume si poteva ancora giocare a fare i soldati. A Fiume c'era anche il poeta belga comunista Kochinitzkj che fondò la lega dei paesi oppressi, una sorta di O.N.U. in cui erano invitati a partecipare tutti i paesi non capitalisti e che fece un po' (e per poco) innamorare D'Annunzio e anche i futuristi Carli e Marinetti dei bolcevici; e c'era il grande sindacalista anarchico Alceste De Ambris, che stilò la costituzione di Fiume in cui era sancito il diritto alla proprietà privata come diritto transitorio e sottomesso alla condizione che la ricchezza individuale fosse fonte di beneficio collettivo (e Maffeo Pantaleoni giudicò, infatti, la costituzione incompatibile con ogni attività economica perché trattava "i datori d'opra come malfattori da sorvegliare"); in cui veniva affermata la libertà assoluta di espressione; in cui si istituiva Fiume come terra aperta a tutte le nazionalità, a tutti i credo politici e religiosi (certo, tale Costantini vescovo, spedito dal Vaticano a controllare, dovette constatare con astio che a Fiume "Cristo era stato sostituito con Orfeo"; ma all'astio D'Annunzio rispondeva a pagani banchetti al quale il prete, nel quale la severità apostolica doveva al solito confinare con l'appetito borghese, rispondeva con un martire: sia fatta la volontà sua); a Fiume, anzi nello Stato chiamato "Reggenza italiana del Carnaro" (chiamata così perché è un endecasillabo, e "il ritmo ha sempre ragione") era inoltre sancito l'obbligo allo studio e il suffragio universale.
(lo dico di passaggio: l'anarchico sindacalista De Ambris è il padre del corporativismo; il corporativismo fa parte del bottino fiumano cannibalizzato da Mussolini e deformato in chiave burocratica; Mussolini cercherà più volte di annettere alla propria causa De Ambris, più volte invitandolo a rientrare dal suo esilio volontario dalla Francia; il P.C.I., più realista del re, invece lo condannerà per sempre).
Tutto questo fa di Fiume un fenomeno che è possibile leggere in diverse maniere. La maniera di Lenin e di Gramsci che hanno visto nell'impresa di D'Annunzio il massimo momento rivoluzionario in atto nel dopoguerra in Italia. Secondo il mio parere, ovviamente svagato, questa è la lettura del fenomeno fiumano più adatta a mettere in rilievo buona parte del suo carattere. Ovviamente è stata letta in Fiume una democrazia avanzatissima: in verità Fiume è avanzata senza essere propriamente una democrazia, preferendo essere una reggenza piuttosto che una repubblica, rifiutando il parlamentarismo liberale, il presidenzialismo americano e il dirigismo sovietico; in tempi recenti, da parte, se non sbaglio di Liberazione, l'espressione di uno stato comunista; il neo-anarchismo americano, attraverso la voce di Hakym Bey, vi ha visto un classico esempio di utopia pirata e di Zona Temporaneamente Occupata (T.A.Z.), ossia i nostri centri sociali e i vari festini-raves.
Ripeto che secondo il mio svagato parere, Fiume fu un'espressione di incondizionata e radicale rivoluzionarietà; secondo questo parere, però, tale rivoluzionarietà non è riconducibile a nessuna delle interpretazioni qui sopra. Anche tenendo conto della sua effimera durata, quello che in potenza esprimeva questa creazione dannunziana, era una sorta di Stato mutevole (forse vagamente: quel caso di concrezione eraclitea che fu la Cina di Mao), anarchico e libertario, ma dove la libertà era una conquista del sapere e della volontà: uno stato platonico in cui si invitava tutti ad essere il re filosofo, compresi quei marinai a cui D'Annunzio prega, voi che siete così forti e belli, di parlare in maniera degna della vostra forza e bellezza; lo Stato in cui, racconta Kochinitzkj, tutti parlavano la lingua aristocratica a popolare, stravagante ed estatica di quell'eroe e cafone (Forest) che fu D'Annunzio. Kochinitzkj gli capitò di essere severamente redarguito dal comandante quando stilò un documento usando un doppio genitivo (difficile dargli torto) e da allora lui, educato da una ricca famiglia borghese in cui era censurato l'estro espressivo si diede ad ogni stravaganza verbale.
