INTERVISTE
Giovanna Fiume
Se non sbaglio, 'Mariti e pidocchi' è la riproposizione di un suo saggio del 1990 La vecchia dell'aceto. Come mai questa decisione di riprendere il filo del discorso?
Quel libro ebbe un relativo successo: esaurite le 2.000 copie della tiratura, continuò a essere richiesto e fotocopiato. Ho acconsentito a una ristampa perché ho sempre pensato che aveva una particolare vocazione a essere messo in scena. Ha avuto subito una riduzione radiofonica in dodici puntate e una teatrale fino allo scorso settembre. L'ho scritto mantenendo la struttura dei dialoghi e le parole stesse dei personaggi per aiutare un eventuale regista a metterlo in scena; un mio amico dice scherzosamente che Volver di Pedro Almodovar è stato liberamente tratto dalla mia vecchia dell'aceto.... La ragione più seria è però legata alla voglia di intervenire, da storica, nella (scarsa) discussione in corso in Italia su coppie di fatto, famiglia naturale e simili. Dimostrare che nel recente passato ci sono stati vari modi di concepire i rapporti coniugali e la parentela può aiutare a non assolutizzare la forma "giusta" di fare famiglia, ad abbandonare la fiducia negli "universali" e sposare la molteplicità. Infine ha contato l'affettuosa insistenza dell'editrice: se a una giovane imprenditrice interessava pubblicarlo, doveva pur vederci qualcosa di buono.
Negli atti delittuosi delle donne che si servono del veleno, lei individua una strategia di avanzamento sociale, un'arma per modificare i propri destini. Ma era davvero l'unica a disposizione?
Certo non c'era il divorzio, ma non credo proprio che tutti i matrimoni mal riusciti avessero una soluzione obbligata nell'uccisione del partner. Piuttosto le donne che si servono della pozione a base di arsenico (manipolata e venduta da un certo farmacista per ammazzare i pidocchi e cinicamente adattata a un uso improprio da Giovanna Bonanno, vedova e mendicante, che riesce in tal modo a guadagnare) credono a quanto la "Vecchia dell'aceto" dice loro: di avere "un arcano liquore", molto più efficace di qualunque magia, buona solo a spillare denaro ai creduloni. Insomma, non è secondario che queste uxoricide (ma c'è anche un uomo che se ne serve contro la moglie) agiscano sotto una densa copertura simbolica, credono di somministrare una pozione magica e lo confessano con una ingenuità disarmante ("quel giorno preparavo la pasta con le sarde e aggiunsi un po' di aceto..."). Certo, assistono alle sofferenze lancinanti dei coniugi, spesso "si confondono", chiamano il medico al loro capezzale, vanno dalla Vecchia perché vogliono interrompere il "trattamento", ma poi si consolano facilmente, convolando a nozze con l'amante da cui hanno ottenuto i soldi per acquistare il veleno e l'assicurazione che sarebbero state sposate appena rimaste vedove.
In un recente saggio 'Dare l'anima', lo storico Adriano Prosperi, parlando di un infanticidio avvenuto agli inizi del 1700, pone l'accento sulla resistenza femminile all'autorità non solo maschile e maritale, ma anche ecclesiastica e laica. Non le pare che quel delitto abbia qualcosa a che fare con le istanze delle donne di 'Mariti e pidocchi'?
