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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Lorenzo Carbone

Canzone del vento che viene dal mare

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Povero, povero, povero, non riuscire nemmeno a sentire il profumo del vento che viene dal mare...

            Avevamo dato fondo al boccione, buttato giù l'ultimo campari affogato nel gin, detto buonanotte alle stelle coperte dal nero di nubi limacciose, minacciose, teso il viso alla voce potente del mare, al vento muschiato, salato, che bagnava la notte desolata di una spiaggia di fine stagione, settembre di nord-est, nuova ovattata quiete a sostituire l'irrispettoso frastuono turistico annaffiato di birra e kartoffen. Barcollava; e sì che ero stato (abbastanza) attento a dirgli bada a non mangiarci troppo su, con 'sta roba, ti rimescola tutte le budella... Niente da fare: non mi sentiva. Rideva, lui, e scolava, scolava un campari dietro l'altro, il vinorosso, il gin... Mischiava. Non c'era abituato a bere, il tutore dell'ordine, il valente, il baldanzoso difensore dei patrii monopòli, il novello finanziere, indomito inquisitor di quindicenni spinelloni... Non glielo dicevo per scherzo!

            Lei, come nei film, lo aspettava in tenda coi suoi occhi belli, socchiusi, freddi, truccati. Era nuda, sotto un vestito di (simil)seta leggero. Proprio come nei film. Come no? Lui non era in grado. Troppo vino. E birra, gin, campari, ecc, ecc, hic. Tremenda cilecca, e s'era lasciato andare senza nemmeno una scusa, che ne so, un “sono stanco”, sdraiato di schiena a fissare la sommità della tenda, quei due laccetti che pendono, lassù, che chi lo sa a che cazzo mai serviranno... Aveva già perso l'uso della parola quando era dovuto scappare, schizzar via, il pepe al culo, aiutomamma, un lamento gutturale giusto in tempo per rafficar fuori in piena rena un pollock acido di pane, salsicce, campari, insalata, prosciutto, vinorosso (soprattutto vinorosso). Lei l'aveva seguito. Per un attimo era restata lì, all'impiedi senza verecondia alcuna a fissarmi negli occhi coi suoi, duri, scuri, felini, come se fossi veramente stato io il responsabile della sbornia malefica di quel gran coglione. La luce danzante delle candele ancora accese qua e là conferiva allo straccetto che portava indosso, che il vento modellava malizioso sulle forme, trasparenze tutte particolari. Ne vedevo più di quante meritassi: strabuzzai gli occhi e l'uccello mi fece cucù. La verità è che mi arrapava di brutto quel suo fare sminchionato, quelle labbra arricciate, quei capezzoli sempre ben in vista sotto le maglie leggere – mica si sprecava a portarlo il reggiseno, lei – e il pensiero, neanche troppo latente, fin dal primo momento era stato: come cazzo posso farmela? Come posso metterlo k.o. questo bischero qui, che manco si rende conto del pezzo da novanta che si porta a spasso e perde tempo a bere, lo scemo, a sbrodolarsi, a chiacchierare, a smanettarsi, a vomitare? Sentivo proprio di piacerle, sotto quella velata ostilità.

            Macché. Era corsa a reggergli la testa, a consolarlo, lì, col culo nudo al vento... Un cazzo, gliene fregava! Quello scemo aveva tutte le fortune. Povero, povero, povero, gli sussurrava. Non riuscire a sentire nemmeno il profumo del vento che viene dal mare...

