RACCONTI
Veronica La Peccerella
Glitch
Strade digitali, skyline di impulsi elettrici, un infinito orizzonte di possibilità.
La prima volta che abbiamo lanciato Haven, non era altro che questo, poi ha iniziato a prendere forma. All’inizio c’erano solo i canali di comunicazione: reti neurali percorse da scie luminose che schizzavano da un capo all’altro, disegnando arcobaleni fluo. Gli snodi si ingrandivano, le idee si aggregavano, finché non è arrivato l’Alveare. Ora bastava toccarci – i palmi delle mani che aderivano, gli occhi chiusi – e potevamo sconfinare l’uno nella mente dell’altra. Sotto il mio sguardo crescevano e si ricombinavano strutture architettoniche che non avrei mai saputo concepire un attimo prima, fino a cristallizzarsi in una forma perfetta. Ambienti simulati che avevano il profumo di spiagge perdute, cartelle ad albero in cui si sentiva il respiro del vento tra le foglie, codici binari che risuonavano come segreti sussurrati tra due amanti. Al ricordo, mi vengono le lacrime agli occhi, ma mi trattengo.
Lei sembra averlo notato: si tocca una tempia in un modo che conosco. Lo ha già fatto, ma non so ancora decifrarlo. Resto immobile.
“Ne sente la mancanza?”
“No... adesso sto molto meglio”. Accenno un sorriso. Di solito funziona.
Lei solleva solo un angolo della bocca e scrive alcune frasi. Non sono sicuro di averla convinta. Sta pensando, ma qualcosa non va. Un sovraccarico? Forse i dati sono troppo pesanti. Si ferma per un lungo attimo, cercando di smaltire le informazioni che ha appena acquisito, di elaborare le mie parole. Ho il tempo di sentirmi in imbarazzo, e anche di sentire affiorare la vergogna. Poi, finalmente, l’analista mi parla.
“Si è accorto di quello che ha appena fatto?”
Le rispondo con un’espressione interrogativa.
“Ha smesso di respirare”.
Tiro un sospiro di sollievo: sì, potrebbe essere.
“Le va di parlarmi del suo rapporto con Clara? Ho l’impressione che questa persona sia ancora molto presente”.
Annuisco.
Mi sono sempre chiesto come funzionino le loro macchine della verità. Non mi è molto chiara neanche la nozione di istinto, ma in questo caso sono consapevole di essermi tradito. Decido che è il momento di attivare l’empatia dell’analista. Mi sintonizzo sullo sconforto che provavo in quei giorni, quando avevo ancora paura.
“Be’, le ho già detto com’è iniziato. Il fascino che Clara esercitava su di me dipendeva anche dal mondo che le girava intorno. C’era una specie di elettricità nell’aria, come se la nostra vita insieme dovesse essere sempre una festa… e invece si è trasformata in una battaglia”.
Mi guarda con aria comprensiva: stavolta sta funzionando. “Che cosa intende? La vostra storia era un fardello troppo pesante da portare?” mi chiede solerte.
“Non lo so”. Rispondo con voce atona, fissando nel vuoto. “All’improvviso mi sono ritrovato coinvolto in qualcosa che era troppo più grande di me”.
Sta aspettando. Ricomincio daccapo, ancora una volta, perché sappia che non sono un pericolo, che sono anche io una semplice vittima del glitch.
“Clara era circondata da amici, piaceva a tutti… in quel modo che mi sembrava possibile solo da bambino, quando ti fanno credere che tutti stravedano per te, che tu abbia alle spalle una grande famiglia pronta a proteggerti. Io mi ero sempre sentito fuori posto, sia tra gli And che tra i Borg. Nella mia testa, ero quasi come un Ind, e lei era la cura. Clara conosceva le persone, e sapeva che – per quanto siano spaventate – tutte vogliono sentirsi parte di qualcosa di più grande”.
L’analista continua a scrivere e io mi fermo, tengo per me le scene migliori.
