ATTUALITA'
Giovanna Repetto
C’è vita nella fantascienza italiana? Incontro con Dario Tonani
Proseguendo il viaggio nella fantascienza italiana, una tappa obbligata ci porta a Dario Tonani. Che dire di lui? Riassumere vita e opere di una personalità così poliedrica è opera ardua. Giornalista e scrittore, maneggia e mescola con disinvoltura diversi generi letterari: fantascienza, noir, horror e thriller. Milanese, ha ambientato diversi romanzi in una Milano distopica, caotica, pericolosa e avvelenata. Grande successo ha avuto Infect@, pubblicato da Urania nel 2007, a cui ha poi dato un seguito con Toxic@ nel 2011. Nel 2009, sempre per Urania, è uscito L’algoritmo bianco, mini ciclo dell’Agoverso composto da due romanzi brevi, ambientati entrambi nella Milano del 2045 e incentrati su uno stesso personaggio: il killer Gregorius Moffa. Nell’agosto del 2015 è stato il primo autore italiano ad approdare su Millemondi di Urania con un volume tutto suo. È la saga Cronache di Mondo9, ambientata su un pianeta desertico, dove su una sconfinata distesa di sabbie velenose si muovono titaniche “navi”. Cominciamo qui la nostra conversazione.
Dario, sei un creatore di mondi. Il tuo Mondo 9 è una di quelle entità immaginate che diventano reali attraverso la coerenza, la persuasione, la reiterazione, la suggestione e il coinvolgimento di altra creatività: penso ai disegnatori che danno forma alle tue navi, agli autori che si sono ispirati al tuo lavoro per i loro racconti. Che rapporto hai con Mondo9?
Certi incontri finiscono per diventare amore, senza quasi che tu ne accorga. Con Mondo9 è stato così. Siamo diventati una coppia, in realtà una famiglia aperta. Vero: parecchi disegnatori e autori si sono accasati in questo universo. Franco Brambilla, che considero l’artista “ufficiale” di corte, e poi Maurizio Manzieri, Paolo Barbieri, Massimo Dall’Oglio, Diego Capani e tantissimi altri. Così com’è accaduto per i numerosi autori di fanfiction.
Insomma, è come un organismo che è cresciuto nel tempo.
Com’è stato l’inizio? È cominciato come un’idea qualunque o hai capito subito che sarebbe diventato un mito?
Se è cominciato da un’idea qualunque? Sì, direi assolutamente di sì. E in fondo è rimasta tale, altro che mito. Forse la sua potenza espressiva sta proprio in questo: un’idea semplice, brutale, che ruota attorno al concetto di sopravvivenza all’interno di un habitat che si oppone con tutte le sue forze al concetto stesso di vita… Storia che sento molto mia, ma che può essere una metafora patrimonio di tutti e di ciascuno.
Tu stesso dai l’idea di esserci rimasto intrappolato, perché torni ripetutamente sull’argomento, lo arricchisci di nuovi contributi.
Intrappolato dici? Sarei in tema, no?
E con i tuoi personaggi che cosa succede? Sei legato a qualcuno in modo particolare?
Mi è rimasto appiccicato addosso Gregorius Moffa.
Gregorius Moffa, il killer de L’algoritmo bianco!
È il mio lato oscuro. Quel tipo di losco figuro che stentiamo persino ad ammettere che possa albergare in una parte di noi. Quella specie di fratello un po’ manesco che mi è sempre mancato. Mi sono divertito moltissimo a pensare con la sua testa.
Se non sbaglio hai tenuto dei corsi di scrittura per insegnare a costruire mondi immaginari. È una cosa intrigante.
In realtà non ho mai tenuto né seguito alcun corso di scrittura creativa. Sono solo stato chiamato, lo scorso ottobre a Ciampino, a tenere un workshop di otto ore sulla scrittura seriale; una full immersion di natura più metodologica che tecnica su come affrontare cicli e fix-up. Comincio ad averne parecchi sul groppone: dal ciclo dei +toon (Infect@ e Toxic@ su Urania 1527 e 1544), a quelli dell’Agoverso (L’algoritmo bianco, Urania 1574) e di Mondo9 (Millemondi 72) e poi quello di WAR (Delos Books).