            Era andata così: non ci avevo niente da fare, perché il ristorantaccio coleroso  dove avevo lavato i piatti per tutta l'estate m'aveva detto è finita la stagione, ciaociao bello, i piatti se li lava un bangladino e tu, cortesemente e con l'inchino, te ne vai affanculo, arrivederci e grazie, aufiderzèn, e la ragazza dell'epoca pure. Non ricordo più bene se gliel'avessi fatto io, ciaociao,  dopo l'ennesimo scazzo o lei, arcistufa della mia inconcludenza. “Inconcludenza”, poi... “Devi laurearti”, frignava, “devi diventare dottore, ingegnere, avvocato, monsignore... O non potrò mai presentarti a mio padre!”... “Chi cazzo vuol conoscerlo, infine?”, pensavo... fermo restando che con l'affitto da pagare, lavorando alla cazzodicane qua e là e spendendo tutto il restante di ciò che pomposamente chiamavo stipendio in birravinoerockenròll (era un periodo un po' agitato, ruggivo nel delirio d'onnipotenza dei vent'anni), più che dottore avvocato monsignore mi sarebbe andato bene pure essere un bravo camerierino o un garzoncello di bottega (cosa che sarei diventato di lì a poco). Insomma: avevo ventidue anni e nessunissima idea di che cazzo mettermi a fare. M'ero lasciato un po' andare, con la fine dell'estate, e avevo pensato bene di mettermi a bere forte per meglio rifletterci su. Mi sentivo ancora bene: un geniaccio sregolato, uno a posto, un fico... Salvo precipitare sempre più spesso in un umoraccio debole e paranoico, malmostoso, che lasciava presagire fin troppo bene quanto tutto stesse lentamente andando a puttane. Sicché  quando lui mi aveva chiamato, vieni qui a festeggiare, che cosa, ma un po' di tutto, la stabilità, di chi, la mia, lo sai che mi hanno preso nel glorrrrrioso corrrrrpo della guarrrrrdiadifinanza, eppoi l'italia che ha vinto i mondiali, mi fanno cagare i mondiali, beh il sole allora, il mare, l'estate  è finita, vabbè, sali o no, ti voglio far conoscere la mia nuova ragazza, stavolta è quella giusta, mica come quella stronza, teloggiuro, mela sposo, si vabbè, vabbè, come no, avevo accettato, praticamente: comprato un biglietto, raccattato quattro spicci, detto perchennò?, pure se 'ste rimpatriate a dirla tutta non mi facevano impazzire neanche allora... Ce l'avevo chiara la sensazione che non andare sarebbe stato meglio... Quel pizzicore sotto le palle d'ogni volta che m'imbarcavo in qualche impresa malcagata...

