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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Antonio Carnuccio

Con un filo d'erba tra i denti

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   Il giorno in cui a Tommaso Trupìa fu diagnosticato il cancro, era d’aprile.
Un cancro allo stomaco a lui che era stato da sempre vegan. I medici non glielo spiattellarono subito in faccia e, tergiversando, gli chiesero se potevano parlare con qualche suo parente. Ma egli rispose che non aveva uno straccio di parente prossimo e che voleva sapere subito, lì su due piedi, la verità.
   Uscito dall’ospedale, inforcò la bici che aveva legato alla cancellata e via. Non era un possessore di auto. Il verbo ambientalista, che indica l’uomo come cancro del pianeta e la natura come la dea Gaia da adorare, era stato, sin dall’Università, il suo faro. Raggiunse la sua reggia in campagna: ingresso-soggiorno con camino, un ampio studio e la stanza da letto. Nello studio appeso a una parete un poster con l’inno orfico: Natura, tu madre di ogni cosa! Dea che tutto agiti, //antica, che sempre crei... // Eterna forza primeva,// tu solo creatrice di tutto.
  Una fede nella Natura intesa come un “Tutto” organico e vivente animato dalla misteriosa presenza del Divino che egli conciliava con la sua fede cattolica. Una sorta di sincretismo religioso che andava sotto il nome di New Age, nato negli USA e poi attecchito anche nell’Europa occidentale a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Si era formato una filosofia di vita che gli aveva permesso di vivere in pace con se stesso e con il prossimo e in armonia con la Natura.
   Vide il bastardo, pardon, il meticcio Lapo che, disteso sullo zerbino fuori dell’uscio, alzò a malapena il capo mugolando un neghittoso sbadiglio; vide, mentre apriva il cancello, una coppia di lucertole che si rincorrevano sul muro di cinta. Loro, cane e lucertole, bestiole gentili e spensierate, se ne strafottevano se una lercia bestia avrebbe divorato lentamente Tommaso Trupìa o se era lì lì per schiantarlo in una giornata di primavera.
   E il mandorlo, il pero, il melo, il melograno, l’albicocco, l’amarena, l’arancio, il limone, tutti in festa e sorridenti. Ma chi dovevano festeggiare? A chi sorridevano? Non lo sapevano che lui aveva i giorni contati?
E il giardino? Ah, il roseto imperlato di rugiada al mattino e il suo profumo imperiale! Non lo sapevano le sue rose che sarebbe stato sopraffatto dal male e dopo la sua scomparsa anch’esse avrebbero fatto una brutta fine, soffocate da un roveto? E volle illudersi che una mano gentile le avrebbe colto per fare gentile il pezzo di terra sotto il quale tra qualche mese – o giorni? – avrebbe cominciato a dormire, nudo, per sempre.
E i gelsomini con il loro piccolo bianco dall’effluvio stordente, avidi di luce? Non lo sapevano che lui a giorni o tra qualche mese, sei al massimo, non avrebbe mai più rivisto la luce? E pensò che loro non temevano, come le rose, la mancanza di cura da parte dell’uomo.
E le macchie d’oro, e quelle verdi, e quelle bianche dei fiori campestri. Rigenerante visione! Ma lo sapevano tutti quei fiori che quella era per lui l’ultima stagione che lo gratificavano della loro bellezza?
E quel campo tutto di cardi selvatici – li mangiava ogni giorno lessi con olio e limone – screziato dal rosso carminio dei papaveri intrepidi a sfidare sull’esile stelo la selva di spine di quei tracotanti! Sarebbe stato lui, Tommaso Trupìa, intrepido nell’affrontare il suo spietato nemico con dignità?
E gli asfodeli, tanto belli ma che con il loro fetore asfissiavano le umili resede e verbene intorno dal profumo così delicato? Ma lo sapevano quei puzzolenti che, giusto pochi mesi se non pochi giorni, anch’egli avrebbe puzzato?
E l’agave all’estremità del giardino, che dopo dieci anni stava per fiorire? Lo sapeva la nobile pianta che prima di portare a compimento la sua fioritura suicida egli, Tommasino Trupìa, sarebbe bell’e sfiorito e interrato?  