Scrittura seriale. Ci sono regole particolari per chi la pratica?
Le saghe - tutte, direi - sono espressioni di testa e di “approccio” più che di regole di scrittura. Bisogna gestire e mettere a frutto tanti elementi di contorno al lavoro di stesura vero e proprio: innanzitutto una forma di autodisciplina personale (c’è qualcosa di squisitamente muscolare nella scrittura, che deve sempre essere mantenuto in allenamento), poi la tenacia, la fedeltà, direi quasi l’abnegazione nel perseguire un solo obiettivo in un lasso di tempo piuttosto lungo. E infine c’è la necessità di sopportare attese estenuanti senza cadere nello sconforto. Chi non ha la predisposizione ad aspettare è meglio che lasci perdere l’attività di scrittura e si dedichi ad altro. Tutti questi elementi finiscono per rispecchiarsi nel prodotto finale dando alla creatività una certa solidità d’insieme.
Una parte della tua produzione fantascientifica è rappresentata da racconti di guerra. Da dove viene questo impulso a parlare di guerra? Paura, scaramanzia o… un sano sfogo?
Quello della cosiddetta Military SF è un ramo molto attivo della fantascienza contemporanea, soprattutto Oltreoceano, dove ha acquistato quasi lo status di genere a sé, con tanto di scrittori e opere cult e collane dedicate: pensiamo a Robert A. Heinlein, Joe Haldeman, Richard Morgan, John Scalzi, solo per citare i più tradotti. Se escludiamo il ciclo di Terminal War del grande Alan D. Altieri, nel piccolo mondo autoriale italiano è un territorio pressoché sconosciuto, quasi pionieristico, confinato essenzialmente alle opere brevi. E amando sperimentare e cambiarmi spesso d’abito, da lì sono partito anch’io con l’intenzione di sviluppare un piccolo progetto seriale, quello appunto di W.A.R., uscito dapprima per la defunta etichetta Mazzotints e poi per Delos Digital. Anche se il primo racconto - Necroware - è uscito nello Speciale Urania Horror In fondo al nero del 2003.
Nei tuoi racconti di guerra compaiono i poliarmoidi, oggetti (o esseri?) dal fascino sinistro. E non sono rimasti confinati sulla pagina scritta: ti ho visto perfino maneggiarne dei prototipi! Chi l’ha costruiti?
I poliarmoidi? Un progetto che oserei definire ancora più d’avanguardia, che ha dato origine a una forma espressiva per certi versi nuova e inedita, almeno nella fantascienza, tanto da rendere necessario coniare un neologismo: “photonovel”. L’idea è nata dalla collaborazione con il digital artist Daniele Gay, che ha preso a cuore il racconto Poliarmoidi e mi ha proposto di farne una sorta di graphic novel che al posto delle illustrazioni avesse una serie di foto ampiamente elaborate al pc. E ne è rimasto talmente coinvolto da voler realizzare non uno, ma addirittura due prototipi di poliarmoidi dotati di luci: esemplari spettacolari anche in termini di fedeltà a quelli descritti nel racconto, costruiti con grande senso estetico utilizzando i materiali più disparati. Li abbiamo portati a tutte le presentazioni della photonovel intitolata S.P.A.A.R. (acronimo di Sistemi Poli Arma Auto Riconfiguranti) liberamente tratta dal racconto originario: a Rimini, Forlimpopoli e lo scorso ottobre a Stranimondi a Milano.
Ho visto anche un bellissimo video sull’argomento. Immagini degne di un film di fantascienza. Come l’avete realizzato?
