INTERVISTE
Fabrizio Patriarca
Iniziamo con una domanda ovvia. Perché ti è venuto in mente di 'rispolverare' il "Dialogo sulla Moda e la Morte" di Leopardi?
Le Operette morali le ho lette a diciotto anni, e non mi hanno entusiasmato. Le trovavo inerti, di una freddezza funebre. Probabilmente mi sfuggiva l'intorno, la rassegnazione in cui nascono, l'indolenza in cui alcune di loro - come dire - galleggiano. Ma mi sfuggiva soprattutto quella felicità di tornare a scrivere che le riempie, la felicità di un uomo che torna da un viaggio disastroso, che viene fuori da una solenne caduta delle illusioni. Quando si è giovani e si hanno forze di lettura non si è preparati. Quando poi si è preparati quelle forze ormai vanno scemando per sempre. E' un pensiero leopardiano. Quel viaggio/disastro fu per Leopardi la trasferta romana del '23, la secca constatazione dell'effimero in corso di realizzazione, dispiegato nella sua potenza nichilista. Di qui l'attenzione al problema della moda, con una sfumatura che un critico pouò trovare molto eccitante: non le strade che la moda insegna alla letteratura - ovvero i metodi attraverso i quali governarne gli esiti se non le convinzioni - ma un primo limpidissimo esempio di come la letteratura "pensa" la moda, nel passaggio delicato della sua "origine" moderna.
Davvero possiamo dire che la sua analisi sul fenomeno moda, inteso a tutto tondo, e non soltanto relativo allo specifico dei capi d'abbigliamento, sia antesignana di quella corrente che oggi viene chiamata post-moderno?
Possiamo senz'altro tracciare una distinzione, che è innanzitutto retorica tra la moda messa in scena da Leopardi, e la moda derisa dai favolisti del Settecento. La moda leopardiana inaugura a tutti gli effetti un pensiero della crisi, confligge con un mondo di valori che a Leopardi è molto caro, e ancora più caro nel momento in cui decide per il suo abbandono. Quel modo è in definitiva ciò che indichiamo col concetto di umanesimo: la razionalità illuminista è il suo apice e forse il suo congedo. Non è un caso che il Settecento sia - in larga parte - il secolo dell'enciclopedia. L'Ottocento è invece, con Leopardi, il secolo dei cataloghi (lo stesso Dialogo della Moda e della Morte è strutturato come un doppio "catalogo": abiti da una parte, abitudini dall'altra), cioè in fondo il secolo della moda. La scoperta di questa retorica del catalogo potremmo ridurla, senza le dovute incursioni nella teoria della moda, a una pratica diffusa in letteratura come quella dell'elencazione: in Leopardi tale elencazione diventa consapevolezza, gioco, mimesi divertita (o tetra), recupero di stilemi anche antichi (Orazio, per esempio). Quando la letteratura mescola se stessa in un calderone del genere, con esiti che sono autoreferenziali e disgreganti, quando la letteratura - consentimi - "ribolle" in queste pile borbottanti e pericolosissime, il postmoderno, ecco, può dirsi iniziato.
Mi ha colpito molto, nel libro, la bella differenziazione che ricordavi fra la ricerca di immortalità tramite la 'fama' perseguita dai latini e la ricerca di un'immortalità impossibile con l'effimero e il transitorio incarnati (meglio incorporati) nella moda...
L'immortalità, come spiego nel libro, per i classici era "a portata di fama", nell'ottica dei moderni trascende invece in una vacua adorazione della fama. Io leggo due grandi cambiamenti nella storia del moderno: il passaggio da una società di convinti (chiamiamoli "believers", seguendo un grande sociologo) a una società di persuasi (chiamiamoli "behavers"): i primi si distinguono per una serie di convinzioni (ad esempio religiose, morali, epistemologiche), i secondi per una serie di comportamenti. A questo secondo gruppo fa riferimento la società della moda, che in fondo è una società aggregata (e adornata) nella persuasione. L'altro passaggio epocale, di cui si legge qualcosa in Hannah Arendt, è da una società composta da individui inermi a una società fatta essenzialmente di impotenti. La Shoah, se vogliamo, ha rappresentato nella Storia l'ultima grande esperienza dell'inermità. Oggi, invece, siamo tutti malati d'impotenza.