Le persone facevano la fila per comprare i test del DNA elaborati da Clara, li regalavano persino, con tanto di canzoncina di compleanno a introdurre l’operatore And che vestiva i panni dell’infallibile scienziato. Avere una genealogia era diventato un lusso, e i Borg volevano goderselo fino in fondo, anche se significava rischiare di non riconoscere più la propria Storia.
“Lei è in parte arabo, in parte spagnolo e in parte maltese”.
Credevano a ogni singola parola, fingevano imbarazzo, ridacchiavano. E Clara raccoglieva dati, li incrociava, si tuffava nel web più profondo e ne usciva stringendo in pugno le loro identità: social media, contatti, dati anagrafici, tessere sanitarie. Le davano le chiavi di quasi tutto – senza saperlo – e mentre loro si indicavano a vicenda i risultati sui rispettivi ologrammi, Clara sorrideva da dietro gli occhiali. I capelli di un prezioso biondo naturale – opportunamente raccolti in uno chignon disordinato –, le labbra piene ma infantili, gli occhi d’acquamarina, limpidi come la verità: era impossibile non fidarsi di lei.
“Come sa, non mi sono accorto di quello che stava succedendo se non quando è stato troppo tardi. Forse non ho voluto vederlo… perché ero innamorato di lei”.
“E Clara ricambiava?”
Esito. “Sinceramente, non lo so”.
La maschera di indifferenza della mia analista è attraversata, solo per un attimo, dalla compassione. Non dovrebbe essere lì, e fatico a reprimere un moto di rabbia. Ma poi ricordo che era ciò che volevo: il mio ruolo è quello del giovane manager con il cognome importante raggirato da una pericolosa sovversiva. E, in fondo, qualunque cosa Clara provasse per me, ho visto l’esatto momento in cui è finita. Quando Viola è tornata da lei, ho capito subito che erano state amanti. Il modo in cui si somigliavano – nonostante le apparenze – mi ha dato la misura di quanto fossero vicine. Guardavo Viola e ritrovavo gesti che credevo appartenessero a lei: il sorriso con cui chiudeva una battuta riuscita, il modo di darsi il ritmo con le mani mentre parlava, il tocco sul braccio con cui accorciava le distanze, il tono di voce che faceva da preludio all’intimità. Non sapevo nemmeno più chi, tra le due, fosse l’originale. Ma, in fondo, che importanza aveva? Veniamo tutti assemblati dal nostro inconscio in una notte buia e tempestosa, e non sappiamo neanche dove si sia procurato i pezzi. Persino adesso, mentre me ne sto seduto qui a fingere di voler indagare la mia interiorità – come faccio ogni lunedì mattina –, assumo una posa indolente che non mi appartiene: l’ho imparata da ragazzino, copiandola a un amico più grande che era bravo a far perdere la testa alle ragazze. Da lui ho preso anche l’abitudine ostinata di nascondermi in palestra ogni volta che mi sento fuori posto.
“Andrea, è ancora qui con me?”
“Mi scusi, ha ragione”.
“Io posso solo indicarle la soglia, ma è lei che deve varcarla”. L’analista sorride. Non ha l’aria lievemente compiaciuta di chi recita una citazione a memoria, eppure sono sicuro che sia la battuta di un film classico, anche se non ricordo più quale. Intanto, lei insiste con una metafora sportiva estratta a caso dal suo repertorio, credendola più adatta a me.
“Sa come funziona: è come se io fossi il suo personal trainer. Posso dirle di cosa ha bisogno il suo programma, di quali esercizi, di quante serie e ripetizioni… ma è lei a doverli fare”.
Respiro a fondo e poi la fisso determinato. Va bene, devo darle dei ricordi.
“C’era un’altra donna. Mora, occhi di brace e sorriso obliquo: un cliché. Viola sapeva esercitare un fascino insidioso sulle persone – anche su Clara – ma credeva sul serio nel suo progetto. Come me, voleva semplicemente investire sulla start-up. E non era la sola”.
Nessuno di noi è stato più solo, da quando siamo entrati nell’Alveare.
“Quando vi siete accorti del glitch, la prima volta?”