            E non a torto. Quei due avevano l'aria di aver scazzato da poco, lì alla stazione, sul binario, lui con lo sguardo ebete di un cagnone scodinzolone fiducioso che tutto si sistemi da sé, ansioso di prendere a pacche sulle spalle il vecchio amicone, lei nervosa, col broncetto – salcazzo quanto gliel'avrei mozzicato, quel broncetto – gli occhi sospettosi di chi vede arrivare un grandissimo cacacazzi, un grappolo d'emorroidi, un guastafeste, occhi di chi ha appena mandato giù un rospo così, la mano fredda, la stretta floscia, la erre moscia, la nuda coscia... e poscia, con voce gelata  mi sibilò un “piacere”. Piacere un corno, dopo tutti quei chilometri... Ero per la pace, io. Non mi piaceva troppo, quell'accoglienza lì: salcazzo quanto avrebbero litigato, poi. Voglio dire, la regola bisogna avercela chiara, quando competi con tipetti del genere: si mischia mai passera e amici. Potrebbero non tollerarsi, o peggio ancora tollerarsi fin troppo e ficcarsi lingue in bocca e diti al culo alle tue spalle, potrebbero farti le corna, prenderti pel povero fesso che sei! Scenari apocalittici, insomma: ma io sono paranoico... Vabbè.  Camminava sculettando di disappunto avanti a noi. Chiaramente le guardavo il culo, mentre lui mi strattonava maschiamente per esprimere contentezza e mi mostrava la macchina, la sua bella macchina nuova che ci avrebbe portati alla sua bella casa nuova, col suo bel pratino, il suo bel camino, il suo bel giardino e il cagnolino, perfino,  in un bucodiculo di questi: Minchiate, Cagate, Sfigate Brianza... Padania Ulterior, insomma, giù di lì, ché lavorava all'aeroporto di Milano. “Tutta vita”, diceva, “passo il tempo a grattarmi la panza, le palle, a magnare alla mensa, il fantacalcio coi colleghi, tutti insieme a guardare la partita, la domenica”... Il lavoro della vita sua! Grazie al cazzo... Anzi, no: grazie al babbo, il pezzo grosso, il mammasantissima, il taglia-e-cuci del ministero, il tutto-d'un-pezzo dall'espressione corrucciata quantunque ragionevole, il liberaldemocratico... Si sapeva da subito, lui, che ci avrebbe avuto il futuro lindo e pinto, tutto pronto e tranquillo, fin dai tempi della scuola... Vuoi studiare? No. Vuoi lavorare? No. Che cazzo vuoi fare? Vuoi ballare? Ti vuoi drogare? E balla, scemo... Drogati pure... Quel par di annetti, non di più. Poi ti ripulisci, ché c'è l'ufficio già pronto per te, una bella divisa stirata... Così era Stato. Me lo ricordavo in manca col viso grigio sudato e gli occhi infossati. Psicato nei cessi fetidi di una discoteca che prende a calci il muro per un'anfetamina – o Cristo sa cosa – salita male. In lacrime di paranoia e paura che vede passare, sotto acido peso, il fantasma della nonna stramorta pel corridoio di casa. Rotolarsi nel vomito, nel piscio che s'è fatto addosso, nella merda sciolta straripata dal culo, singhiozzando... stesso acido, stessa bella serata. Guidare sulla tangenziale in corsa contro l'imminente effetto di un francobollo malefico, che suda e dice di cominciare a vedere il mare, con me accanto terrorizzato... Non mi facevo di quella roba, io. Mai piaciuta. Smesso presto col fumo. Un po' troppo attaccato alla bottiglia, ma non si può pretender troppo. Il fulminato, il fuori di testa, il problemato era lui. La cattiva compagnia. Quello che sarebbe finito male, mentre ci passavamo un cannone e parlavamo di cos'avremmo fatto da grandi... Era lui quello che sognava di girare il mondo, di farsi crescere la barba e partire per l'India.... Io ce l'avevo chiaro, invece, che fare: laurearmi e mettermi a scrivere. Ed eccolo lì, dopo qualche anno a dimostrarmi che il cazzone ero io. Eccolo con la barba fatta e i denti sbiancati, maniche di camicia arrotolate quel tanto che basta a coprire i tatuaggi, a godersi le ferie con un gran pezzo di fica accanto, a mostrar la casetta al vecchio compagnone un po' sfigato, male in arnese, coi denti rotti e i culi di mosca in tasca. Non ero invidioso (se non di quel concentrato di sorca). Sembrava felice. Pacificato. Goduto della sua nuova dimensione... Però, signori, però... quella dimensione lì non la potevo soffrire. Giravamo per la casa, mutuo acceso, tasso conveniente, televisore e divano e playstation, neanche un-libro-uno, e pensavo “non ce la faccio, non sono invidioso, sono proprio felice per lui ma non ce la faccio sul serio, qui, mi sento male”... Non sto dicendo che fosse per forza sbagliato. Era premuroso, perfino. Il passaggio fino a casa, una bottiglia di roba costosa di benvenuto. Lo sapeva che non m'era passata, ch'ero ancora un ubriacone. Magari erano proprio le premure, ad arricciolarmi i capelli in testa. O forse, no: qualcosa di malsano, di ansiogeno. Come spiegarlo? Soggiorno, tavolino basso, vetro costoso che fa paura poggiarci il bicchiere. Padrone di casa che mesce il rosso, roba di classe. Nettare. Lei che lo gusta con gli occhi socchiusi, un sorrisone, la voce artefatta da bambina che zufola: “è buono-buono!” Sguardi profondi. Intensi. Innamorati. Cazzo ci facevo, lì, a portare la candela? Così avevamo cambiato programma, rimediato un paio di tende e girato il muso di quella macchina nuova verso il paese di lei. Verso il mare.