Veniamo all'oggi. E voglio provocarti. Do un merito alla moda: quella di averci fatto scendere dal sogno ad occhi aperti dell'immortalità. Tutto transita, svanisce, passa, si modifica. Ci ha svegliati e ci ha detto, umanità siete carne che si consuma, come i nostri abiti, o i nostri oggetti. E' così?
Credo che il grande bisbiglio della moda sia nel togliere quel "come". La moda non ama le similitudini, ma i ritorni, le identità, le riprese, il déjà-vu. La moda non dice, subdolamente: "siete come i vostri abiti", ma letteralmente: "siete i vostri abiti". L'intuizione di Barthes in questo senso è fondamentale: le linee sinuose della mannequin sulla passerella non stanno là ad indicare il corpo, ma il vestito. L'inversione è semiotica, prima che retorica. Quanto a Leopardi, bisognerebbe riflettere su questo: un critico della moda devastato dal desiderio della fama. Evidentemente la fama e la moda viaggiano su binari non paralleli, ma probabilmente mai convergenti.
Moda e morte, endiadi destinata a fissarsi come Eros e Thanatos? Oppure Moda a morte, e torniamo al durevole... ma la poesia (forse la letteratura in genere) è davvero immortale?
Al femminile (fatto sintomatico): quella di Amore e Morte in Leopardi è una fratellanza, compiuta letterariamente circa dieci anni dopo aver dato alla luce questa "strana" sorellanza tra Moda e Morte. Ma si tratta di una sorellanza squilibrata, più di un passaggio di consegne. La Moda a un certo punto dichiara di non aver mai fatto tramontare l'usanza che gli uomini debbano morire. E' una bella figura retorica, il paradosso. Ma è anche un astuto sofisma che dice: le regole sono saltate, ora con le regole si gioca. E' una dismissione di valore. A questa povertà dobbiamo rassegnarci, sfruttando la back-door aperta da Borges: la grande poesia, la poesia perfetta, ha un tasso di corruzione molto alto. Prevert è perfetto, ma prova a ricordartene un verso. Appena sbagli un termine lo uccidi. Dante, per quanto lo guasti con la sbadataggine di una memoria che s'inceppa, più o meno resta Dante. La letteratura è salvata dalla propria imperfezione. La moda invece vuole tutto laccato, giusto, attillato. Ti ricordo che l'arciduca Francesco Ferdinando, dopo la pistolettata di Gavrilo Princip, morì dissanguato perché aveva l'abitudine, prima di una parata, di farsi letteralmente cucire l'abito addosso, in modo che non facesse pieghe. Un bell'esempio di quella che Leopardi chiamava "potenza della moda". Ne uscì una guerra mondiale, peraltro.
Ci aiuti a rileggere Leopardi. Cosa consiglieresti a chi voglia approcciare il grande poeta per la prima volta?
Il diario del primo amore. E' un capolavoro di poche pagine, in cui Leopardi racconta gli effetti dello stordimento sensuale provocato dalla visita di una cugina, Gertrude Cassi Lazzeri, presso la casa di Recanati. Lo ha scritto a diciassette anni, ed è un resoconto dolcissimo e ferocemente lucido, nell'analisi dei fatti, nel dettaglio psicologico. E' uno specchio universale, bisognerebbe darlo come obbligatorio in ogni ordine di scuola superiore. E poi, è prosa di una brillantezza da sbiadire le supponenze di molti assestati contemporanei.