Conosco molto bene il libro in questione e lo trovo straordinario. Si tratta di un caso giudiziario contro Lucia Cremonini, una giovane serva che a Bologna nei primi anni del '700 viene stuprata da un chierico e uccide il bambino, subito dopo averlo partorito. Adriano Prosperi ricostruisce un quadro denso di conoscenze mediche, giuridiche e religiose circa l'animazione del feto, a cui senza battesimo né nome, non viene riconosciuta l'anima. Un libro importante che ha in comune con il mio – ma non vorrei sembrare presuntuosa – il fatto di basarsi su fonti giudiziarie (il tribunale del Torrone a Bologna, la Gran Corte Criminale a Palermo), la necessità di contestualizzare la documentazione nella cultura giuridica e ricostruire il più possibile la trama delle relazioni tra i personaggi per aggirare il silenzio delle fonti su quello che vorremmo sapere. Ci troviamo di fronte ad azioni valutate come reati: l'infanticidio, l'uxoricidio di cui è necessario indovinare intenzioni, motivazioni, convinzioni, andando al di là di quello che gli imputati o i testimoni dicono, mentre si difendono, accusano, chiamano in correità, si pentono, "discaricano la coscienza" prima di morire. Lucia e Giovanna sono condannate entrambe a morte in spettacoli di giustizia a cui assiste l'intera città.
L'aria illuminista che si respirava, siamo nella Palermo di fine Settecento, porta il tribunale a disconoscere, nei confronti dei delitti della vecchia dell'aceto, il maleficio e a trasformare i misfatti in veneficio, facendo intervenire così la volontà dell'attore. Ma purtroppo nulla può contro l'idea, come dice lei argutamente, che l'aggressione femminile priva l'uomo del suo potere e non può perciò essere permessa.
Mi pare che Giovanna Bonanno abbia sbagliato strategia difensiva: se fosse stata imputata di maleficio la posizione di "negare sempre", anche sotto tortura, avrebbe potuto farla prosciogliere. Ma il tribunale del Sant'Uffizio era stato abolito nel 1782 ed erano state liberate le ultime quattro donnette rinchiuse nelle prigioni, accusate di sortilegi e magie verso cui il tribunale non nutre più alcun credito. Così assume un punto di vista "scientifico", accusando la vecchia dell'aceto non di maleficio, bensì di veneficio e non crede nemmeno alle altre imputate, accusate ora di uxoricidio. Giovanna Bonanno, invece di dire che "di magarie non aveva inteso mai", avrebbe al contrario dovuto presentarsi come una fattucchiera. Ma non aveva messo in conto che il cima era cambiato e non si accendevano più roghi. In un certo senso, si celebra un processo "politico", che punisce sei donne per educarne seicento all'obbedienza e alla fedeltà coniugale. Lo scrive in altri termini un cronista dell'epoca: che le donne imparino a "non darsi in braccio ai loro amanti!".
Lei suggerisce a più riprese che la famiglia nucleare è già in crisi nel Settecento...
Io suggerisco che la famiglia si organizza in base a contesti economici, sociali, religiosi, culturali in senso lato e che le forme che assume cambiano con il tempo e quindi è difficile credere a una unica forma di famiglia; le diverse "forme coniugali" non abbiamo saputo riconoscerle perché accecati dalla presunta naturalità della famiglia composta da padre, madre e figli legittimi. L'antropologo Francesco Remoti nel suo bel libro intitolato Contro natura ne fa un utile censimento.
La famiglia-presunta-naturale sembra piuttosto l'ideale della borghesia ottocentesca, ma presuppone la donna inattiva sul mercato del lavoro e totalmente dedita alla riproduzione e alla socializzazione dei figli. Reclusa nel privato, assorbita dal lavoro domestico, pronta al sacrificio di sé per il bene del marito e dei figli. Una donna totalmente ablativa, ricompensata dall'assolvimento dei doveri e dall'esclusione dalla sfera dei diritti.
Nel '700 i comportamenti sessuali anche all'interno del matrimonio sono meno addomesticati di quanto si creda: basta guardare alle donne palermitane del popolo minuto del mio libro o alle aristocratiche circondate dai cavalier serventi del libro di Roberto Bizzochi sui Cicisbei.
È per questo che nell'introduzione 'aggancia' il problema di un processo avvenuto nel Settecento con le battaglie odierne per il riconoscimento delle coppie di fatto?