            Mare scuro, già più da farci il bagno dentro. Che fare allora, se non rimettersi a bere? Quelli lì, gli autoctoni, a lui c'erano bene o male abituati: er romanaccio de Roma che si becca la meglio passera della zona (e probabilmente dell'intera provincia), ma io, tutto secco, giallo in faccia e spettinato, col respiro affannoso di centomila sigarette e lo sguardo sfuggente, ci facevo mica una bella figura, lì... il cambiamento d'aria mi danneggiava la stabilità, le paranoie che mi tenevano bello chiuso da un sacco di tempo, ormai, nel mio letamaio, tornavano a martellarmi in zucca più virulente che mai: mancava poco che mi mettessi a scattare, a parlare da solo, a recitare le mie formulette compulsive... Le vedevo, le occhiate che mi tirava la gente. Così avevo colto al volo l'occasione per infilarci tutti nel primo bar a festeggiare questo e quello. L'alcool mi scioglieva la lingua e le spalle, addrizzava la schiena e acuiva la vista. Le paranoie tornavano a nanna, giù nella fogna. Diventavo più simpatico. Socialmente accettabile. Socievole no, ma era già qualcosa. Con loro ci parlavo, però. Con lui, per meglio dire. Succhiava il suo spritz, lei, scoglionatissima, guardando per aria. Ancora una volta: cazzo facevo, lì? Cazzo voleva, costui? Cazzo mi aveva chiamato? Per mostrare cosa? Non gli bastava il suo angoletto di mondo tranquillo? Avrei pagato oro, io, per voltar pagina, costruirmi tutto daccapo, mentre quel minchione sembrava estasiato che il mio fiato nero venisse a impuzzonirgli l'habitat. Peggio per me, che avevo accettato! Ero imbarazzato. Una situazione stupida. Il peso lo sentivo sempre meno, col tintinnare dei bicchieri... Tutti quegli spritz. Manco mi piacevano troppo, sebbene la lingua me l'avessero sciolta di brutto... Pareva quasi tornato tutto come prima, per la gioia del nostro tiratissimo e l'ambascia della sua dolce metà, che cercava con gli occhi una via di fuga da quel gran rompimento di palle e mancava poco s'andasse a impiccare nel cesso: hai voglia a blaterar di questo e quello, viaggi e progetti, sarò e dirò, tanto ho fatto e così farò... Pareva vero. Cosa ci trovassi non lo so, nello sbrodolarmi tanto, ma le parole andavano da sole: già sapevo che me ne sarei pentito, che mi sarei vergognato come un ladro, passata la sbornia... Ne avessi realizzata una, delle balle che contavo. Malsano, alla ricerca perenne di qualcosa che finiva sempre in fondo a una bottiglia: il problema ero io. Non avevo un bel niente da dire e andavo in giro a cercar grane per avercelo. Per qualcosa da dire, si. Qualcosa da scrivere. E qualcosa da bere per uscire dal bozzolo. Bere, poi, faceva fico. Alzammo l'ultimo calice del pomeriggio in onore dei vecchi tempi, raccontando di tizio e caio, tutti bene a casa, tutto normale, cambia un cazzo, da noi. Sembravamo tutti più rilassati. Lei di sicuro, per essere uscita da quel troiaio di bar. Arraffammo boccioni e provviste al supermarket all'angolo per una cena da campo, sul mare.

            Si spogliarono e si buttarono. Un due tre, giù le braghe e via, coi pedalini e tutto, a dispetto del freddo... E ne faceva, fidatevi. Perfino le mutande alla moda ci aveva, quello lì! Se la godeva, la vita, mentre io sventolavo un focherello misero con un pezzo di cartone incrostato di sale, tutto goffo, tutto stronzo, impalato come un baccalà, inetto come un cazzo sbucciato, col bicchiere di plastica in mano... e me lo sarei suonato in testa, il bicchiere, fosse stato di vetro. Sulla testa di cazzo... Spettacolo, erano, quei due. Non ci avevano affatto bisogno di tutto questo! Di 'sta stronzata di  brace, del campari, del povero testa di legno che ero... Bracciate vigorose nell'acqua fredda, lui. Lei tettine al vento, leggera, senza vergogna, come se non ci fossi, lì, a guardarli danzare stagliati su un tramonto infuocato privato... Beh, vaffanculo: ci sono un sacco di modi per far sentir qualcuno un gran pezzo di merda fumante. Eccone uno. Sapevo che quell'immagine mi avrebbe tormentato un bel po', di lì in avanti, e finalmente mi balenò chiara in testa la fiaccola della verità: erano due esibizionisti, quelle facce da culo! Al cento per cento! Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di tutto 'sto teatrino, di mettermi in mezzo e distruggermi l'amor proprio... A me, che ero già bello instabile per conto mio! Ora comprendevo: di lì a poco mi avrebbero chiesto di guardarli scopare, con ogni probabilità... Di ficcare un dito in culo a lui mentre lei glielo ciucciava! Per forza! Quei due dovevano essere talmente annoiati l'uno dell'altra, talmente perfettini e tirati a lucido da aver bisogno di un povero pirla che si sparasse un pippone guardandoli sgroppare, che li facesse sentire superiori... Beh, si sbagliavano. Me ne versai uno grosso, stavolta solo gin, e mi ripromisi di salire sul primo treno utile il prima possibile, prima di subito, prima dell'alba. Aspettai trincando pesante che si togliessero di dosso i (pochi) panni bagnati e che tornassero lindi e pinti, asciutti e cambiati alla base, tremanti e sorridenti per sfoderare il mio ghigno più falso e servire la cena. Tutto era chiaro.  Buonappetito, merde.