Gay ha lavorato proprio come su un set cinematografico: scegliendo la location per le riprese - l’ex Pastificio Ghigi, ora abbandonato, sulla superstrada che da Rimini porta a San Marino -, chiedendo tutti i permessi del caso per lo shooting fotografico e ingaggiando attori in carne e ossa per diverse giornate. Ne è nato anche un video promozionale sì, in attesa che la “photonovel” trovi un editore.
Una fabbrica abbandonata, centri commerciali in disuso, rottami e rifiuti di ogni genere. Anche ne L’algoritmo bianco descrivi una Milano distopica e deflagrata. Sembra che gli oggetti si siano degradati e snaturati fino a diventare altro da sé, fino al punto di creare quasi una nuova estetica. Questo mi ha ricordato per esempio il Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackji C’è comunque un certo gusto per l’orrido, per la corruzione della materia, penso anche alla ruggine delle navi di Mondo9. Quasi il languore del cupio dissolvi.
La “mia” estetica in realtà non è né mia né nuova, anche se vado orgoglioso del fatto che molti lettori me ne riconoscano un’interpretazione originale oltre che una piena appartenenza. Deriva dalla cosiddetta “Dirty visual” del Cyberpunk, gruppo di autori che sdoganò in maniera definitiva la visione di un domani cupo, buio, sporco, sovrappopolato e… perennemente piovoso. Con gli stalker dei fratelli Strugackji mi inviti a nozze; il loro romanzo Picnic sul ciglio della strada, del 1972, fu una specie di sortita in quello che sarebbe arrivato una decina d’anni dopo appunto con il movimento che fa capo a William Gibson e Bruce Sterling. Se ne discute molto nell’ambiente della fantascienza contemporanea: ora è piuttosto difficile immaginare un futuro che non sia contaminato dalla cupezza e dal pessimismo (del resto, la realtà da cui si parte ce l’abbiamo sotto gli occhi!). Elementi questi che furono introdotti da quegli scrittori che smisero di guardare allo spazio come a una nuova frontiera. Corruzione della materia, cupio dissolvi, autodistruzione, degenerazione delle coscienze, il mondo che invecchia e si accartoccia su se stesso? C’è quasi tutto Mondo9 in ognuna di queste parole.
Parliamo dell’agoverso, su sui sono incentrati i due romanzi de L’algoritmo bianco. L’agoverso è una rete. Sembra una mostruosa e ipertrofica versione del web. Nella fantascienza c’è sempre stato lo spettro di una minaccia che si è evoluta e ha cambiato forma nel tempo, come se i progressi della scienza andassero di pari passo con gli incubi dell’umanità. Ora c’è l’informatica, che sta già dando i suoi frutti nell’alimentare fantasie e paure. Anche tu, parlando dell’Agoverso, hai esorcizzato delle paure?
Tutti i libri parlano in un modo o nell’altro di paura; a cominciare dalle storie d’amore, che ruotano attorno al terrore di essere lasciati o traditi. La paura è uno straordinario motore narrativo, nessuno ne è immune. E tantomeno gli scrittori di fantascienza, che sulla possibilità che qualcosa possa andare storto hanno intessuto plot spettacolari. Ed è appunto questo il punto: non c’è appeal in qualcosa che fila tutto liscio, come programmato, per quanto piena zeppa di meraviglia possa essere una storia. La paura è inquietudine, mistero, imprevedibilità, shock. È l’uomo - l’adulto - che si confronta con se stesso, la propria natura, la propria memoria, il proprio futuro. Ne L’algoritmo bianco ho scelto il non luogo per eccellenza, l’Agoverso, che ho invitato il lettore a immaginare come a un mix di social, Youtube, piattaforme digitali, realtà virtuale, rete dati di ultima generazione che possano essere distillati in una goccia di profumo da portarsi addosso ovunque, di giorno come di notte. Una goccia che è un mondo, una lente attraverso la quale arrivare a sbirciare in ogni angolo del presente, del passato e, perché no, del futuro.