Proprio così, ma va riconosciuto oggi il pesante richiamo della chiesa cattolica su queste questioni, a difesa di una forma familiare, assediata dalle famiglie a genitore unico, dalle convivenze, dalle coppie omosessuali e dalle forme "etniche" di famiglia che l'emigrazione produce anche nel nostro paese. Abbiamo mai riflettuto che i nostri immigrati musulmani possono legalmente nel loro paese avere più mogli e volerle portare con sè? Avremo anche la poligamia tra le forme italiche di famiglia.
Forse esagero, ma il ruolo del vicinato, che lei tra l'altro sottolinea nel libro, non ricorda forse certe complicità e certi silenzi di cui spesso si parla quando abbiamo a che fare con 'questioni' mafiose?
Sì, esagera. Il vicinato diversamente da come lo concepiamo oggi, aveva ancora nel XVIII secolo un ruolo molto importante di governo di conflitti – certamente di quelli intrafamiliari – che, solo se restavano irrisolti, raggiungevano i tribunali. La transazione extragiudiziaria era tra l'altro una forma diffusa di ricomposizione di liti. Non c'è solo solidarietà nei comportamenti del vicinato, ma la pressione per il rispetto di regole condivise sulla legittimità o meno dei comportamenti; meno che mai omertà come atteggiamento diffuso e generale. Oggi definiremmo pesante intrusione nella vita privata quello che nelle città di Antico regime i vicini imponevano alle mogli adultere, alle madri che maltrattavano i figli o ai mariti cornuti.
La mafia, che ha i suoi prodromi nell'organizzazione della violenza privata all'indomani dell'abolizione della feudalità (1812), è definita sin dai primi decenni dell'Ottocento come una "associazione di malfattori" che persegue l'accumulazione della ricchezza attraverso attività illecite e delittuose (l'abigeato innanzitutto, la macellazione o la vendita di animali rubati, ecc.) e la protezione degli associati (subito distinti in esecutori, mediatori e organizzatori) grazie alla complicità dei pubblici ufficiali. L'omertà è qui la paura della ritorsione o la complicità. Niente di troppo romantico, ma soprattutto niente di attinente alla "natura" del siciliani, al loro Dna, ma solo alla loro storia recente e drammatica.
Quel libro ebbe un relativo successo: esaurite le 2.000 copie della tiratura, continuò a essere richiesto e fotocopiato. Ho acconsentito a una ristampa perché ho sempre pensato che aveva una particolare vocazione a essere messo in scena. Ha avuto subito una riduzione radiofonica in dodici puntate e una teatrale fino allo scorso settembre. L'ho scritto mantenendo la struttura dei dialoghi e le parole stesse dei personaggi per aiutare un eventuale regista a metterlo in scena; un mio amico dice scherzosamente che Volver di Pedro Almodovar è stato liberamente tratto dalla mia vecchia dell'aceto.... La ragione più seria è però legata alla voglia di intervenire, da storica, nella (scarsa) discussione in corso in Italia su coppie di fatto, famiglia naturale e simili. Dimostrare che nel recente passato ci sono stati vari modi di concepire i rapporti coniugali e la parentela può aiutare a non assolutizzare la forma "giusta" di fare famiglia, ad abbandonare la fiducia negli "universali" e sposare la molteplicità. Infine ha contato l'affettuosa insistenza dell'editrice: se a una giovane imprenditrice interessava pubblicarlo, doveva pur vederci qualcosa di buono.
Negli atti delittuosi delle donne che si servono del veleno, lei individua una strategia di avanzamento sociale, un'arma per modificare i propri destini. Ma era davvero l'unica a disposizione?