L'ultima provocazione. Se Leopardi, che nel passo da te citato nell'introduzione si entusiasma per l'abito azzurro che indossa e lo rende più bello, si fosse deciso a seguire la moda, a voler 'guarire' dalla sua condizione di infermità (forse necessaria per scrivere ciò che ha scritto), se avesse conquistato di conseguenza l'amore di una bella donna, avrebbe ammorbidito secondo te alcune delle sue convinzioni... insomma il suo pensiero era solo frutto della sua condizione?
C'è una straordinaria lettera in cui è Leopardi stesso a contestare questa idea di una relazione stretta tra opera e malattia. Leopardi fu - in molti sensi - un amante della satira, cioè un ottimista rassegnato. Superbo sbafatore di granite e "sciroppee" fino all'ultimo istante di vita. Uomo anche meschino (l'irresistibile invidia per Manzoni: "hai letto quel libro di Manzoni... di cui si parla così tanto e che val così poco?", salvo poi vantarsi per lettera col padre di averlo conosciuto e di essersi intrattenuto con lui ad una festa), capace di stacchi sublimi, di un salto oltre la vita e le sue piccolezze, vale a dire la letteratura. Ma non c'è riscatto in Leopardi. Fu - diciamo, un furioso distruttore delle vecchie mitologie che seppe inquinare, quasi con indolenza, l'ho detto, le nuove mitologie che stavano per arrivare. L'ultimo grande umanista, come ha scritto Bruno Biral, che assiste al tracollo dell'umanesimo. Un altro celebre critico leopardiano ha provato a ipotizzare cosa sarebbe successo se Leopardi, vivendo, avesse visto il '48. Piace immaginarlo eroico, redento, sulle barricate. Ma la critica non si fa con i "se" o con i "forse", si fa sui margini delle forme, nel brulichio del testo: lo studio di Leopardi, se vuoi, è come una lunga discesa in apnea, che ti strema, ma in cui avverti una continua effervescenza (l'azoto che gassifica). Il critico cerca quell'effervescenza, che poi altri chiamano l'intelligenza. Il rischio, ma è sempre rischio della risalita, è chiaramente l'embolia.
Le Operette morali le ho lette a diciotto anni, e non mi hanno entusiasmato. Le trovavo inerti, di una freddezza funebre. Probabilmente mi sfuggiva l'intorno, la rassegnazione in cui nascono, l'indolenza in cui alcune di loro - come dire - galleggiano. Ma mi sfuggiva soprattutto quella felicità di tornare a scrivere che le riempie, la felicità di un uomo che torna da un viaggio disastroso, che viene fuori da una solenne caduta delle illusioni. Quando si è giovani e si hanno forze di lettura non si è preparati. Quando poi si è preparati quelle forze ormai vanno scemando per sempre. E' un pensiero leopardiano. Quel viaggio/disastro fu per Leopardi la trasferta romana del '23, la secca constatazione dell'effimero in corso di realizzazione, dispiegato nella sua potenza nichilista. Di qui l'attenzione al problema della moda, con una sfumatura che un critico pouò trovare molto eccitante: non le strade che la moda insegna alla letteratura - ovvero i metodi attraverso i quali governarne gli esiti se non le convinzioni - ma un primo limpidissimo esempio di come la letteratura "pensa" la moda, nel passaggio delicato della sua "origine" moderna.
Davvero possiamo dire che la sua analisi sul fenomeno moda, inteso a tutto tondo, e non soltanto relativo allo specifico dei capi d'abbigliamento, sia antesignana di quella corrente che oggi viene chiamata post-moderno?