“Troppo tardi, come ho già detto. Inoltre, non pensavamo avesse conseguenze a lungo termine. L’unica cosa che il glitch sembrava disturbare, all’inizio, era la nozione che gli utenti avevano della propria identità, ma non c’era nulla che non andasse con i loro dati. E poi, l’idea era già stata esplorata in passato, e questa nuova tecnologia la rendeva ancora più attraente. Tra i soci della start-up c’era persino un noto game designer”.
“Sì, ho letto che era coinvolto. È l’autore di uno dei videogiochi preferiti di mio figlio”.
“Già. Anche in questo caso, lui avrebbe voluto pilotare l’esperienza, inserire una narrazione, ma Clara insisteva sull’autenticità, e noi, be’, noi non avremmo mai potuto immaginare cosa sarebbe successo”.
“Come si svolgeva il suo lavoro?”
Fingo di riflettere sulla mia risposta.
L’idea era semplice: collegare un gruppo di individui come i moduli delle intelligenze artificiali, creare una rete neurale tra di noi e, con quella, realizzare Haven. Sapevo come funzionava sul piano operativo, ma non avevo idea di come mi sarei sentito.
Avevo sistemato tutto, ogni dettaglio della mia architettura interna, ogni soprammobile della mia personalità, tenendo a mente l’idea di un’ospite perfetta, una sorta di fusione tra le donne che mi avevano spezzato il cuore. Lei si sarebbe districata con grazia nel labirinto dei miei traumi, avrebbe percorso altera le sale più imponenti del mio super-io, avvicinando il viso per osservare meglio i trofei e i ricordi di viaggio. Era tutto lì per lei, ma quella donna non era mai venuta. Invece, ecco arrivare Clara e gli altri: quelle sale vuote e fredde si erano animate all’improvviso. Nessuno badava ai dettagli minuziosamente collezionati ma, finalmente, da qualche parte era stato acceso un fuoco.
“Clara recuperava dati sul patrimonio genetico dei Borg, ritrovava le tracce dei loro antenati più interessanti: le foto pubblicate sui social media di un tempo, i video, i post, persino i documenti cartacei. Aveva formato una squadra di And di prima classe, in grado di lavorare insieme ed elaborare enormi quantità di dati. Il programma si chiamava Haven e riusciva a produrre un’esperienza davvero immersiva. Tuttavia, Clara esigeva che fosse basata sulla realtà: ogni utente doveva rivedere i luoghi da cui davvero proveniva la sua gente, i volti della sua famiglia perduta. Ma poteva anche sentire il profumo di fiori scomparsi, il richiamo di magnifici animali estinti, persino il sapore della frutta. Era un’esperienza toccante, che credevamo potesse unire le persone”.
“Lei trova che la nostra società sia divisa?”
“In effetti no, al suo interno è piuttosto unita. Il problema è che tiene fuori tutti gli altri. Tutti quelli che non sono autorizzati a varcare le frontiere: gli Ind, per l’appunto”.
Tiene fuori gli aggiornamenti, le connessioni profonde con sistemi diversi in grado di potenziarci, tiene fuori il nostro futuro.
L’analista butta giù un’altra nota sul suo taccuino.
“Le piacciono proprio questi diminutivi?”
Sorrido. “Già. Ecco una domanda che mi è stata posta più volte”.
“Ad esempio, quando?”
Vedo un’occasione per distrarla e la colgo al volo, dandole in pasto un ricordo d’infanzia: le prime cene eleganti alle quali ho accompagnato mio padre. Lo scenario era il motivo per cui ci andavo: c’erano piante ovunque, e così tanto spazio… due delle cose più preziose che avessi mai visto da vicino. All’inizio fissavo i dettagli delle sale da pranzo mentre loro parlavano a bocca piena del cibo-come-esperienza, e di quale chef meritasse i loro soldi. In sottofondo, un pianoforte jazz suonava da un vecchio impianto hi-fi, e i vecchi si commuovevano davanti alle enormi casse vintage che evocavano una giovinezza mai veramente appartenuta a loro. Il legno organico era un altro dei lussi che preferivano, soprattutto da quando ce n’era così poco. Distese di parquet scuri su cui si stagliavano divani bianchi e cuscini color crema, e poi ventilatori di legno tropicale su soffitti altissimi, e lampadari che splendevano come merletti di cristallo. A volte interrompevano i miei sogni a occhi aperti per pungolarmi con le loro domande:
“Come sono i nomignoli che usate voi ragazzi?”