A proposito di sbirciare, dagli scorci che lasci trapelare sul tuo studio privato si intravedono presenze inquietanti: piccoli robot, alieni, minuscole creature in gabbia, collezioni di mappamondi, strumenti di una tecnologia antica e prototipi avveniristici. Da dove nasce questo mettere in gioco oggetti concreti e mettersi in gioco attraverso gli oggetti? È collezionismo, voglia di giocare, testimonianza di una passione, voglia di toccare con mano gli oggetti della fantasia?
Un concorso di circostanze e un crocevia di mondi, reali e fantastici. Sono stato un collezionista fin da bambino, volente o nolente la forma mentis è rimasta quella: dapprima i soldatini e i minerali, poi le Montblanc, le Betty Boop, i robottini vintage, i mappamondi… Ma non lo faccio per esibire, tutt’altro: per convincermi! Convincermi che qualcosa della mia fantasia mi rimane addosso, lo posso prendere in mano per sognare a occhi aperti e giocarci. Obiettivo ultimo, trasformare il mio mondo interiore in un piccolo habitat personale in cui sentirmi a mio agio…
Sei stato tradotto in Usa e in Giappone. Come sei arrivato in Giappone?
Con un’email. Una mattina, nella casella di posta elettronica, ne trovai una scritta in un inglese un po’ maccheronico. Era il titolare della C-Light, una casa editrice di Tokyo, che mi spiegava molto “cerimoniosamente” che sarebbe stato interessato a pubblicare Mondo9 in Giappone. Cominciò tutto con una grande emozione e la necessità di leggere il testo una mezza dozzina di volte, per essere davvero sicuro di quanto mi si prospettava. Girai tutto al mio agente e ci vollero nove mesi (no, dico, 9!) per arrivare alla firma in calce a un contratto. Per parecchie settimane ho lavorato a stretto contatto con il traduttore, Koji Kubo, e siamo rimasti amici, al punto che ci sentiamo ancora oggi. È stata un’esperienza a dir poco fantastica…
La fantascienza italiana si sta guadagnando un posto nel panorama internazionale, grazie ad autori come te. A che punto siamo?
È un piccolo mondo in espansione; non dico una stella, ma un planetoide solido, con un’orbita propria e definita. Insomma, qualcosa di ben diverso dalla biosfera da scrivania di qualche anno fa, quando magari se ne vedeva di più sugli scaffali delle librerie, ma era ugualmente confinata a una nicchia ristrettissima di appassionati. Il suo problema - come quello della fantascienza in generale - è il mercato, e ancora di più il fatto che non esista un ricambio generazionale dei lettori: i giovani non leggono SciFi, preferiscono altro, o per lo meno scelgono di assumerla con altri mezzi (cinema, videogiochi, spot tv, giochi di ruolo, Rete). Quanto alla fantascienza italiana, oggi qualcosa sta cambiando. È un po’ meno chiusa, autoreferenziale e rosa dai complessi d’inferiorità di un tempo; nonostante l’italiano sia periferia linguistica, si sta aprendo un po’ di più al mondo, complice un mercato più globale anche nell’interscambio di fiction.
E i sottogeneri? Come possiamo classificarli?
La fantascienza è un mare magnum. Un ecosistema così ricco non esiste in nessun altro genere letterario. Dobbiamo continuare a coniare etichette e definizioni perché la complessità di spunti/prospettive è tale che ogni termine finisce per essere inadeguato e andarci stretto. In Italia c’è stata una lunga stagione di fantascienza ucronica, a cui ne è seguita una un po’ più breve legata al noir e al poliziesco, ora emerge a macchia di leopardo lo steampunk e la space opera. Non mi piace però parlare di etichette. Vado orgoglioso di non riconoscermi in nessuna, di essere un apolide dei generi. Le etichette sono molto più funzionali per chi legge che per chi scrive. E quindi lascio volentieri ai lettori la scelta di dove incasellarmi. Per parte mia, ho scelto la strada della contaminazione e dell’ibridazione tra generi attigui. Le creature a due teste. Per non farmi tirare per la coda.
