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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Cesare Moremo

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Vorrei cominciare raccontandoLe un fatterello mio. Ero all'estero, in una stupenda e misera città. Esco dalla pensione, e da un cassonetto in un vicolo vedo spuntare due piedi. Li piglio per le caviglie, e tiro su: ne sbuca un ragazzino, che mi fissa come a dire: "Che cazzo vuoi?" Gli avevo interrotto il petit déjeuner. Per farmi perdonare, lo porto a un chiosco lì vicino. Si spara una colazione da ammazzarci un re, manda un rutto come una motoguzzi, e se ne va. Poi torna indietro, mi conduce in un vicolo, si abbassa i pantaloni, e mi fa un gesto indicandomi il suo arnese, come a dire "sèrviti". Mi pagava il cibo, troppo orgoglioso per passare da pezzente. Dolente declinài, non foss'altro che per l'igiene. Morale: sospetto che di questi pischelli non abbiamo capito una mazza. Nel caso, cosa c'è da capire?



Siamo sempre noi a non capire. Un atto gratuito è spiazzante, è filosoficamente scorretto: il ragazzino ha una visione del mondo ben ordinata secondo la quale se un uomo gli da mangiare lo fa per ottenere qualcosa in cambio. Nel suo mondo di disperazione questa rappresenta una certezza che gli consente di adagiarsi nella "sua" disperazione, e uscire da questo mondo è ancora più angosciante. Pagare il prezzo rimette le cose a posto. Nel nostro lavoro incontriamo sistematicamente questa sindrome: è meglio pagare subito il prezzo – anche ingiusto- che lasciare aperte le partite, sentirsi in debito verso il mondo: la prima cosa che può capitare a chi si mette ad aprire lucchetti di celle è quella di essere aggrediti da chi ci ritiene responsabile delle angosce che la libertà porta con sé. Altra cosa ancora è: perché usare il sesso come moneta di pagamento? Certo, il bambino avrà già avuto esperienze o richieste in merito. Ma c'è una questione più generale: il sesso tra le tante cose è anche una straordinaria risorsa comunicativa, ma l'intrusione e la penetrazione – la compenetrazione – tra le anime può essere più lacerante della penetrazione fisica. A volte maschi e femmine abusano del proprio ed altrui corpo per abrogare la comunicazione tra le anime: anticipano i tempi della fisicità per esorcizzare ogni rischio emotivo. L'offerta di sesso è quindi della stessa specie del pagamento: ti offro qualcosa a patto che tu lasci in pace la mia anima.



Nel Suo lavoro c'è una precisa strategia: si parte dall'interiorità del ragazzo, dalle sue ansie e paure (Lei vive in un paese di morti ammazzati). Il maestro le assume per empatia e per simpatia, e dopo la condivisione le rende comunicabili - un processo in cui "si dice l'indicibile". Questo permette di ricondurle alle angosce della comunità, che può riconoscerle e imparare a trattarle, se non a fugarle. E si ritorna al ragazzo, che in quella comunità vive, chiudendo il cerchio. Mi pare che tale modo di procedere, se non l'ho frainteso, sia lo stesso della letteratura. Vorrei sapere se lo crede anche lei, e se anzi la coincidenza non sia casuale.





La capacità di rendere comunicabili le emozioni, trasformare il dolore in emozioni esprimibili è l'operazione creativa che dobbiamo fare. Purtroppo un insegnante di lettere forse è stato costruito in modo che le sue capacità di creazione letteraria siano sterilizzate per sempre. La coincidenza forse non è casuale. Penso proprio di no, anche se io l'ho scoperta proprio attraverso i ragazzi non avendo fatto studi in merito. Un giorno lessi, perché le circostante lo richiedevano, "la quiete dopo la tempesta" a dei bambini di quarta elementare della mia dimenticata periferia. Alla fine tutti mi chiedevano se questo giovane era ancora vivo e dove stava ("giovane" per i nostri bambini equivale a "signore") e pensavano che era sfortunato se parlava in quel modo. Ci fu una tale identificazione che lo sentirono vivo e vicino a loro e quando seppero che era morto volevano sapere dov'era la tomba. Fu allora che mi chiesi quale differenza c'era tra i miei bambini e Leopardi, se le emozioni che provavano erano identiche. La differenza stava solo nelle sua capacità di nominare il dolore, di elaborarlo, di trasformare urla e pianti in canti. Anni dopo un altro bambino, sofferente per una madre fredda e distante, scrisse una epigrafe a proposito di un albero cresciuto su un cumulo di immondizia: "quest'albero sta male perché sta nell'immondizia; così è la vita, anche dei bambini nascono zoppi, ma quest'albero non si sente solo perché ha la compagnia di bambini sfortunati come lui." A me sembrò che questo bambino stesse esprimendo come un calco l'idea della "ginestra fiore del deserto", e che attraverso l'albero il bambino avesse trovato il modo di esprimere il suo dolore. Da allora ho sistematicamente lavorato a trovare nella realtà e ritrovare nella letteratura le immagini che potessero aiutare i ragazzi a riconoscere le proprie angosce e questo resta il contributo più importante che una scuola non ingessata nelle tecniche possa dare all'educazione, alla capacità di ciascuno di tirarsi fuori dallo stato di cose esistente.