Certo non c'era il divorzio, ma non credo proprio che tutti i matrimoni mal riusciti avessero una soluzione obbligata nell'uccisione del partner. Piuttosto le donne che si servono della pozione a base di arsenico (manipolata e venduta da un certo farmacista per ammazzare i pidocchi e cinicamente adattata a un uso improprio da Giovanna Bonanno, vedova e mendicante, che riesce in tal modo a guadagnare) credono a quanto la "Vecchia dell'aceto" dice loro: di avere "un arcano liquore", molto più efficace di qualunque magia, buona solo a spillare denaro ai creduloni. Insomma, non è secondario che queste uxoricide (ma c'è anche un uomo che se ne serve contro la moglie) agiscano sotto una densa copertura simbolica, credono di somministrare una pozione magica e lo confessano con una ingenuità disarmante ("quel giorno preparavo la pasta con le sarde e aggiunsi un po' di aceto..."). Certo, assistono alle sofferenze lancinanti dei coniugi, spesso "si confondono", chiamano il medico al loro capezzale, vanno dalla Vecchia perché vogliono interrompere il "trattamento", ma poi si consolano facilmente, convolando a nozze con l'amante da cui hanno ottenuto i soldi per acquistare il veleno e l'assicurazione che sarebbero state sposate appena rimaste vedove.
In un recente saggio 'Dare l'anima', lo storico Adriano Prosperi, parlando di un infanticidio avvenuto agli inizi del 1700, pone l'accento sulla resistenza femminile all'autorità non solo maschile e maritale, ma anche ecclesiastica e laica. Non le pare che quel delitto abbia qualcosa a che fare con le istanze delle donne di 'Mariti e pidocchi'?
Conosco molto bene il libro in questione e lo trovo straordinario. Si tratta di un caso giudiziario contro Lucia Cremonini, una giovane serva che a Bologna nei primi anni del '700 viene stuprata da un chierico e uccide il bambino, subito dopo averlo partorito. Adriano Prosperi ricostruisce un quadro denso di conoscenze mediche, giuridiche e religiose circa l'animazione del feto, a cui senza battesimo né nome, non viene riconosciuta l'anima. Un libro importante che ha in comune con il mio – ma non vorrei sembrare presuntuosa – il fatto di basarsi su fonti giudiziarie (il tribunale del Torrone a Bologna, la Gran Corte Criminale a Palermo), la necessità di contestualizzare la documentazione nella cultura giuridica e ricostruire il più possibile la trama delle relazioni tra i personaggi per aggirare il silenzio delle fonti su quello che vorremmo sapere. Ci troviamo di fronte ad azioni valutate come reati: l'infanticidio, l'uxoricidio di cui è necessario indovinare intenzioni, motivazioni, convinzioni, andando al di là di quello che gli imputati o i testimoni dicono, mentre si difendono, accusano, chiamano in correità, si pentono, "discaricano la coscienza" prima di morire. Lucia e Giovanna sono condannate entrambe a morte in spettacoli di giustizia a cui assiste l'intera città.
L'aria illuminista che si respirava, siamo nella Palermo di fine Settecento, porta il tribunale a disconoscere, nei confronti dei delitti della vecchia dell'aceto, il maleficio e a trasformare i misfatti in veneficio, facendo intervenire così la volontà dell'attore. Ma purtroppo nulla può contro l'idea, come dice lei argutamente, che l'aggressione femminile priva l'uomo del suo potere e non può perciò essere permessa.
Mi pare che Giovanna Bonanno abbia sbagliato strategia difensiva: se fosse stata imputata di maleficio la posizione di "negare sempre", anche sotto tortura, avrebbe potuto farla prosciogliere. Ma il tribunale del Sant'Uffizio era stato abolito nel 1782 ed erano state liberate le ultime quattro donnette rinchiuse nelle prigioni, accusate di sortilegi e magie verso cui il tribunale non nutre più alcun credito. Così assume un punto di vista "scientifico", accusando la vecchia dell'aceto non di maleficio, bensì di veneficio e non crede nemmeno alle altre imputate, accusate ora di uxoricidio. Giovanna Bonanno, invece di dire che "di magarie non aveva inteso mai", avrebbe al contrario dovuto presentarsi come una fattucchiera. Ma non aveva messo in conto che il cima era cambiato e non si accendevano più roghi. In un certo senso, si celebra un processo "politico", che punisce sei donne per educarne seicento all'obbedienza e alla fedeltà coniugale. Lo scrive in altri termini un cronista dell'epoca: che le donne imparino a "non darsi in braccio ai loro amanti!".
