ATTUALITA'
Marco Lanzòl
Comme le temps passe. Riflessioni su vita, processo e morte d'un fascista francese. (1)
Sono stato molto combattuto se scrivere questa nota, su un testo che ho letto nel giro di poche ore, tant'è avvincente malgrado sia un saggio ben documentato, ben approfondito, e non un "polar" o un "noir". Potevo dedicarmi a tutt'altro libro. Ce ne sono tanti, grandi e di gran fama, che impegnano il Commentatore (o la sua "statua gentilissima" (quasi)) sì da trascinarlo e divertirlo, da impegnarne l'alto ingegno e l'alto lignaggio, da farlo uscire comunque bene dal corpo a corpo col corpus delle parole prescelte.
Invece ho voluto parlare di questo, perché pone un quesito fondamentale al tale che decida di mettere nero su bianco sensazioni, idee, proponimenti, pensieri: un interrogativo che è basilare per chi intraprenda il mestiere di scrivere, e faccia professione d'"intellighentia" - chi (intendi bene, Mio Caro) voglia impicciarsene con un minimo di... come la chiamiamo? Onestà intellettuale, coscienza, amor del vero, verità come prassi rivoluzionaria?
Comunque la chiamiate (chi-amiate), benvenuti nel resoconto del processo a uno scrittore e polemista di destra, che alla domanda alla quale mi riferisco (e a un'altra che si vedrà) dove' dare la più cruda delle risposte: la morte.
Nato nel 1909, da un ufficiale dell'Armée caduto in Marocco e una madre che risposò un benestante, Robert perciò ebbe verso di frequentare il più alto studio di Francia: quella Scuola Normale Superiore che ha laureato presidenti, ministri, grand-commis, letterati, filosofi, d'indiscusso valore. Giovane, collabora con quotati giornali e riviste della destra francese, e si fa notare per l'intelletto di recensore, il piglio combattivo e la verve nazionalista - e per un antisemitismo "moderato", ammesso che l'odio razziale sia sottoposto a graduazioni. Nel frattempo, pubblica dei romanzi, in cui stempera le sue visioni destrimani con un sentimentalismo di cattiva lega - è cosa che spesso succede ai nazifascisti: hanno la lagrima facile. E stampa, suo parallelo interesse (è critico cinematografico, tra l'altro), una Storia del cinema che forse è la prima a venir realizzata, ed è opera di valore ed acume.
Sono più o meno gli anni del governo frontista di Leòn Blum, quindi della guerra di Spagna, che in Francia (e non solo) esacerba gli animi. Lui è schierato sulla sua barricata destrorsa e anticomunista, e ha a che fare persino con un tentativo di putsch portato alla Terza Repubblica da gruppi parafascisti quali i "Camelots du Roi". Al tempo, esalta la Germania, con accenti fra il patetico e l'elogio del virile cameratismo - l'impressionano, fra l'altro, i film della Riefensthal. Dopodiché, il patatrac: la "strana guerra", che lo vede ufficiale al fronte, indi la "débacle", con l'Esagono spartito fra i tedeschi, e - nominalmente - il governo petainista-lavalliano di Vichy. Ma non ci si dimentica di lui: liberato dal sesto "oflag" (campo di prigionia per ufficiali), va a scrivere sul quotidiano filonazista Je suis partout. Chi ha visto L'ultimo metrò di Truffaut, può figurarsi che il personaggio di Daxiat, feroce antisemita e onnipotente critico teatrale, venga probabilmente modellato sullo scrittore e sul suo sodale Déat. Sul suo fogliaccio, Brasillach parla e straparla: della nobiltà della causa nazista, d'un curioso nazionalismo francese che dovrebbe esaltarsi nell'abbraccio col Reich, e soprattutto (nella rubrica "partout et ailleurs") dei traditori e terroristi. Chi sono? Ricordarlo duole: chi nell'amministrazione si sottrae alla melma del collaborazionismo, chi combatte per liberare la nazione dall'invasore, e gli ebrei, che Brasillach considerava non più che topi o scimmie - spietato e incurante della loro sorte (quale che fosse, visto che li descriveva come animali nocivi), arriva a scrivere "è necessario separarsi dagli ebrei en bloc, compresi i bambini". Detto e fatto: per l'alacre opra dei tedeschi, dei loro servi e dei paurosi, 10.700 bambini e adolescenti francesi di religione ebraica finirono nei lager. (p. 154) Da uno scrittore ci si sarebbe aspettato, pure nella demenza, almeno qualche ricordo dantesco - che so, l'ultimo dell'Inferno, dove si dice dei figli d' Ugolino che "innocenti facea l'età novella". No, nulla: la sua penna non ha un'esitazione. Sciagurato, cieco, lui che il sapere e il talento potevano salvare, non per ipocrisia ma per consapevolezza. Sciagurato, chi di queste follie si ammanta ancora adesso, chi di lui fa un eroe, un martire, chi si fa cieco malgrado ogni cosa sia sotto i nostri occhi.