Trovo azzeccata questa frase di Roland Barthes: "il senso è tale in quanto prodotto sensualmente" (da Il piacere del testo). Lei ricorda in un Suo scritto che i ragazzini hanno una sensualità che, in antico, si esprimeva con chiarezza, e che l'ambiente sapeva discriminare - anche nel caso di rapporti con adulti - dalla violenza (sapeva cioè "leggere" il bambino nella sua interezza e non solo per verba). Di nuovo un legame tra emozione e conoscenza, tra affetto e "trattamento" dell'affetto, tra individuo e società - e una dimostrazione di coerenza: in tempi di isteria, si ragiona. Le chiedo allora se la perdita di sapere e l'attizzare un'emotività incontrollata non abbia anche un fine di manipolazione e controllo sociali - se cioè non abbia anche un senso politico.





L'ipotesi che attizzare una emotività incontrollata sia finalizzata a controllo e manipolazione politica mi pare decisamente ottimistica, in quanto ipotizza una mente pensante che utilizzi cinicamente questo strumento. La mia idea è che sia esattamente il contrario, e cioè che politici ed uomini di potere siano del tutto manipolati da emozioni incontrollate. I politici da un certo punto di vista rappresentano l'incarnazione di emozioni primitive ed in certo senso sono i membri più malati di una società malata, quelli che meglio assumono su di sé le caratteristiche peggiori delle folle che li applaudono. Da questo punto di vista il fenomeno dei pazzi al potere mi pare che sia ormai sistematico e che l'unica cosa che ci mette al riparo dalla paranoia di uno è che ci siano altri paranoici irriducibili con i quali non ci si può metter d'accordo. La caduta degli autoritarismi in assenza di questa democrazia delle follie, ha ovunque generato gli stessi mostri genocidi di sessanta anni fa. Purtroppo i pazzi riescono a trascinarci nel loro vortice paranoico quando riescono a mettere in scena la propria follia. Quello che vedo di più pericoloso In Italia e nel mondo è la debolezza della democrazia nel contrastare le rappresentazioni dei pazzi, quelli di casa propria e gli altri e il fatto che forse siamo già prigionieri di una rappresentazione paranoica che ha organizzato 'lo scontro di civiltà'.



Lei ricorda, in un Suo scritto, il caso del piccolo Antimo, che non sente il proprio dolore, e quindi è la negativa del maestro come Lei lo intende, e l'immagine di una società anestetizzata. E tutto ciò nasce da un problema di identità. Vorrei che ricordasse brevemente la storia del bambino, e sapere la sua opinione sulla personalità in generale (come nasce e si sviluppa), e su quelle "sintetiche" (nel doppio senso di non analitiche e di artefatte)in particolare.