Dai l’impressione di avere sempre qualcosa che bolle in pentola. Che cosa hai architettato per il futuro?
Sì, materiale in pentola bolle sempre, e in questo caso è qualcosa di cui vado molto orgoglioso. Chi mi segue abitualmente sui social credo che sappia già a cosa mi riferisco: è il nuovo capitolo della saga di Mondo9, un romanzo vero e proprio che riprende alcuni personaggi delle "Cronache". Ma permettimi di non dare ancora i dettagli, spero di poterlo fare presto... Quindi, stay tuned.
http://www.dariotonani.it/
Dario, sei un creatore di mondi. Il tuo Mondo 9 è una di quelle entità immaginate che diventano reali attraverso la coerenza, la persuasione, la reiterazione, la suggestione e il coinvolgimento di altra creatività: penso ai disegnatori che danno forma alle tue navi, agli autori che si sono ispirati al tuo lavoro per i loro racconti. Che rapporto hai con Mondo9?
Certi incontri finiscono per diventare amore, senza quasi che tu ne accorga. Con Mondo9 è stato così. Siamo diventati una coppia, in realtà una famiglia aperta. Vero: parecchi disegnatori e autori si sono accasati in questo universo. Franco Brambilla, che considero l’artista “ufficiale” di corte, e poi Maurizio Manzieri, Paolo Barbieri, Massimo Dall’Oglio, Diego Capani e tantissimi altri. Così com’è accaduto per i numerosi autori di fanfiction.
Insomma, è come un organismo che è cresciuto nel tempo.
Com’è stato l’inizio? È cominciato come un’idea qualunque o hai capito subito che sarebbe diventato un mito?
Se è cominciato da un’idea qualunque? Sì, direi assolutamente di sì. E in fondo è rimasta tale, altro che mito. Forse la sua potenza espressiva sta proprio in questo: un’idea semplice, brutale, che ruota attorno al concetto di sopravvivenza all’interno di un habitat che si oppone con tutte le sue forze al concetto stesso di vita… Storia che sento molto mia, ma che può essere una metafora patrimonio di tutti e di ciascuno.
Tu stesso dai l’idea di esserci rimasto intrappolato, perché torni ripetutamente sull’argomento, lo arricchisci di nuovi contributi.
Intrappolato dici? Sarei in tema, no?
E con i tuoi personaggi che cosa succede? Sei legato a qualcuno in modo particolare?
Mi è rimasto appiccicato addosso Gregorius Moffa.
Gregorius Moffa, il killer de L’algoritmo bianco!
È il mio lato oscuro. Quel tipo di losco figuro che stentiamo persino ad ammettere che possa albergare in una parte di noi. Quella specie di fratello un po’ manesco che mi è sempre mancato. Mi sono divertito moltissimo a pensare con la sua testa.
Se non sbaglio hai tenuto dei corsi di scrittura per insegnare a costruire mondi immaginari. È una cosa intrigante.
In realtà non ho mai tenuto né seguito alcun corso di scrittura creativa. Sono solo stato chiamato, lo scorso ottobre a Ciampino, a tenere un workshop di otto ore sulla scrittura seriale; una full immersion di natura più metodologica che tecnica su come affrontare cicli e fix-up. Comincio ad averne parecchi sul groppone: dal ciclo dei +toon (Infect@ e Toxic@ su Urania 1527 e 1544), a quelli dell’Agoverso (L’algoritmo bianco, Urania 1574) e di Mondo9 (Millemondi 72) e poi quello di WAR (Delos Books).
Scrittura seriale. Ci sono regole particolari per chi la pratica?