Infine, i gollisti di Leclerc e gli Alleati giungono a Parigi. E può concretizzarsi il "vituperio delle genti": Brasillach viene preso, incarcerato, giudicato e giustiziato prima ancora che la guerra termini. Molti erano forse più colpevoli di lui - gli intrallazzatori, le spie, i manutengoli, i mercanti, gli ambiziosi, gli imbecilli: e questo fece muovere belle intelligenze (Mauriac, Paulhan, addirittura Camus - contrario ai traditori, ma più al giudizio capitale) a suo favore, e fa dire oggi alla Kaplan che il verdetto della pena di esemplarità fu "esagerato e ingiusto". (p. 251) Ma ecco la domanda: quando le parole - siano pure quelle del poeta, dello scrittore, del filosofo (Gentile!) - diventano atti, e dunque passano dall'opinione alla colpa (ove la si rintracci in esse)? Forse questo libro (ne) risponde: le parole restano parole, finché un regime non ne fa leggi, libri di testo, catechismi. Dopo, non è più responsabilità: è colpa. Più: è dolo.
E ancor più: il libro della Kaplan svela, nelle pagine sul processo, una più resiliente distorsione, un diverso e più radicale e radicato (pre)giudizio: non fu il delirio antisemita che decise della condanna dell'uomo e dello scrittore, bensì un altro, più infamante (per la temperie e gli odierni ottenebrati) delitto, che s'unisce e rinforza e moltiplica e approfondisce quello dell'aver tradito: il pubblico ministero l'illustra, v'insiste, lo corrobora con citazioni. Brasillach non è solo "il chierico che ha tradito": (p. 183) è colui che ha dichiarato una forte emotività per il biondo, maschio invasore - implacabile, l'accusa lo esplicita con "una frase tagliente: "Questo sentimento che non osa dichiarare il suo nome è l'amore!". (p. 184) Chi non sa che queste parole furono i chiodi che confissero Wilde alla pena? L'accusato vien fatto figurare come l'ultimo dei venduti, affine alle donne "collaborazioniste orizzontali", (p. 146) rase dalle loro chiome (la tonte si dice questa procedura, che ci richiama il gergale tante, "zia", valevole "omosessuale effeminato") per essersi giaciute con i nazi. Reato orribile, siccome ricorda la prostrazione della Francia, femmina penetrata nel '40 dal fallo d'acciaio delle "panzerdivisionen"di Rommel, subito prona al "macho" di turno. La vergogna di Brasillach è in realtà la vergogna del paese: che sia autentica, che cioè il destrorso intellettuale fosse realmente omofilo, non interessa. Le sue parole si sono concretizzate in atti; il suo infemminarsi ipostatizza la storia allora recente. E il contrapasso: il cesellatore della degenerazione razziale muore per la valenza simbolica della degenerazione sessuale.
E ora l'ultima domanda: è davvero passato, il tempo?
1) Alice Kaplan, Processo e morte a un fascista - il caso Robert Brasillach, il Mulino, Bologna 2003.
Invece ho voluto parlare di questo, perché pone un quesito fondamentale al tale che decida di mettere nero su bianco sensazioni, idee, proponimenti, pensieri: un interrogativo che è basilare per chi intraprenda il mestiere di scrivere, e faccia professione d'"intellighentia" - chi (intendi bene, Mio Caro) voglia impicciarsene con un minimo di... come la chiamiamo? Onestà intellettuale, coscienza, amor del vero, verità come prassi rivoluzionaria?
Comunque la chiamiate (chi-amiate), benvenuti nel resoconto del processo a uno scrittore e polemista di destra, che alla domanda alla quale mi riferisco (e a un'altra che si vedrà) dove' dare la più cruda delle risposte: la morte.
Nato nel 1909, da un ufficiale dell'Armée caduto in Marocco e una madre che risposò un benestante, Robert perciò ebbe verso di frequentare il più alto studio di Francia: quella Scuola Normale Superiore che ha laureato presidenti, ministri, grand-commis, letterati, filosofi, d'indiscusso valore. Giovane, collabora con quotati giornali e riviste della destra francese, e si fa notare per l'intelletto di recensore, il piglio combattivo e la verve nazionalista - e per un antisemitismo "moderato", ammesso che l'odio razziale sia sottoposto a graduazioni. Nel frattempo, pubblica dei romanzi, in cui stempera le sue visioni destrimani con un sentimentalismo di cattiva lega - è cosa che spesso succede ai nazifascisti: hanno la lagrima facile. E stampa, suo parallelo interesse (è critico cinematografico, tra l'altro), una Storia del cinema che forse è la prima a venir realizzata, ed è opera di valore ed acume.