Antimo era un bambino grasso, bulimico, affetto da ecolalia, che si metteva continuamente nei guai e veniva picchiato dai compagni: provocava senza neppure rendersene conto, sembrava sempre fuori della sua pelle al punto da non sentire o non esprimere dolore. Non ha mai versato una lacrima.Antimo riusciva abbastanza bene a scrivere e capiva moderatamente la matematica. Ma proprio nel fare i calcoli più elementari sembrava avere un blocco. Molti bambini di quella classe se dovevano fare cinque più tre contando le dita mai davano per contato che la mano avesse cinque dita e ricominciavano ogni volta da capo. Antimo non faceva eccezione, ma soprattutto, anche interrogato, mai diceva che la mano avesse cinque dita. In più di una occasione ho notato che aveva difficoltà a scegliere un oggetto, a decidere in una conta da dove dovesse cominciare. Ma la cosa più singolare è che sembrava avere una vera e propria idiosincrasia per il numero cinque. Dalla prima alla quinta elementare non sono riuscito a rimuovere questo blocco che si ripercuoteva sull'intero apprendimento dell'aritmetica. L'ultimo giorno di cinque anni di scuola fu un giorno di bilanci, ed Antimo scrisse insieme agli altri una valutazione del suo percorso parlando di sé. Si espresse più o meno in questo modo: Io mi chiamo Antimo, sono un po' chiatto, sono bello fuori e dentro sento le mazzate che non devo sentire. La mia famiglia è fatta da Mamma, Papà, Rosaria, Giuseppe e poi c'era mio fratello che si chiamava Antimo come me ed è morto in un pozzo in Germania. A me piace venire a scuola e scrivere e mi piace il nome "di mi", di Mi è cancellato; scrive "di" e cancella ancora; e poi scrive "il nome Antimo perché un altro non mi piace". Sotto quelle cancellature c'era il dramma della sua vita ed il segreto del numero cinque. Antimo aveva contato la prima volta elencando i membri della famiglia, ma quando arrivava al nome Antimo che corrispondeva al quinto dito, continuava a confondersi – lo stringeva tra le dita dell'altra mano e lo piegava avanti e indietro, quasi che rappresentasse l'oscillazione del suo pensiero - perché non sapeva se si trattava di lui o di suo fratello: era violato il principio di identità matematica: ogni numero è uguale a se stesso; ma anche violato il senso della sua identità, tant'è che sente 'dentro' quello che non deve sentire fuori, quasi che avesse un fuori che non gli appartiene: il nome. Personalità, identità, appartenenza ed altro, sono concetti che riguardano il mondo delle relazioni e delle emozioni. La relazione con sé stessi si sviluppa solo a partire dalla relazione con l'altro. Questo coinvolge la stessa possibilità di pensarsi, e la stessa possibilità di pensare. Pensare è impensabile senza un pensiero che pensi sé stessi, e pensare sé stessi è guardarsi da fuori e non si può fare se lo sguardo esterno non c'è. E' lo straniero che mi dice chi sono. Questa idea espressa per prima dai greci torna in molti contesti. La 'personalità' è la collezione dei miei modi di relazionarmi agli altri, ma è anche l'accumulo di comportamento che gli altri hanno avuto verso di me. Ogni emozione si apprende solo attraverso sé stessa e mai attraverso qualcos'altro, è perciò sempre necessario che ci sia l'altro che rimanda l'immagine di sé per poter apprende da sé e su di sé. Di cose così difficili ho parlato con i bambini a partire da un 'bambino scimmia' ritrovato nel 1987 e che, secondo quanto fu discusso, "fuori era un uomo ma dentro si sentiva scimmia", e vedeva gli uomini come un pericolo perché era stato "cresciuto dalle scimmie". E poi ancora : "un bambino è come lo tratti, se lo picchi diventa come un animale che capisce solo le mazzate, se lo tratti con gentilezza lui capisce le parole" . Insomma io non credo che noi scegliamo tra valori ed abiti preconfezionali dalle ideologie dominanti nel nostro ambiente, piuttosto apprendiamo i comportamenti base per accumulazione di esperienze. Il mestiere degli educatori che io cerco di praticare ed insegnare ad altri è quello di aiutare ciascuno a prendere coscienza di sé offrendosi come specchio non deformante.



E' possibile che i "napoletani", almeno quelli "dei quartieri e della periferia", siano come una di quelle etnìe africane o amazzoniche che rifiutano di farsi integrare - o, più astutamente, come i thailandesi o i giapponesi, prendano degli "occidentali" quel che serve loro, senza però rinunciare alle loro caratteristiche? In fin dei conti, il palio di Siena e le canzoni napoletane sono le due sole manifestazioni "tribali" autenticamente sentite, in cui cioè i praticanti si riconoscono e considerano "tutte loro".