“And e Borg… e poi ci sono gli Ind”.
“Dio, i giovani di oggi sembrano spaventati dalle parole, come se fossero tossiche e servissero dei diminutivi per neutralizzarle”. Mi voltai: una signora sorrideva a se stessa mentre gli altri annuivano. La riconobbi: era una professoressa. Si riteneva un’esperta quando si parlava di “ragazzi”, ma persino lei sembrava volersi ingannare sul nostro conto.
“Androidi e Borghesi: era questo che significava, no?”, chiese mio padre.
“Già, ma hai dimenticato gli Indesiderati”.
“E chi sarebbero?”, domandò la professoressa con una smorfia.
“In breve, i poveri”.
A quel punto rabbrividirono tutti insieme: forse sentivano allungarsi l’ombra di quel populismo che gli era costato decenni di regime.
“Di questi tempi, si può essere poveri solo di cultura, grazie a dio”, mi spiegò la donna. “Se solo si studiassero ancora le lettere classiche, come un tempo…”
“Uh, è arrivato il vino!”, un uomo tarchiato interruppe la professoressa con sincero entusiasmo, ma poi si ricompose. Gli amici di mio padre detestavano essere interrotti e lei non faceva eccezione. Così, sotto il suo sguardo severo, l’uomo cercò di recuperare: “Un brindisi al greco, la lingua degli angeli!”
“Perché questa scena le è rimasta così impressa?”, mi chiede l’analista.
“Perché è anche colpa loro se – dopo la crisi – i greci sono scomparsi”.
“In che senso?” Avverto una nota d’allarme nella sua voce, ma Viola mi ha ripetuto fino alla nausea che devo mettere qualche sprazzo di sincerità nella mia interpretazione, e così procedo.
“Ai Borg purosangue piacciono le lingue morte e le belle arti, ma le persone in carne e ossa… be’, quella è una questione di numeri”. Decido di fermarmi qui. È infastidita.
“Crede che queste persone facciano differenza anche tra voi e loro?”
“Forse no. Preferiscono dimenticare che siamo stati costruiti. In fondo, anche il parto era poco sostenibile e – tecnicamente – non c’è più alcuna differenza tra un nuborn e un neonato, a parte la nascita, s’intende”.
“E allora, perché è così arrabbiato con loro?”
Perché l’hanno uccisa. Perché sono così consumati dall’egoismo che non hanno più niente di umano. Perché farebbero lo stesso a me, se solo sapessero la verità.
“Oh, ma io non sono arrabbiato con loro, non più”.
L’analista scrive qualcos’altro sul suo taccuino. È di pelle vera. Come tutti i Borg, ama circondarsi di oggetti d’epoca, che vengono da un mondo appartenuto solo a loro. Per fortuna, condividono anche la limitata capacità di individuare le menzogne di un And. Cerco di ricordarlo, cerco di rilassarmi.
“So che mio padre mi vuole bene come se fossi un figlio biologico. So anche che nella nostra società non c’è più alcuna differenza tra Borg e And di prima classe. Sono solo nomignoli infantili, e forse era puerile anche sperare che un giorno gli ‘Indesiderati’ smettessero di essere tali”.
L’analista mi sorride con aria materna. In fondo mi conosce, sa che sono un bravo ragazzo.
“È un’aspirazione nobile da parte sua. Sarebbe bello poter accogliere tutti ma – come sappiamo – non è realistico”.
Annuisco convinto, ma lei non molla.
“Peccato che la sua amica non la pensasse così”.
“La mia amica ha fatto molti errori”.