Le saghe - tutte, direi - sono espressioni di testa e di “approccio” più che di regole di scrittura. Bisogna gestire e mettere a frutto tanti elementi di contorno al lavoro di stesura vero e proprio: innanzitutto una forma di autodisciplina personale (c’è qualcosa di squisitamente muscolare nella scrittura, che deve sempre essere mantenuto in allenamento), poi la tenacia, la fedeltà, direi quasi l’abnegazione nel perseguire un solo obiettivo in un lasso di tempo piuttosto lungo. E infine c’è la necessità di sopportare attese estenuanti senza cadere nello sconforto. Chi non ha la predisposizione ad aspettare è meglio che lasci perdere l’attività di scrittura e si dedichi ad altro. Tutti questi elementi finiscono per rispecchiarsi nel prodotto finale dando alla creatività una certa solidità d’insieme.
Una parte della tua produzione fantascientifica è rappresentata da racconti di guerra. Da dove viene questo impulso a parlare di guerra? Paura, scaramanzia o… un sano sfogo?
Quello della cosiddetta Military SF è un ramo molto attivo della fantascienza contemporanea, soprattutto Oltreoceano, dove ha acquistato quasi lo status di genere a sé, con tanto di scrittori e opere cult e collane dedicate: pensiamo a Robert A. Heinlein, Joe Haldeman, Richard Morgan, John Scalzi, solo per citare i più tradotti. Se escludiamo il ciclo di Terminal War del grande Alan D. Altieri, nel piccolo mondo autoriale italiano è un territorio pressoché sconosciuto, quasi pionieristico, confinato essenzialmente alle opere brevi. E amando sperimentare e cambiarmi spesso d’abito, da lì sono partito anch’io con l’intenzione di sviluppare un piccolo progetto seriale, quello appunto di W.A.R., uscito dapprima per la defunta etichetta Mazzotints e poi per Delos Digital. Anche se il primo racconto - Necroware - è uscito nello Speciale Urania Horror In fondo al nero del 2003.
Nei tuoi racconti di guerra compaiono i poliarmoidi, oggetti (o esseri?) dal fascino sinistro. E non sono rimasti confinati sulla pagina scritta: ti ho visto perfino maneggiarne dei prototipi! Chi l’ha costruiti?
I poliarmoidi? Un progetto che oserei definire ancora più d’avanguardia, che ha dato origine a una forma espressiva per certi versi nuova e inedita, almeno nella fantascienza, tanto da rendere necessario coniare un neologismo: “photonovel”. L’idea è nata dalla collaborazione con il digital artist Daniele Gay, che ha preso a cuore il racconto Poliarmoidi e mi ha proposto di farne una sorta di graphic novel che al posto delle illustrazioni avesse una serie di foto ampiamente elaborate al pc. E ne è rimasto talmente coinvolto da voler realizzare non uno, ma addirittura due prototipi di poliarmoidi dotati di luci: esemplari spettacolari anche in termini di fedeltà a quelli descritti nel racconto, costruiti con grande senso estetico utilizzando i materiali più disparati. Li abbiamo portati a tutte le presentazioni della photonovel intitolata S.P.A.A.R. (acronimo di Sistemi Poli Arma Auto Riconfiguranti) liberamente tratta dal racconto originario: a Rimini, Forlimpopoli e lo scorso ottobre a Stranimondi a Milano.
Ho visto anche un bellissimo video sull’argomento. Immagini degne di un film di fantascienza. Come l’avete realizzato?
Gay ha lavorato proprio come su un set cinematografico: scegliendo la location per le riprese - l’ex Pastificio Ghigi, ora abbandonato, sulla superstrada che da Rimini porta a San Marino -, chiedendo tutti i permessi del caso per lo shooting fotografico e ingaggiando attori in carne e ossa per diverse giornate. Ne è nato anche un video promozionale sì, in attesa che la “photonovel” trovi un editore.
Una fabbrica abbandonata, centri commerciali in disuso, rottami e rifiuti di ogni genere. Anche ne L’algoritmo bianco descrivi una Milano distopica e deflagrata. Sembra che gli oggetti si siano degradati e snaturati fino a diventare altro da sé, fino al punto di creare quasi una nuova estetica. Questo mi ha ricordato per esempio il Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackji C’è comunque un certo gusto per l’orrido, per la corruzione della materia, penso anche alla ruggine delle navi di Mondo9. Quasi il languore del cupio dissolvi.