   E la babele di voci nell'aria che cessava alle prime ombre della sera quando il timido allocco intonava il suo canto d'amore notturno? Trupìa sapeva imitare il suo verso alla perfezione e lui, l'allocco, gli rispondeva e si avvicinava posandosi sul grande ulivo vicino casa e il duetto continuava fino a che Trupia non si addormentava sulla sdraio. Ma non lo sapeva l'allocco, che si faceva prendere in giro come un allocco, che un giorno o l'altro egli, Trupìa Tommaso, non l'avrebbe mai più preso in giro?
   Nel raggio di un paio di chilometri non c’erano altre case. Di notte il silenzio era gravido di vita a differenza di quello cittadino foriero di insidie: ma lo sapevano i cari notturni rumori campestri che sarebbe presto arrivata la notte in cui non li avrebbe più ascoltati per sempre?
   E le voci del vento? L’ammaliavano di notte trasportandolo nel suo paese d’infanzia, scordato. Ma non lo sapevano quelle voci che la sua voce a giorni o tra qualche mese nessuno più l’avrebbe ricordata, nemmeno Lapo? E la pioggia? Provava un dolce piacere quando di notte cadeva vellutata sul tetto, ma quando arrivava improvvisa e fracassona, scrosciante sui vetri delle finestre, si chiedeva sempre: quando smetterà? Lo sapeva la pioggia che di lì a pochi giorni o mesi a lui non sarebbe più importato nulla sia che cadesse lieve o con fragore sul pezzetto di terra sul retro della casa sotto il quale avrebbe dormito il sonno della notte senza fine?
   E il cielo pieno di stelle che era il suo soffitto notturno da giugno ad agosto? Non lo sapeva che egli era nato sotto una cattiva stella?
   Che voce avrà la Parca quando lo chiamerà? Forse la sua voce si confonderà con una delle tante voci del vento per non spaventarlo. E lui s’accomiaterà dal mondo all’umida luce della luna o al buio inconsolabile di una notte nera?
   Si distese sulla sedia a sdraio, tutto rannuvolato, con un filo d’erba tra i denti, sotto l’ulivo che egli aveva piantumato trentatré anni fa in coincidenza di un evento che l’avrebbe scaraventato in un'insensata condizione esistenziale.
   Alla sua destra, oltre il recinto, scintillava il giallo di un prato di margherite. Di fronte a questa visione, chissà perché, si rasserenò un poco e prese a filosofeggiare: la forza bruta dell’uomo può distruggere un vasto prato di margherite; alla prossima stagione ricresceranno. A ogni stagione ricresceranno, sempre, nei secoli dei secoli. Ma se distrugge il Colosseo forse che ricrescerà? E dunque la vita del Colosseo paragonata a quella della margherita è un attimo. Nella loro caduca e risorgente gloria – rifletteva – i fiori rinascono sempre sopra strati di terra ingentiliti dalla mano premurosa dell’uomo o intorpiditi dal suo odio sanguinario.
   Due farfalle gli danzarono attorno, gli sfiorarono il viso e si persero. Lui si perse nel tempo e si rivide bambino correre ansimante con la rete in alto nell’aria innocente di maggio e mai che ne catturasse una. Ma lo sapevano le farfalle che egli non era più un bambino e che a giorni o mesi anche la sua anima sarebbe volata… ma ora non sapeva dove?