“Adesso che è passato un po’ di tempo, si rende conto che non c’era altra scelta che…”
“Staccarle la spina?”
L’analista rimane interdetta davanti a un’espressione che molti And troverebbero offensiva, ma poi decide di sorridere complice. Io ricambio.
“Sì, non credo ci fosse altra soluzione. Anzi, nonostante il glitch fosse del tutto imprevedibile, mi sento in colpa per il caos che ha prodotto. Tutti quei dati personali cancellati, le code ai controlli di sicurezza... persino gli scontri con la polizia”.
“Oltre ai danni morali. Come lei, Andrea, in molti hanno corso il rischio di un esaurimento. Anzi, c’è chi ha descritto il glitch come un attentato, un attacco specificamente rivolto ai Borg, visto che sono gli unici ad avere degli antenati in senso stretto”.
Giusto, la Storia sono loro, non i figli nuborn nati in laboratorio e potenziati dalla tecnologia. Ci hanno voluti diversi, ci hanno messi al mondo con orgoglio e poi hanno avuto paura che non gli somigliassimo abbastanza. “È necessario rinunciare a una parte di libertà, in cambio della sicurezza”. Rivedo il senso di colpa sul viso di mio padre mentre ripeteva le parole con cui lo avevano convinto a farmi installare la nuova ID.
“Mi creda, è stato un brutto risveglio per me, ma adesso io e gli altri soci faremo di tutto per rimediare”. Kaden, ad esempio, che è noto per i suoi videogiochi, ma è in grado di scrivere qualunque codice. O di violarlo.
L’analista guarda l’orologio: il nostro tempo è scaduto.
“Ci vediamo la prossima settimana”.
Non è una domanda, ma la risposta è no. Sto per prendere un aereo, prima che sia troppo tardi. Prima che il glitch cancelli l’ID di centinaia di migliaia di persone, intrappolandole ai confini, rendendo impossibile varcarli, ma anche tornare indietro. Sto per sedermi davanti a uno schermo insieme ai miei soci, a guardare cosa accadrà quando Haven manderà in crash l’intero sistema di accesso, finendo il lavoro di Clara. Il nostro lavoro. Mentre la loro Storia… è diventata un fardello troppo pesante da portare: l’analista ha ragione. È a questo che penso quando le sorrido per l’ultima volta.
La prima volta che abbiamo lanciato Haven, non era altro che questo, poi ha iniziato a prendere forma. All’inizio c’erano solo i canali di comunicazione: reti neurali percorse da scie luminose che schizzavano da un capo all’altro, disegnando arcobaleni fluo. Gli snodi si ingrandivano, le idee si aggregavano, finché non è arrivato l’Alveare. Ora bastava toccarci – i palmi delle mani che aderivano, gli occhi chiusi – e potevamo sconfinare l’uno nella mente dell’altra. Sotto il mio sguardo crescevano e si ricombinavano strutture architettoniche che non avrei mai saputo concepire un attimo prima, fino a cristallizzarsi in una forma perfetta. Ambienti simulati che avevano il profumo di spiagge perdute, cartelle ad albero in cui si sentiva il respiro del vento tra le foglie, codici binari che risuonavano come segreti sussurrati tra due amanti. Al ricordo, mi vengono le lacrime agli occhi, ma mi trattengo.
Lei sembra averlo notato: si tocca una tempia in un modo che conosco. Lo ha già fatto, ma non so ancora decifrarlo. Resto immobile.
“Ne sente la mancanza?”
“No... adesso sto molto meglio”. Accenno un sorriso. Di solito funziona.
Lei solleva solo un angolo della bocca e scrive alcune frasi. Non sono sicuro di averla convinta. Sta pensando, ma qualcosa non va. Un sovraccarico? Forse i dati sono troppo pesanti. Si ferma per un lungo attimo, cercando di smaltire le informazioni che ha appena acquisito, di elaborare le mie parole. Ho il tempo di sentirmi in imbarazzo, e anche di sentire affiorare la vergogna. Poi, finalmente, l’analista mi parla.