Insomma Fiume fu il contrario dello stato burocratico, dello stato che concede zone di autonomia temporanea, della libertà del sabato sera, della libertà plebiscitaria; e, gli Arditi del Popolo, anarchici e militari, arditi D'Annunziani, sono i primi, nel momento in cui coinvolgono i cittadini di San Lorenzo a buttare l'olio sulle squadre fasciste dalle mura, e a combattere contro questa invasione, sono i primi a demarcare questo confine fra la rivoluzione radicale e la burocratizzazione dei sentimenti e delle coscienze, ad affermare nel fascismo di Mussolini (e qui potremmo discutere se tutto il fascismo si riduce a Mussolini) il tradimento di un sentimento, l'inferocimento del liberalismo borghese, e la precognizione del capitalismo avanzato. Gli Arditi del Popolo di Roma sono questo, e lo sono in modo isolato e coraggioso.
(e lo stesso solitario e coraggioso di sopra, Gramsci, se ne accorge quando intervista il capo della formazione, Argo Secondari, in prigione; e se ne dovrà pentire Togliatti, redarguito dai quadri sovietici, increduli di un P.C.I che a causa del così prudente e scientifico Bordiga non utilizzò vere forze rivoluzionarie perché ideologicamente non inquadrabili)
L'arditismo, ribadisco, è prima di tutto una ribellione del linguaggio; ed in questo senso più vivo che mai oggi, mentre scrivo queste riflessioni, sognando ancora, sognando noi, gli arditi.
Arditi, a noi!
Il fatto, bisogna dirlo, è che l'impresa fiumana prima, e l'azione politica degli arditi del popolo, poi, sono fatti sconosciuti, rimossi; ed il mio articolo troppo breve e inesaustivo: non c'è chi veda che questa, dunque, sarebbe una situazione del tutto virtuosa, aperta a diverse implicazioni, ognuna capace di arricchire l'immaginazione e la curiosità di chicchessia. Va bene, avrei potuto seguire Teofrasto, e la sua voce in qualche ultimo libero neoplatonico, ed essere più allusivo, meno preciso e inesatto, più provocatorio, per dare modo al lettore di usare i mezzi della propria intelligenza, di usare le parole del suo prossimo come macchina per pensare: ma non è epoca questa di certe libertà, e allora, oggi, sarò chirurgico: come un'operazione militare in medioriente.
E allora andiamo con le domanda chirurgica ed esaustiva: perché davanti a quello che non conosciamo, come ci succede nel presente caso, invece che un invito a dire di più, a spiegarsi, si riceve un'accusa di avere detto cose false, sì, insomma di avere mentito? E perché, poi, quella, addirittura, di essersi espressi da idioti?
Parliamo di cose troppe note: mentire ed essere pazzi: ecco i due lembi del problema: da tutte le culture e religioni di fantasia monoteista, desumiamo un concetto di verità assoluta; dal momento che la verità va dimostrata, chi dimostra deve esibire documenti: per vincere bisogna che il documento l'abbia scritto Dio, oppure possedere più documenti del nemico; chi perde è pazzo e la Santa Inquisizione lo spedisce in Siberia.