   Poi cadde, invaso da un ricordo, in trance: il profumo di lei e le palpitazioni di adolescente mentre le sfiorava la mano seduti in mezzo al prato di margherite lungo la vigna dai grappoli verdi. Risentì il tono della sua voce: la sua voce era dolce e pura, era come se un angelo cantasse accanto a lui, che lo inebriava e lo faceva annegare nell’estasi. Provava una sensazione mistica, distante da qualsiasi forma di voluttà, si perdeva nella grazia del suo sorriso, nella bellezza del suo sguardo. Ogni parola, ogni gesto, la cosa più insignificante, tutto palpitava d’amore intorno a lei. E anche dopo il matrimonio non fu mai posseduto da quell’ardore frenetico e oscuro della carne. Che dolci sensazioni, che ebbrezza, che beatitudine nel suo cuore! Per causa altrui…
   Ha vissuto la vita, lui? O non ha piuttosto vissuto la morte senza il riposo del sepolcro? “Maledetto! Maledetto!”, gridò. Si scosse al suono della sua voce. E alla vista, alla sua sinistra oltre il recinto, del giallo luminoso dei denti del leone i cui semi si lasciavano soavemente trasportare dal vento, si lasciò trasportare ancora più lontano nel tempo; e si rivide di nuovo bambino con altri bambini a fare a gara a soffiare più forte su quei fiori dal ciuffo di peli bianchi e vederli volare e rincorrerli; e l’assalì una tristezza indicibile: non aver avuto, per causa altrui, dei bambini e soffiare con loro… Maledetto! Maledetto! E deviò i pensieri al presente.
   Scrutò la pianura tutta a grano: un mare verde – mosso da un Grecale morbido e sinuoso – che s’allungava per qualche chilometro in larghezza e qualche centinaio di metri in altezza fino al promontorio verde-scuro.
   Da sempre, al crepuscolo, nella bella stagione, separatosi dalla sedia senza braccioli della scrivania e dai ponderati tomi o dal piccolo laboratorio di scienze naturali, si lasciava disorientare, lì adagiato, dal friggìo delle cicale che scemava col declinare della luce fino a cessare quando arrivava il buio cricchiante dei grilli.

   Per molti era stato un uomo eccentrico. Ma egli era stato il più valente professore di Scienze naturali nella storia del Liceo Scientifico della sua cittadina. Ora in pensione gli mancava il contatto con gli studenti, ma era comunque contento di poter dedicare tutto il tempo ai suoi studi vivificandosi al lume della scienza da cui traeva l’unico piacere. Non conosceva altri piaceri: non quello del cibo, era parco; non quello dell’alcol, era astemio; non quello dell’eros. La moglie. Mai aveva tradito la sua memoria con altre, mai. Neanche col pensiero.

   Anche quel giorno era come oggi, 17 d’aprile, venerdì, ricordò Tommaso Trupìa inquietandosi per la coincidenza, ma subito ristabilì il primato del logos sul fascino dell’irrazionale.
   Era al tramonto, rientravano dal viaggio di nozze a bordo di una Fiat Uno. Sulla strada statale 106 al KM 494 a ridosso di una curva pericolosa, sotto le sembianze di una giovane vestita di bianco, stava agguatata la Morte: una Bmw nera lanciata a folle velocità prese maldestramente la curva e travolse la Fiat Uno. La morte si prese subito la giovane sposa e poi corse ad appostarsi in una corsia d’ospedale in attesa dello sposo, ma i medici dopo tre mesi la mandarono via.
   Il giovane alla guida della Bmw non fece nemmeno un’ora di carcere mentre il Trupìa visse per anni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba dentro una prigione in compagnia di uno sciame ronzante di fantasmi che impedivano qualsiasi libertà e autonomia di manovra alla sua psiche intorpidita dalle paure.
   A stento riemerse dal fiume vischioso del male oscuro non ad opera di psicoterapeuti, analisi e lettini – diceva – ma grazie a un giovane prete, figlio di un suo collega e fraterno amico, che lo affidò al vero terapeuta dell’anima: Gesù. Il professore Tommaso Trupìa consegnò il proprio dolore a Cristo, a quel Cristo che muore senza mai finire di morire, per darci la vita.
  
   Ora il pensiero dell’incombente bestia che l’avrebbe ridotto a una larva prima di annientarlo tra atroci dolori lo stava precipitando in una disperazione più acuta e brutale di quella vissuta dopo la tragedia tanti anni fa e percepiva quella sofferenza della psiche come un’eco quasi dolce rispetto alla prospettiva terrificante della sofferenza fisica.