Lei suggerisce a più riprese che la famiglia nucleare è già in crisi nel Settecento...
Io suggerisco che la famiglia si organizza in base a contesti economici, sociali, religiosi, culturali in senso lato e che le forme che assume cambiano con il tempo e quindi è difficile credere a una unica forma di famiglia; le diverse "forme coniugali" non abbiamo saputo riconoscerle perché accecati dalla presunta naturalità della famiglia composta da padre, madre e figli legittimi. L'antropologo Francesco Remoti nel suo bel libro intitolato Contro natura ne fa un utile censimento.
La famiglia-presunta-naturale sembra piuttosto l'ideale della borghesia ottocentesca, ma presuppone la donna inattiva sul mercato del lavoro e totalmente dedita alla riproduzione e alla socializzazione dei figli. Reclusa nel privato, assorbita dal lavoro domestico, pronta al sacrificio di sé per il bene del marito e dei figli. Una donna totalmente ablativa, ricompensata dall'assolvimento dei doveri e dall'esclusione dalla sfera dei diritti.
Nel '700 i comportamenti sessuali anche all'interno del matrimonio sono meno addomesticati di quanto si creda: basta guardare alle donne palermitane del popolo minuto del mio libro o alle aristocratiche circondate dai cavalier serventi del libro di Roberto Bizzochi sui Cicisbei.
È per questo che nell'introduzione 'aggancia' il problema di un processo avvenuto nel Settecento con le battaglie odierne per il riconoscimento delle coppie di fatto?
Proprio così, ma va riconosciuto oggi il pesante richiamo della chiesa cattolica su queste questioni, a difesa di una forma familiare, assediata dalle famiglie a genitore unico, dalle convivenze, dalle coppie omosessuali e dalle forme "etniche" di famiglia che l'emigrazione produce anche nel nostro paese. Abbiamo mai riflettuto che i nostri immigrati musulmani possono legalmente nel loro paese avere più mogli e volerle portare con sè? Avremo anche la poligamia tra le forme italiche di famiglia.
Forse esagero, ma il ruolo del vicinato, che lei tra l'altro sottolinea nel libro, non ricorda forse certe complicità e certi silenzi di cui spesso si parla quando abbiamo a che fare con 'questioni' mafiose?
Sì, esagera. Il vicinato diversamente da come lo concepiamo oggi, aveva ancora nel XVIII secolo un ruolo molto importante di governo di conflitti – certamente di quelli intrafamiliari – che, solo se restavano irrisolti, raggiungevano i tribunali. La transazione extragiudiziaria era tra l'altro una forma diffusa di ricomposizione di liti. Non c'è solo solidarietà nei comportamenti del vicinato, ma la pressione per il rispetto di regole condivise sulla legittimità o meno dei comportamenti; meno che mai omertà come atteggiamento diffuso e generale. Oggi definiremmo pesante intrusione nella vita privata quello che nelle città di Antico regime i vicini imponevano alle mogli adultere, alle madri che maltrattavano i figli o ai mariti cornuti.
La mafia, che ha i suoi prodromi nell'organizzazione della violenza privata all'indomani dell'abolizione della feudalità (1812), è definita sin dai primi decenni dell'Ottocento come una "associazione di malfattori" che persegue l'accumulazione della ricchezza attraverso attività illecite e delittuose (l'abigeato innanzitutto, la macellazione o la vendita di animali rubati, ecc.) e la protezione degli associati (subito distinti in esecutori, mediatori e organizzatori) grazie alla complicità dei pubblici ufficiali. L'omertà è qui la paura della ritorsione o la complicità. Niente di troppo romantico, ma soprattutto niente di attinente alla "natura" del siciliani, al loro Dna, ma solo alla loro storia recente e drammatica.
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