Ed allora, infatti, ecco la vera fonte del disagio procurato nel lettore: qui tutto puzza di eresia (scelta): prima di tutto D'annunzio. E certo, perché Fiume è un impresa di D'Annunzio e gli arditi nella fase di lotta antifascista si richiamavano ancora a lui in qualità di Comandante di Fiume; e D'Annunzio ce l'aveva tutte, meno quella di essere un uomo seriamente tentato da fantasie monoteiste. Parliamoci chiaro, D'Annunzio non aveva esattamente una verità in cui credere, a ben vedere nemmeno quella del proprio io: semmai aveva certo culto della propria estenuante maschera. Quando dico che D'Annunzio non aveva fantasie monoteiste, dico che gli era preclusa la possibilità di credere in una verità e in una realtà data: non poteva credere con Sant'Antonio, a quanto ci rivela Atanasio, che i demoni sono odiosi perché pure ombre e gli angeli amabili perché veri, e veri perché fanno stermini: D'annunzio si portava appresso un parnaso di stucchevoli diavoli. Avere questa preclusione alla verità e alla mistica della realtà comporta tante cose: non potrai mai ammazzare qualcuno con la storia di padron 'Toni e rincagnarlo nell'idea che se sei nato infelice, quello è, e zitto e pippa; non potrai mai freudianamente pensare che tutto si riduca a un tuo problema con lui (ma tu ce lo vedi uno scrittore nostrale chic in epoca dc-pci a fare l'amore con due donne, vestito da donna, senza mai toccarle come D'Annunzio: gioie che capisce solo un bambino pagano); e nemmeno puoi morire come Defoe, convinto che Robinson Crusoe è esistito per davvero, perché se ne aveva scritto era un documento, e il documento fa verità. (questa storia su Defoe controllatevela da soli. Se per caso me la sono inventata scrivete in redazione, che ne ho altre). Insomma D'Annunzio: aveva frainteso Nietzsche prima di leggerlo; era diventato dostoevskiano senza avere la più pallida idea di cose volesse dire Dostoevskij e, dopo essere stato un imboscato alla leva militare, pensa bene di essere un poeta-soldato e il vate dell'Italia in armi. Mercurialità pura: metti un monaco di qualsiasi religione giù a pregare, digiunare e flagellarsi per eoni e non so se si riduce l'ego a una roba tanto slabbrata. E qui, poi, arriviamo a Fiume: la città italiana di Fiume non era nelle richieste italiane, ma con un plebiscito la città, annessa come corpo separato al collassato impero austro-ungarico, chiede di divenire comune italiano. I Francesi non gradiscono che l'Italia abbia quel porto, i croati meno che mai; Wilson s'oppone e scatta la causa nazionalistica: D'Annunzio, nazionalista che non ti dico, e svariati militari conquistano la città. Bene. Però, dopo poche settimane gli svariati generali, come per esempio il fedelissimo al Re, alla Corona, al Papa e a tutto quello che capita Rocco Vadalà generale dei carabinieri; insomma, dopo poco, tutti i conservatori se ne fuggono via: D'Annunzio non è più nazionalista: è il principe della giovinezza sulla soglia della vecchiaia (più o meno parole sue). Fiume pullula di arditi, una formazione militare fatta di giovani volontari, spesso intellettuali, la maggior parte dei quali futuristi: nella guerra cercano la rivoluzione, perché, per esempio nel teorema di Mussolini, la guerra avrebbe accelerato la crisi dello stato liberale e fatto insorgere le masse: e ci siamo andati vicino, ma non troppo. E, siccome ci eravamo andati vicini ma non troppo, e in Italia stavamo tutti di nuovo alla vuoi al burro o al sugo, e alla mano lava l'altra, molti di questi ragazzi, invece di tornare a casa, andarono a Fiume per vedere se da lì sarebbe scoppiato qualcosa. Altri ragazzi, invece, non volevano tornare a casa perché la guerra, se non sei uno che ha la pace dentro, se non sei uno che ha la pace di chi la vita è la sua guerra; la guerra è più bella di qualsiasi altra cosa: e a Fiume si poteva ancora giocare a fare i soldati. A Fiume c'era anche il poeta belga comunista Kochinitzkj che fondò la lega dei paesi oppressi, una sorta di O.N.U. in cui erano invitati a partecipare tutti i paesi non capitalisti e che fece un po' (e per poco) innamorare D'Annunzio e anche i futuristi Carli e Marinetti dei bolcevici; e c'era il grande sindacalista anarchico Alceste De Ambris, che stilò la costituzione di Fiume in cui era sancito il diritto alla proprietà privata come diritto transitorio e sottomesso alla condizione che la ricchezza individuale fosse fonte di beneficio collettivo (e Maffeo Pantaleoni giudicò, infatti, la costituzione incompatibile con ogni attività economica perché trattava "i datori d'opra come malfattori da sorvegliare"); in cui veniva affermata la libertà assoluta di espressione; in cui si istituiva Fiume come terra aperta a tutte le nazionalità, a tutti i credo politici e religiosi (certo, tale Costantini vescovo, spedito dal Vaticano a controllare, dovette constatare con astio che a Fiume "Cristo era stato sostituito con Orfeo"; ma all'astio D'Annunzio rispondeva a pagani banchetti al quale il prete, nel quale la severità apostolica doveva al solito confinare con l'appetito borghese, rispondeva con un martire: sia fatta la volontà sua); a Fiume, anzi nello Stato chiamato "Reggenza italiana del Carnaro" (chiamata così perché è un endecasillabo, e "il ritmo ha sempre ragione") era inoltre sancito l'obbligo allo studio e il suffragio universale.