   Guardò l’orologio, era mezzogiorno passato, si ricordò che non aveva cucinato la mattina prima di andare in ospedale a ritirare l’esito degli esami, ma non aveva per niente fame. Si alzò dalla sdraio, fece un giro d’ispezione nel giardino, accarezzò i fiori come si accarezza la testa di un bimbo, perlustrò il piccolo orto biologico, chinandosi sulle piantine di pomodori, melanzane, peperoni, zucchine.
Poi entrò in casa, prese una bottiglia d’acqua fresca, andò a sedersi di nuovo sulla sdraio con un nuovo filo d’erba tra i denti. 
   L’intera pianura entrò nel suo campo visivo con tutte le sue sfumature; poi piano piano ogni dettaglio cominciò a sfocare alla sua vista. Una sorta di abulia fluì nelle sue fibre, reclinò la sdraio e prese a naufragare nel mare dell’azzurro qua e là sfrangiato da cirri, perdendovisi: l’accolse il conforto del sonno.

   Da sei mesi a un anno di vita, era stata la previsione dei medici. Bene, d’ora in avanti – decise – si sarebbe concentrato in maniera totalizzante su un progetto che avrebbe portato a compimento entro il termine di sei mesi o magari prima. Stabilito il piano, diede inizio alla sua attuazione.
   Si mise in movimento per comprare un’auto usata: l’auto avrebbe funto come il classico specchietto per le allodole. Ma non guidava da più di trent’anni e per il rinnovo della patente dovette rifare gli esami di guida. Ed erano già trascorsi due mesi. E a mano a mano che il tempo passava Tommaso Trupìa diventava sempre di più preda di quell’egocentrismo di chi è posseduto dal male incurabile e pensa che questo suo male sia il centro del mondo e pretende che tutti gli esseri animati e inanimati siano sue appendici. Altrimenti non ha senso che esistano sulla faccia della terra.
   Dopo l’acquisto di una vecchia Panda, si recò con la stessa nei giorni seguenti nel Capoluogo. Doveva comprare un’auto nuova. Tra gli autosaloni scelse quello più conosciuto e di più antica data, e con l’esclusiva del marchio Bmw, le macchine più affidabili del mondo, sentenziò il ragioniere Biagio, titolare della concessionaria, mentre gli illustrava i pregi dell’ultimo modello.
Tommaso Trupìa gli chiese en passant se si ricordava di lui. Il ragioniere Biagio rispose di no. Bene, bene! disse tra sé Trupìa, che si era presentato sotto falso nome.
   Quell'uomo che ora gli stava davanti non aveva compiuto ancora la maggior età quel giorno in cui, correndo come un pazzo alla guida della Bmw aveva ucciso la moglie. Erano passati trentatré anni. Il professore si disse convinto di comprare una Bmw anziché una caccavella della Fiat, e all’atto di andarsene chiese al ragioniere Biagio qual era il giorno più tranquillo per perfezionare con calma l’acquisto. Il ragioniere gli fissò l’appuntamento per il giorno precedente la chiusura per ferie, il 17 luglio, venerdì.  Questa volta un brivido gli corse per la schiena… ancora il 17, ancora un venerdì. No, non gli importava nulla di nulla: questa volta il diciassette di venerdì sarebbe stato infausto ma non per lui.
   Tommaso Trupìa in seguito passò un paio di volte dall’autosalone con qualche scusa e intanto che il titolare parlava con i clienti egli, fingendo di esaminare le auto esposte, esplorava con lo sguardo ogni angolo del salone. Gli occhi gli caddero su una sbarra di ferro a gancio che serviva ad abbassare la saracinesca dell’ufficio-vendite. 
   E arrivò l’atteso giorno. Tommaso Trupìa giunse all’autosalone prima del tramonto. Parcheggiò nello spiazzo riservato ai clienti vicino all’ufficio-vendite. Nell’ufficio c’era una persona. Nell’attesa, appoggiato alla sua auto con le braccia conserte e con l’aria da svagato, adocchiava il ragioniere Biagio: un uomo minuto dagli occhietti furbi e cattivi – così gli apparve quando rivide, dopo tanti anni, il maledetto, – dalla peluria rossiccia, mezzo calvo, malmesso per la sua età. Per quanto odioso, è sempre un essere umano anch’egli, capace… e se è malato anche lui? magari di cancro... si chiese Trupìa, ma, interruppe la sua riflessione respingendo con un gesto della mano l’incipiente empatia per quell’uomo.