            Sarò ripetitivo, ma sentivo ancora di piacerle. Non solo per la porcata che ero convinto avessero in mente, ma perché dicevo un sacco di cose piene di buonsenso (almeno secondo me), eppòi mangiavo composto e conoscevo l'uso del tovagliolo, mentre quella bestia lì ruttava & sbavava & ciancicava... tutto sporco, tutto sbronzo, un rivolo d'olio che colava dalla boccaccia spalancata dalle risa sguaiate, tutta piena di salsiccia masticata & poltiglia d'insalata... La patina da granduomo, quel cerone del cazzo s'era bello che sciolto, con qualche bicchierazzo di troppo. Se lo meritava, il duro, il puro, il ficaccione! Io, da parte mia, ci avevo fatto un po' il callo a quella situazione. Il gozzovigliare, intendo. Ci avevo una certa resistenza, non per vantarmi... Gliel'avrei fatta vedere, a quel bamboccio lì, a quel pervertito... Andare a pescare dal mazzo il più povero scemo di tutti, quei due... Ma vaffanculo. La sbornia cattiva, ci avevo. Oh, si, ma se la meritavano! Per chi mi avevano preso? Per un guardone! Un bavoso del cazzo, ma... E se non fosse così, mi ripetevo... Se non fosse vero e mi stessi pipponando tutto in testa? se le loro intenzioni fossero buone? Se mi avessero solo sentito giù per telefono e stessero cercando di fare qualcosa per me? Se fossi solo invidioso? Naaah, impossibile. Doveva esserci qualcosa sotto. Cazzo ero salito a fare, sennò? Non ci si comporta così. Ma terribile è l'ira del mansueto, cazzo. Gliel'avrei fatta vedere a quello lì. Gliel'avrei giocato bello, lo scherzetto. Pure a lei, poi, gliel'avrei fatto vedere. E sentire. Altroché. Conoscevo i miei polli. Mi misi a raccontare una storiella divertente per blandirlo, per blandirli entrambi, e versai da bere. Forte, come se versassi a me. Scommetto cinque  soldi che non ce la fai a buttarlo giù d'un sorso come ai vecchi tempi, dissi. Persi, ovviamente, ma aveva già gli occhi umidi e la voce incrinata. Sorrisi coi dentacci storti e versai un altro giro.

            Infine ero lì, seduto per terra come un babbeo, a rimirare il profilo delle sue chiappe belle esaltato dall'argento della luna, chiappe nude e setose, il trionfo impudico accarezzato dal vento. A nulla era valsa la voce del senso di colpa, sempre troppo tardivo, che m'aveva spinto a supplicarlo di fermarsi, quel coglione, di darsi una calmata, di badare a sé... la vecchia bestia senza misura, il tossicaccio era tornato a galla! Colpa mia! Ed era questo, che ero? Un paranoico, un matto? Un catalizzatore di scarogna? Un ubriacone inveterato, un contagioso masticammerda, in fin de' conti? La cattiva compagnia? Re Merda, che in sterco trasforma ogni cosa toccata? Ma che ne so... C'era solo quel poco che vedevo nel buio denso, lì... suggestione innaturale di candele abbaglianti il mio umido sguardo alcolizzato, tremulo come fiammella contro il silenzio scuro di quella scena statuaria... tutto era immobile. Quell'improbabile, pietosa postmoderna Pietà... Povero, povero, povero... Non riuscire nemmeno a sentire il profumo del vento che viene dal mare... Tanto me la sarei filata alla chetichella con le prime luci dell'alba. Me l'avevano bell'e rotto, il cazzo, quei due, qualunque fosse stata l'intenzione. Trovai quattro sorsi di scolatura in un bottiglione e li tracannai. Girai i tacchi e dissi buonanotte. “Sei una merda”, sentii sibilare alle mie spalle. La sua prima e ultima parola per me. Accesi una sigaretta, consapevole che non mi sarei mai e poi mai addormentato e m'infilai nella mia tenda solitaria. Nessuno, lì, nessuna bella ragazza ad aspettarmi ignuda. I sassi sotto la schiena, soltanto. Un letto di spine, ortiche per pulirsi il culo. Rischiai di andare a fuoco per poter leggere a lume di candela e
            quando al mattino li sentii recuperare il tempo perduto
            mi sentii
            abbastanza
            male.





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