Possiamo senz'altro tracciare una distinzione, che è innanzitutto retorica tra la moda messa in scena da Leopardi, e la moda derisa dai favolisti del Settecento. La moda leopardiana inaugura a tutti gli effetti un pensiero della crisi, confligge con un mondo di valori che a Leopardi è molto caro, e ancora più caro nel momento in cui decide per il suo abbandono. Quel modo è in definitiva ciò che indichiamo col concetto di umanesimo: la razionalità illuminista è il suo apice e forse il suo congedo. Non è un caso che il Settecento sia - in larga parte - il secolo dell'enciclopedia. L'Ottocento è invece, con Leopardi, il secolo dei cataloghi (lo stesso Dialogo della Moda e della Morte è strutturato come un doppio "catalogo": abiti da una parte, abitudini dall'altra), cioè in fondo il secolo della moda. La scoperta di questa retorica del catalogo potremmo ridurla, senza le dovute incursioni nella teoria della moda, a una pratica diffusa in letteratura come quella dell'elencazione: in Leopardi tale elencazione diventa consapevolezza, gioco, mimesi divertita (o tetra), recupero di stilemi anche antichi (Orazio, per esempio). Quando la letteratura mescola se stessa in un calderone del genere, con esiti che sono autoreferenziali e disgreganti, quando la letteratura - consentimi - "ribolle" in queste pile borbottanti e pericolosissime, il postmoderno, ecco, può dirsi iniziato.
Mi ha colpito molto, nel libro, la bella differenziazione che ricordavi fra la ricerca di immortalità tramite la 'fama' perseguita dai latini e la ricerca di un'immortalità impossibile con l'effimero e il transitorio incarnati (meglio incorporati) nella moda...
L'immortalità, come spiego nel libro, per i classici era "a portata di fama", nell'ottica dei moderni trascende invece in una vacua adorazione della fama. Io leggo due grandi cambiamenti nella storia del moderno: il passaggio da una società di convinti (chiamiamoli "believers", seguendo un grande sociologo) a una società di persuasi (chiamiamoli "behavers"): i primi si distinguono per una serie di convinzioni (ad esempio religiose, morali, epistemologiche), i secondi per una serie di comportamenti. A questo secondo gruppo fa riferimento la società della moda, che in fondo è una società aggregata (e adornata) nella persuasione. L'altro passaggio epocale, di cui si legge qualcosa in Hannah Arendt, è da una società composta da individui inermi a una società fatta essenzialmente di impotenti. La Shoah, se vogliamo, ha rappresentato nella Storia l'ultima grande esperienza dell'inermità. Oggi, invece, siamo tutti malati d'impotenza.
Veniamo all'oggi. E voglio provocarti. Do un merito alla moda: quella di averci fatto scendere dal sogno ad occhi aperti dell'immortalità. Tutto transita, svanisce, passa, si modifica. Ci ha svegliati e ci ha detto, umanità siete carne che si consuma, come i nostri abiti, o i nostri oggetti. E' così?
Credo che il grande bisbiglio della moda sia nel togliere quel "come". La moda non ama le similitudini, ma i ritorni, le identità, le riprese, il déjà-vu. La moda non dice, subdolamente: "siete come i vostri abiti", ma letteralmente: "siete i vostri abiti". L'intuizione di Barthes in questo senso è fondamentale: le linee sinuose della mannequin sulla passerella non stanno là ad indicare il corpo, ma il vestito. L'inversione è semiotica, prima che retorica. Quanto a Leopardi, bisognerebbe riflettere su questo: un critico della moda devastato dal desiderio della fama. Evidentemente la fama e la moda viaggiano su binari non paralleli, ma probabilmente mai convergenti.
Moda e morte, endiadi destinata a fissarsi come Eros e Thanatos? Oppure Moda a morte, e torniamo al durevole... ma la poesia (forse la letteratura in genere) è davvero immortale?