   Il sole scendeva con esasperante lentezza. Lì, senza un albero, il caldo cuoceva. Tommaso Trupìa rimaneva immobile chiuso nella sua corazza che aveva preso a indossare qualche giorno dopo che gli era stato diagnosticato il male. All’improvviso desiderò di trovarsi a casa e cercò di muoversi per andare via, ma la pesante armatura glielo impedì. Lo avviluppò un’ansia gelida e cominciò a sudare freddo. Un barbaglio proveniente dal parabrezza di un’auto lo colpì. Si scosse.
   Il ragioniere si sporse dalla finestra a piano terra invitandolo ad accomodarsi. Trupìa si mosse come un automa e si condusse nell’ufficio. Varcata la soglia, guardò nell’angolo destro: la barra di ferro era al suo posto. Domandò al ragioniere Biagio se aveva ancora appuntamenti con altri clienti; il ragioniere, che era seduto, rispose di no. Il professore chiese un bicchiere d’acqua fresca, aveva la gola secca, e intanto rimaneva in piedi. L’altro si girò sulla sedia voltandogli le spalle per prendere l’acqua dal frigorifero e in quella Tommaso Trupìa afferrò fulmineo la sbarra di ferro e gliel’affondò sul cranio.
Corse alla sua auto, prese la tanica di benzina, rientrò nell’ufficio e la sparse sulle pareti e poi sul quel corpo steso lordo di sangue sul quale buttò un fiammifero acceso.

    La notte dormì come un ghiro. Finalmente! Era da tempo immemorabile che non assaporava il sonno ristoratore.
   Al mattino, invece di alzarsi per godersi lo spettacolo dell’alba come sempre, rimase a crogiolarsi nel letto. Si alzò a sole già alto e con la baldoria dei passeri alle stelle, e invece di salutarli come aveva sempre fatto gli inveì contro ad alta voce mentre si stirava sbadigliando sull’uscio. Sferrò un calcio – cosa assurda e impensabile fino al giorno prima – a Lapo che gli si avvicinava scodinzolando. Quindi prese a calpestare un formicaio, poi continuò a picchiare il cane; gli apparve ributtante e disgustosa la felicità delle piche che con i loro orridi gracchi pareva volessero irriderlo; avrebbe volentieri torto loro il collo a una a una. Lanciò la sdraio oltre il recinto mandando a quel paese Kant, il cielo stellato e la coscienza morale. Scalciò i bidoncini della spazzatura mandando al diavolo la raccolta differenziata insieme alla dea Gaia;
   La bellezza regnava nel giardino: ne fece scempio con la roncola accanendosi soprattutto contro il roseto; quindi s’avventò sull’orto e calpestò le piantine fino a farne una poltiglia. Entrò in casa: ridusse in frantumi il piccolo laboratorio, poi riempì con stizza una dozzina di sacchi di iuta di tutti i libri, li ammassò al centro del giardino devastato e fece un bel falò. E adesso che c’era, avrebbe dato fuoco alla casa e a tutto.
   No, non poteva farlo: c’era l’ulivo vicino alla casa e quell’albero era sacro; l’aveva piantumato dopo la tragica fine della moglie, a sua memoria. Al pensiero della moglie la sua collera distruttiva cessò all’improvviso; prese ad accarezzare il tronco sfiorandolo lievemente con le labbra. Avvertì una spossatezza estrema e, lasciandosi cadere lentamente, si distese supino.
   La vide giungere a passo lento senza la falce e senza il ghigno terrifico, anzi il suo volto era bello, era quello della moglie.
Il sole stava per scavalcare il promontorio.
   Lapo, che l’aveva vegliato per tutto il giorno piangendo sommessamente col muso sul petto di Tommaso, divenne, lui, essere dolcissimo, un demonio contro i carabinieri che armeggiavano al cancello.



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