(lo dico di passaggio: l'anarchico sindacalista De Ambris è il padre del corporativismo; il corporativismo fa parte del bottino fiumano cannibalizzato da Mussolini e deformato in chiave burocratica; Mussolini cercherà più volte di annettere alla propria causa De Ambris, più volte invitandolo a rientrare dal suo esilio volontario dalla Francia; il P.C.I., più realista del re, invece lo condannerà per sempre).
Tutto questo fa di Fiume un fenomeno che è possibile leggere in diverse maniere. La maniera di Lenin e di Gramsci che hanno visto nell'impresa di D'Annunzio il massimo momento rivoluzionario in atto nel dopoguerra in Italia. Secondo il mio parere, ovviamente svagato, questa è la lettura del fenomeno fiumano più adatta a mettere in rilievo buona parte del suo carattere. Ovviamente è stata letta in Fiume una democrazia avanzatissima: in verità Fiume è avanzata senza essere propriamente una democrazia, preferendo essere una reggenza piuttosto che una repubblica, rifiutando il parlamentarismo liberale, il presidenzialismo americano e il dirigismo sovietico; in tempi recenti, da parte, se non sbaglio di Liberazione, l'espressione di uno stato comunista; il neo-anarchismo americano, attraverso la voce di Hakym Bey, vi ha visto un classico esempio di utopia pirata e di Zona Temporaneamente Occupata (T.A.Z.), ossia i nostri centri sociali e i vari festini-raves.
Ripeto che secondo il mio svagato parere, Fiume fu un'espressione di incondizionata e radicale rivoluzionarietà; secondo questo parere, però, tale rivoluzionarietà non è riconducibile a nessuna delle interpretazioni qui sopra. Anche tenendo conto della sua effimera durata, quello che in potenza esprimeva questa creazione dannunziana, era una sorta di Stato mutevole (forse vagamente: quel caso di concrezione eraclitea che fu la Cina di Mao), anarchico e libertario, ma dove la libertà era una conquista del sapere e della volontà: uno stato platonico in cui si invitava tutti ad essere il re filosofo, compresi quei marinai a cui D'Annunzio prega, voi che siete così forti e belli, di parlare in maniera degna della vostra forza e bellezza; lo Stato in cui, racconta Kochinitzkj, tutti parlavano la lingua aristocratica a popolare, stravagante ed estatica di quell'eroe e cafone (Forest) che fu D'Annunzio. Kochinitzkj gli capitò di essere severamente redarguito dal comandante quando stilò un documento usando un doppio genitivo (difficile dargli torto) e da allora lui, educato da una ricca famiglia borghese in cui era censurato l'estro espressivo si diede ad ogni stravaganza verbale.
Insomma Fiume fu il contrario dello stato burocratico, dello stato che concede zone di autonomia temporanea, della libertà del sabato sera, della libertà plebiscitaria; e, gli Arditi del Popolo, anarchici e militari, arditi D'Annunziani, sono i primi, nel momento in cui coinvolgono i cittadini di San Lorenzo a buttare l'olio sulle squadre fasciste dalle mura, e a combattere contro questa invasione, sono i primi a demarcare questo confine fra la rivoluzione radicale e la burocratizzazione dei sentimenti e delle coscienze, ad affermare nel fascismo di Mussolini (e qui potremmo discutere se tutto il fascismo si riduce a Mussolini) il tradimento di un sentimento, l'inferocimento del liberalismo borghese, e la precognizione del capitalismo avanzato. Gli Arditi del Popolo di Roma sono questo, e lo sono in modo isolato e coraggioso.
(e lo stesso solitario e coraggioso di sopra, Gramsci, se ne accorge quando intervista il capo della formazione, Argo Secondari, in prigione; e se ne dovrà pentire Togliatti, redarguito dai quadri sovietici, increduli di un P.C.I che a causa del così prudente e scientifico Bordiga non utilizzò vere forze rivoluzionarie perché ideologicamente non inquadrabili)
L'arditismo, ribadisco, è prima di tutto una ribellione del linguaggio; ed in questo senso più vivo che mai oggi, mentre scrivo queste riflessioni, sognando ancora, sognando noi, gli arditi.
Arditi, a noi!
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