RACCONTI
Leo Ruberto
Balbet-t-are
Alle scuole medie gli altri mi chiamavano “Fi-filippa”, perché mi capitava di balbettare, non tanto spesso, per loro era abbastanza.
In un momento qualsiasi qualcuno dal fondo dell'aula gridava: “Fi-filippa,” e tutti all'unisono aggiungevano: “Fa-facci 'na pippa”.
Passai tutti quegli anni cercando di togliere quel nome da me. Non si trattava di fare esercizi con la lingua o lavorare sulla propria emotività. C’era una strada più semplice: evitare situazioni che mi portassero a balbettare.
Non credo che sia necessario che nella vita tutti facciano gli oratori, ci sono tanti altri lavori.
Scelsi di fare la scrittrice, ci sarebbe voluto del tempo, anzi forse non era questione di tempo. Per me fare la scrittrice significava salvare la mia esistenza, un’occasione unica per fuggire, via dalla matematica, via dalle regole, via dalle istituzioni, via dalle parate. Non che credessi che fosse corretto scrivere scorrettamente, no, ci lavoravo parecchio sui miei testi.
Nel frattempo mi iscrissi, mi sembrava naturale, alla facoltà di lettere.
Ed ecco anche lì quelle torture inutili, quella tensione da esame, sperperare energie per restare salda di fronte ad attacchi immotivati di professori prestigiosi, è così che va, ma perché? non potevo essere tanto presuntuosa da cambiare il mondo, però continuo a credere che se gli uomini sprecassero meno energie su apparenze, pubbliche apparizioni, dichiarazioni ufficiali, e le indirizzassero su se stessi, sarebbero molti di più gli uomini che hanno camminato sulla superficie della luna.
Io volevo raggiungere la mia luna, scrivendo.
Non era facile con tutti quegli ostacoli, non potevo scrivere bene senza fare la vita da scrittrice, ma senza prima scrivere il capolavoro giusto non potevo diventare una scrittrice. Se gli scrittori avessero la coda se la morderebbero, ma la natura non ha dato loro nemmeno quella.
Non potevo fare la mia vita, dopo l’università dovetti fare un lavoro qualsiasi.
Poi venne l’occasione, almeno così la vedevo e per quanto ne sapevo non potevo vederla diversamente: il premio letterario, il primo posto, la pubblicazione.
Di fronte al bando agli stemmi ai vari patrocini, mi prese uno strano conosciuto brivido lungo la schiena.
Però mi aspettavano, era la mia inevitabile occasione.
Mi presentai davanti al pubblico elegante che se ne fregava: “Buonasera a tutti, mi chiamo Fi-filippa...”
La mia stupida mente si aprì.
E mentre continuavo a sentirmi parlare in sottofondo, pensavo che il lavoro adatto a me, non avrei più parlato in pubblico per davvero, non avrei più balbettato e comunque non se ne sarebbe accorto nessuno, non era la scrittrice, cretina che non sei altro, ma la puttana.
In un momento qualsiasi qualcuno dal fondo dell'aula gridava: “Fi-filippa,” e tutti all'unisono aggiungevano: “Fa-facci 'na pippa”.
Passai tutti quegli anni cercando di togliere quel nome da me. Non si trattava di fare esercizi con la lingua o lavorare sulla propria emotività. C’era una strada più semplice: evitare situazioni che mi portassero a balbettare.
Non credo che sia necessario che nella vita tutti facciano gli oratori, ci sono tanti altri lavori.
Scelsi di fare la scrittrice, ci sarebbe voluto del tempo, anzi forse non era questione di tempo. Per me fare la scrittrice significava salvare la mia esistenza, un’occasione unica per fuggire, via dalla matematica, via dalle regole, via dalle istituzioni, via dalle parate. Non che credessi che fosse corretto scrivere scorrettamente, no, ci lavoravo parecchio sui miei testi.
Nel frattempo mi iscrissi, mi sembrava naturale, alla facoltà di lettere.
Ed ecco anche lì quelle torture inutili, quella tensione da esame, sperperare energie per restare salda di fronte ad attacchi immotivati di professori prestigiosi, è così che va, ma perché? non potevo essere tanto presuntuosa da cambiare il mondo, però continuo a credere che se gli uomini sprecassero meno energie su apparenze, pubbliche apparizioni, dichiarazioni ufficiali, e le indirizzassero su se stessi, sarebbero molti di più gli uomini che hanno camminato sulla superficie della luna.
Io volevo raggiungere la mia luna, scrivendo.
Non era facile con tutti quegli ostacoli, non potevo scrivere bene senza fare la vita da scrittrice, ma senza prima scrivere il capolavoro giusto non potevo diventare una scrittrice. Se gli scrittori avessero la coda se la morderebbero, ma la natura non ha dato loro nemmeno quella.
Non potevo fare la mia vita, dopo l’università dovetti fare un lavoro qualsiasi.
Poi venne l’occasione, almeno così la vedevo e per quanto ne sapevo non potevo vederla diversamente: il premio letterario, il primo posto, la pubblicazione.
Di fronte al bando agli stemmi ai vari patrocini, mi prese uno strano conosciuto brivido lungo la schiena.
Però mi aspettavano, era la mia inevitabile occasione.
Mi presentai davanti al pubblico elegante che se ne fregava: “Buonasera a tutti, mi chiamo Fi-filippa...”
La mia stupida mente si aprì.
E mentre continuavo a sentirmi parlare in sottofondo, pensavo che il lavoro adatto a me, non avrei più parlato in pubblico per davvero, non avrei più balbettato e comunque non se ne sarebbe accorto nessuno, non era la scrittrice, cretina che non sei altro, ma la puttana.
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