Sono molto confuso. I rifiuti consapevoli e le strumentalizzazioni furbe mi sembrano quasi una cosa buona. Ho paura che siamo in una situazione molto più inquinata, che ci troviamo in un rivolo di liquame in cui si confondono rifiuti organici – il buon vecchio letame - con rifiuti ospedalieri infetti, con rifiuti tossici, con l'acqua limpida di qualche negletta sorgente. Oppure invece sta avvenendo una buona contaminazione culturale in cui i frammenti di storia, cultura ed arte che circolano nelle nostre città, che lastricano le strade e ricoprono i muri, si stanno fondendo in un nuovo prodotto che non è l'erede lineare delle culture precedenti, ma un ibrido talmente diverso dai progenitori da diventare una nuova specie. Cosa è che decide se in una canzone neomelodica sono chiamati a raccolta i cascami della società di sopra o sta nascendo un ibrido fecondo? Penso che il problema stia sempre nel rapporto che lega una espressine artistica alla storia di una comunità e se questa comunità c'è e se nell'arte si esprima una sua volontà di riscatto. Al momento mi pare che la tribù sia profondamente sfasciata, e che le stesse canzoni esprimano un dolore che si rinnova senza storia, oppure nenie ripetitive che replicano il reale senza trasfigurarlo. C'è veramente una chiusura, ma non so fino a che punto sia il rifiuto attivo di culture altre e fino a che punto sia invece incapacità di produrre una cultura di emancipazione.



Il Suo è pure un discorso sulle diversità e le differenze, sull'accettazione e sul rifiuto quindi. Vedo ancora un parallelo con i procedimenti letterari, non solo tematici ma tecnici: un Autore è uno "stile", cioè delle forme formanti - per dirla con Pareyson - che lo differenziano dai colleghi. Qual è il Suo punto di vista sulla questione della diversità e della sua "letterarietà"? C'è una "diversità" espressa da chi La circonda che La imbarazza o che francamente detesta?E la Sua "diversità", che guai Le ha fatto passare?



La cosa che mi disturba di più è l'accattonaggio, quella forma di esistenza rapace che trasforma tutto in tornaconto immediato, che è incapace di attesa e di gratuità. L'accattonaggio è ubiquitario, è nemico del bello, colpisce i ricchi ed i poveri. La differenza fonda il dialogo e la comunicazione, senza di questo c'è la non comunicazione: non comunicazione è l'identità sublime dell'estasi, ma è non comunicazione anche l'"infanzia", l'incapacità di dire e di elaborare un pensiero sulla propria esperienza, l'idiotismo di adulti che sono agiti da emozioni elementari. Nel lavoro che svolgo siamo alla ricerca continua di forme formanti ed è vero che continuamente cerchiamo di trasformare i nostri corpi tra loro collegati in una sorta di matrice in grado di stampare per pressofusione i nostri giovani allievi. Il fatto è che siamo pieni di buchi e che i nostri giovani sono metallo liquido che sfugge da ogni parte. La letteratura e la poesia dovrebbero essere lì apposta per consentire di esprimere l'unicità attraverso forme universali ed incommensurabili (il movimento opposto della scienza che riconduce l'infinita varietà dell'essere a forme unificanti, a formati tascabili) ma questa è operazione creativa, e le lingue serve sono sterili, incapaci di esprimere il diverso, possono solo veicolare lo stereotipo e replicare il banale. La mia diversità è un monumento al guaio. Sono e mi sento talmente diverso che non sento neppure la diversità. Sono nero ma sembro bianco a tutti gli effetti, sono ebreo ma non trovo tracce di circoncisione, sono povero ma sembro ricco, sono ricchissimo ma sembro povero. Sembro un camaleonte perfettamente mimetizzato con una foglia, ma capita sempre che un colpo di vento spazzi le foglie morte, e mi ritrovo scoperto ed impossibilitato a trovare un colore con cui mimetizzarmi. A essere vivi è un guaio; a essere in buona salute pure; a godere di quello che si fa ancora peggio. E sempre di più cerco di essere tutto questo a dispetto, alla faccia di chi è morto, si sente malato, è triste. Fino a quando? Gli anni passano e la salute si deteriora. Riuscirò ancora a essere dispettoso? (FINE PRIMA PARTE)





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