La “mia” estetica in realtà non è né mia né nuova, anche se vado orgoglioso del fatto che molti lettori me ne riconoscano un’interpretazione originale oltre che una piena appartenenza. Deriva dalla cosiddetta “Dirty visual” del Cyberpunk, gruppo di autori che sdoganò in maniera definitiva la visione di un domani cupo, buio, sporco, sovrappopolato e… perennemente piovoso. Con gli stalker dei fratelli Strugackji mi inviti a nozze; il loro romanzo Picnic sul ciglio della strada, del 1972, fu una specie di sortita in quello che sarebbe arrivato una decina d’anni dopo appunto con il movimento che fa capo a William Gibson e Bruce Sterling. Se ne discute molto nell’ambiente della fantascienza contemporanea: ora è piuttosto difficile immaginare un futuro che non sia contaminato dalla cupezza e dal pessimismo (del resto, la realtà da cui si parte ce l’abbiamo sotto gli occhi!). Elementi questi che furono introdotti da quegli scrittori che smisero di guardare allo spazio come a una nuova frontiera. Corruzione della materia, cupio dissolvi, autodistruzione, degenerazione delle coscienze, il mondo che invecchia e si accartoccia su se stesso? C’è quasi tutto Mondo9 in ognuna di queste parole.
Parliamo dell’agoverso, su sui sono incentrati i due romanzi de L’algoritmo bianco. L’agoverso è una rete. Sembra una mostruosa e ipertrofica versione del web. Nella fantascienza c’è sempre stato lo spettro di una minaccia che si è evoluta e ha cambiato forma nel tempo, come se i progressi della scienza andassero di pari passo con gli incubi dell’umanità. Ora c’è l’informatica, che sta già dando i suoi frutti nell’alimentare fantasie e paure. Anche tu, parlando dell’Agoverso, hai esorcizzato delle paure?
Tutti i libri parlano in un modo o nell’altro di paura; a cominciare dalle storie d’amore, che ruotano attorno al terrore di essere lasciati o traditi. La paura è uno straordinario motore narrativo, nessuno ne è immune. E tantomeno gli scrittori di fantascienza, che sulla possibilità che qualcosa possa andare storto hanno intessuto plot spettacolari. Ed è appunto questo il punto: non c’è appeal in qualcosa che fila tutto liscio, come programmato, per quanto piena zeppa di meraviglia possa essere una storia. La paura è inquietudine, mistero, imprevedibilità, shock. È l’uomo - l’adulto - che si confronta con se stesso, la propria natura, la propria memoria, il proprio futuro. Ne L’algoritmo bianco ho scelto il non luogo per eccellenza, l’Agoverso, che ho invitato il lettore a immaginare come a un mix di social, Youtube, piattaforme digitali, realtà virtuale, rete dati di ultima generazione che possano essere distillati in una goccia di profumo da portarsi addosso ovunque, di giorno come di notte. Una goccia che è un mondo, una lente attraverso la quale arrivare a sbirciare in ogni angolo del presente, del passato e, perché no, del futuro.
A proposito di sbirciare, dagli scorci che lasci trapelare sul tuo studio privato si intravedono presenze inquietanti: piccoli robot, alieni, minuscole creature in gabbia, collezioni di mappamondi, strumenti di una tecnologia antica e prototipi avveniristici. Da dove nasce questo mettere in gioco oggetti concreti e mettersi in gioco attraverso gli oggetti? È collezionismo, voglia di giocare, testimonianza di una passione, voglia di toccare con mano gli oggetti della fantasia?