Al femminile (fatto sintomatico): quella di Amore e Morte in Leopardi è una fratellanza, compiuta letterariamente circa dieci anni dopo aver dato alla luce questa "strana" sorellanza tra Moda e Morte. Ma si tratta di una sorellanza squilibrata, più di un passaggio di consegne. La Moda a un certo punto dichiara di non aver mai fatto tramontare l'usanza che gli uomini debbano morire. E' una bella figura retorica, il paradosso. Ma è anche un astuto sofisma che dice: le regole sono saltate, ora con le regole si gioca. E' una dismissione di valore. A questa povertà dobbiamo rassegnarci, sfruttando la back-door aperta da Borges: la grande poesia, la poesia perfetta, ha un tasso di corruzione molto alto. Prevert è perfetto, ma prova a ricordartene un verso. Appena sbagli un termine lo uccidi. Dante, per quanto lo guasti con la sbadataggine di una memoria che s'inceppa, più o meno resta Dante. La letteratura è salvata dalla propria imperfezione. La moda invece vuole tutto laccato, giusto, attillato. Ti ricordo che l'arciduca Francesco Ferdinando, dopo la pistolettata di Gavrilo Princip, morì dissanguato perché aveva l'abitudine, prima di una parata, di farsi letteralmente cucire l'abito addosso, in modo che non facesse pieghe. Un bell'esempio di quella che Leopardi chiamava "potenza della moda". Ne uscì una guerra mondiale, peraltro.
Ci aiuti a rileggere Leopardi. Cosa consiglieresti a chi voglia approcciare il grande poeta per la prima volta?
Il diario del primo amore. E' un capolavoro di poche pagine, in cui Leopardi racconta gli effetti dello stordimento sensuale provocato dalla visita di una cugina, Gertrude Cassi Lazzeri, presso la casa di Recanati. Lo ha scritto a diciassette anni, ed è un resoconto dolcissimo e ferocemente lucido, nell'analisi dei fatti, nel dettaglio psicologico. E' uno specchio universale, bisognerebbe darlo come obbligatorio in ogni ordine di scuola superiore. E poi, è prosa di una brillantezza da sbiadire le supponenze di molti assestati contemporanei.
L'ultima provocazione. Se Leopardi, che nel passo da te citato nell'introduzione si entusiasma per l'abito azzurro che indossa e lo rende più bello, si fosse deciso a seguire la moda, a voler 'guarire' dalla sua condizione di infermità (forse necessaria per scrivere ciò che ha scritto), se avesse conquistato di conseguenza l'amore di una bella donna, avrebbe ammorbidito secondo te alcune delle sue convinzioni... insomma il suo pensiero era solo frutto della sua condizione?
C'è una straordinaria lettera in cui è Leopardi stesso a contestare questa idea di una relazione stretta tra opera e malattia. Leopardi fu - in molti sensi - un amante della satira, cioè un ottimista rassegnato. Superbo sbafatore di granite e "sciroppee" fino all'ultimo istante di vita. Uomo anche meschino (l'irresistibile invidia per Manzoni: "hai letto quel libro di Manzoni... di cui si parla così tanto e che val così poco?", salvo poi vantarsi per lettera col padre di averlo conosciuto e di essersi intrattenuto con lui ad una festa), capace di stacchi sublimi, di un salto oltre la vita e le sue piccolezze, vale a dire la letteratura. Ma non c'è riscatto in Leopardi. Fu - diciamo, un furioso distruttore delle vecchie mitologie che seppe inquinare, quasi con indolenza, l'ho detto, le nuove mitologie che stavano per arrivare. L'ultimo grande umanista, come ha scritto Bruno Biral, che assiste al tracollo dell'umanesimo. Un altro celebre critico leopardiano ha provato a ipotizzare cosa sarebbe successo se Leopardi, vivendo, avesse visto il '48. Piace immaginarlo eroico, redento, sulle barricate. Ma la critica non si fa con i "se" o con i "forse", si fa sui margini delle forme, nel brulichio del testo: lo studio di Leopardi, se vuoi, è come una lunga discesa in apnea, che ti strema, ma in cui avverti una continua effervescenza (l'azoto che gassifica). Il critico cerca quell'effervescenza, che poi altri chiamano l'intelligenza. Il rischio, ma è sempre rischio della risalita, è chiaramente l'embolia.
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