Sono più o meno gli anni del governo frontista di Leòn Blum, quindi della guerra di Spagna, che in Francia (e non solo) esacerba gli animi. Lui è schierato sulla sua barricata destrorsa e anticomunista, e ha a che fare persino con un tentativo di putsch portato alla Terza Repubblica da gruppi parafascisti quali i "Camelots du Roi". Al tempo, esalta la Germania, con accenti fra il patetico e l'elogio del virile cameratismo - l'impressionano, fra l'altro, i film della Riefensthal. Dopodiché, il patatrac: la "strana guerra", che lo vede ufficiale al fronte, indi la "débacle", con l'Esagono spartito fra i tedeschi, e - nominalmente - il governo petainista-lavalliano di Vichy. Ma non ci si dimentica di lui: liberato dal sesto "oflag" (campo di prigionia per ufficiali), va a scrivere sul quotidiano filonazista Je suis partout. Chi ha visto L'ultimo metrò di Truffaut, può figurarsi che il personaggio di Daxiat, feroce antisemita e onnipotente critico teatrale, venga probabilmente modellato sullo scrittore e sul suo sodale Déat. Sul suo fogliaccio, Brasillach parla e straparla: della nobiltà della causa nazista, d'un curioso nazionalismo francese che dovrebbe esaltarsi nell'abbraccio col Reich, e soprattutto (nella rubrica "partout et ailleurs") dei traditori e terroristi. Chi sono? Ricordarlo duole: chi nell'amministrazione si sottrae alla melma del collaborazionismo, chi combatte per liberare la nazione dall'invasore, e gli ebrei, che Brasillach considerava non più che topi o scimmie - spietato e incurante della loro sorte (quale che fosse, visto che li descriveva come animali nocivi), arriva a scrivere "è necessario separarsi dagli ebrei en bloc, compresi i bambini". Detto e fatto: per l'alacre opra dei tedeschi, dei loro servi e dei paurosi, 10.700 bambini e adolescenti francesi di religione ebraica finirono nei lager. (p. 154) Da uno scrittore ci si sarebbe aspettato, pure nella demenza, almeno qualche ricordo dantesco - che so, l'ultimo dell'Inferno, dove si dice dei figli d' Ugolino che "innocenti facea l'età novella". No, nulla: la sua penna non ha un'esitazione. Sciagurato, cieco, lui che il sapere e il talento potevano salvare, non per ipocrisia ma per consapevolezza. Sciagurato, chi di queste follie si ammanta ancora adesso, chi di lui fa un eroe, un martire, chi si fa cieco malgrado ogni cosa sia sotto i nostri occhi.
Infine, i gollisti di Leclerc e gli Alleati giungono a Parigi. E può concretizzarsi il "vituperio delle genti": Brasillach viene preso, incarcerato, giudicato e giustiziato prima ancora che la guerra termini. Molti erano forse più colpevoli di lui - gli intrallazzatori, le spie, i manutengoli, i mercanti, gli ambiziosi, gli imbecilli: e questo fece muovere belle intelligenze (Mauriac, Paulhan, addirittura Camus - contrario ai traditori, ma più al giudizio capitale) a suo favore, e fa dire oggi alla Kaplan che il verdetto della pena di esemplarità fu "esagerato e ingiusto". (p. 251) Ma ecco la domanda: quando le parole - siano pure quelle del poeta, dello scrittore, del filosofo (Gentile!) - diventano atti, e dunque passano dall'opinione alla colpa (ove la si rintracci in esse)? Forse questo libro (ne) risponde: le parole restano parole, finché un regime non ne fa leggi, libri di testo, catechismi. Dopo, non è più responsabilità: è colpa. Più: è dolo.
E ancor più: il libro della Kaplan svela, nelle pagine sul processo, una più resiliente distorsione, un diverso e più radicale e radicato (pre)giudizio: non fu il delirio antisemita che decise della condanna dell'uomo e dello scrittore, bensì un altro, più infamante (per la temperie e gli odierni ottenebrati) delitto, che s'unisce e rinforza e moltiplica e approfondisce quello dell'aver tradito: il pubblico ministero l'illustra, v'insiste, lo corrobora con citazioni. Brasillach non è solo "il chierico che ha tradito": (p. 183) è colui che ha dichiarato una forte emotività per il biondo, maschio invasore - implacabile, l'accusa lo esplicita con "una frase tagliente: "Questo sentimento che non osa dichiarare il suo nome è l'amore!". (p. 184) Chi non sa che queste parole furono i chiodi che confissero Wilde alla pena? L'accusato vien fatto figurare come l'ultimo dei venduti, affine alle donne "collaborazioniste orizzontali", (p. 146) rase dalle loro chiome (la tonte si dice questa procedura, che ci richiama il gergale tante, "zia", valevole "omosessuale effeminato") per essersi giaciute con i nazi. Reato orribile, siccome ricorda la prostrazione della Francia, femmina penetrata nel '40 dal fallo d'acciaio delle "panzerdivisionen"di Rommel, subito prona al "macho" di turno. La vergogna di Brasillach è in realtà la vergogna del paese: che sia autentica, che cioè il destrorso intellettuale fosse realmente omofilo, non interessa. Le sue parole si sono concretizzate in atti; il suo infemminarsi ipostatizza la storia allora recente. E il contrapasso: il cesellatore della degenerazione razziale muore per la valenza simbolica della degenerazione sessuale.
E ora l'ultima domanda: è davvero passato, il tempo?
1) Alice Kaplan, Processo e morte a un fascista - il caso Robert Brasillach, il Mulino, Bologna 2003.
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