Un concorso di circostanze e un crocevia di mondi, reali e fantastici. Sono stato un collezionista fin da bambino, volente o nolente la forma mentis è rimasta quella: dapprima i soldatini e i minerali, poi le Montblanc, le Betty Boop, i robottini vintage, i mappamondi… Ma non lo faccio per esibire, tutt’altro: per convincermi! Convincermi che qualcosa della mia fantasia mi rimane addosso, lo posso prendere in mano per sognare a occhi aperti e giocarci. Obiettivo ultimo, trasformare il mio mondo interiore in un piccolo habitat personale in cui sentirmi a mio agio…
Sei stato tradotto in Usa e in Giappone. Come sei arrivato in Giappone?
Con un’email. Una mattina, nella casella di posta elettronica, ne trovai una scritta in un inglese un po’ maccheronico. Era il titolare della C-Light, una casa editrice di Tokyo, che mi spiegava molto “cerimoniosamente” che sarebbe stato interessato a pubblicare Mondo9 in Giappone. Cominciò tutto con una grande emozione e la necessità di leggere il testo una mezza dozzina di volte, per essere davvero sicuro di quanto mi si prospettava. Girai tutto al mio agente e ci vollero nove mesi (no, dico, 9!) per arrivare alla firma in calce a un contratto. Per parecchie settimane ho lavorato a stretto contatto con il traduttore, Koji Kubo, e siamo rimasti amici, al punto che ci sentiamo ancora oggi. È stata un’esperienza a dir poco fantastica…
La fantascienza italiana si sta guadagnando un posto nel panorama internazionale, grazie ad autori come te. A che punto siamo?
È un piccolo mondo in espansione; non dico una stella, ma un planetoide solido, con un’orbita propria e definita. Insomma, qualcosa di ben diverso dalla biosfera da scrivania di qualche anno fa, quando magari se ne vedeva di più sugli scaffali delle librerie, ma era ugualmente confinata a una nicchia ristrettissima di appassionati. Il suo problema - come quello della fantascienza in generale - è il mercato, e ancora di più il fatto che non esista un ricambio generazionale dei lettori: i giovani non leggono SciFi, preferiscono altro, o per lo meno scelgono di assumerla con altri mezzi (cinema, videogiochi, spot tv, giochi di ruolo, Rete). Quanto alla fantascienza italiana, oggi qualcosa sta cambiando. È un po’ meno chiusa, autoreferenziale e rosa dai complessi d’inferiorità di un tempo; nonostante l’italiano sia periferia linguistica, si sta aprendo un po’ di più al mondo, complice un mercato più globale anche nell’interscambio di fiction.
E i sottogeneri? Come possiamo classificarli?
La fantascienza è un mare magnum. Un ecosistema così ricco non esiste in nessun altro genere letterario. Dobbiamo continuare a coniare etichette e definizioni perché la complessità di spunti/prospettive è tale che ogni termine finisce per essere inadeguato e andarci stretto. In Italia c’è stata una lunga stagione di fantascienza ucronica, a cui ne è seguita una un po’ più breve legata al noir e al poliziesco, ora emerge a macchia di leopardo lo steampunk e la space opera. Non mi piace però parlare di etichette. Vado orgoglioso di non riconoscermi in nessuna, di essere un apolide dei generi. Le etichette sono molto più funzionali per chi legge che per chi scrive. E quindi lascio volentieri ai lettori la scelta di dove incasellarmi. Per parte mia, ho scelto la strada della contaminazione e dell’ibridazione tra generi attigui. Le creature a due teste. Per non farmi tirare per la coda.
Dai l’impressione di avere sempre qualcosa che bolle in pentola. Che cosa hai architettato per il futuro?
Sì, materiale in pentola bolle sempre, e in questo caso è qualcosa di cui vado molto orgoglioso. Chi mi segue abitualmente sui social credo che sappia già a cosa mi riferisco: è il nuovo capitolo della saga di Mondo9, un romanzo vero e proprio che riprende alcuni personaggi delle "Cronache". Ma permettimi di non dare ancora i dettagli, spero di poterlo fare presto... Quindi, stay tuned.
http://www.dariotonani.it/
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