“Si è accorto di quello che ha appena fatto?”
Le rispondo con un’espressione interrogativa.
“Ha smesso di respirare”.
Tiro un sospiro di sollievo: sì, potrebbe essere.
“Le va di parlarmi del suo rapporto con Clara? Ho l’impressione che questa persona sia ancora molto presente”.
Annuisco.
Mi sono sempre chiesto come funzionino le loro macchine della verità. Non mi è molto chiara neanche la nozione di istinto, ma in questo caso sono consapevole di essermi tradito. Decido che è il momento di attivare l’empatia dell’analista. Mi sintonizzo sullo sconforto che provavo in quei giorni, quando avevo ancora paura.
“Be’, le ho già detto com’è iniziato. Il fascino che Clara esercitava su di me dipendeva anche dal mondo che le girava intorno. C’era una specie di elettricità nell’aria, come se la nostra vita insieme dovesse essere sempre una festa… e invece si è trasformata in una battaglia”.
Mi guarda con aria comprensiva: stavolta sta funzionando. “Che cosa intende? La vostra storia era un fardello troppo pesante da portare?” mi chiede solerte.
“Non lo so”. Rispondo con voce atona, fissando nel vuoto. “All’improvviso mi sono ritrovato coinvolto in qualcosa che era troppo più grande di me”.
Sta aspettando. Ricomincio daccapo, ancora una volta, perché sappia che non sono un pericolo, che sono anche io una semplice vittima del glitch.
“Clara era circondata da amici, piaceva a tutti… in quel modo che mi sembrava possibile solo da bambino, quando ti fanno credere che tutti stravedano per te, che tu abbia alle spalle una grande famiglia pronta a proteggerti. Io mi ero sempre sentito fuori posto, sia tra gli And che tra i Borg. Nella mia testa, ero quasi come un Ind, e lei era la cura. Clara conosceva le persone, e sapeva che – per quanto siano spaventate – tutte vogliono sentirsi parte di qualcosa di più grande”.
L’analista continua a scrivere e io mi fermo, tengo per me le scene migliori.
Le persone facevano la fila per comprare i test del DNA elaborati da Clara, li regalavano persino, con tanto di canzoncina di compleanno a introdurre l’operatore And che vestiva i panni dell’infallibile scienziato. Avere una genealogia era diventato un lusso, e i Borg volevano goderselo fino in fondo, anche se significava rischiare di non riconoscere più la propria Storia.
“Lei è in parte arabo, in parte spagnolo e in parte maltese”.
Credevano a ogni singola parola, fingevano imbarazzo, ridacchiavano. E Clara raccoglieva dati, li incrociava, si tuffava nel web più profondo e ne usciva stringendo in pugno le loro identità: social media, contatti, dati anagrafici, tessere sanitarie. Le davano le chiavi di quasi tutto – senza saperlo – e mentre loro si indicavano a vicenda i risultati sui rispettivi ologrammi, Clara sorrideva da dietro gli occhiali. I capelli di un prezioso biondo naturale – opportunamente raccolti in uno chignon disordinato –, le labbra piene ma infantili, gli occhi d’acquamarina, limpidi come la verità: era impossibile non fidarsi di lei.
“Come sa, non mi sono accorto di quello che stava succedendo se non quando è stato troppo tardi. Forse non ho voluto vederlo… perché ero innamorato di lei”.
“E Clara ricambiava?”
Esito. “Sinceramente, non lo so”.
La maschera di indifferenza della mia analista è attraversata, solo per un attimo, dalla compassione. Non dovrebbe essere lì, e fatico a reprimere un moto di rabbia. Ma poi ricordo che era ciò che volevo: il mio ruolo è quello del giovane manager con il cognome importante raggirato da una pericolosa sovversiva. E, in fondo, qualunque cosa Clara provasse per me, ho visto l’esatto momento in cui è finita. Quando Viola è tornata da lei, ho capito subito che erano state amanti. Il modo in cui si somigliavano – nonostante le apparenze – mi ha dato la misura di quanto fossero vicine. Guardavo Viola e ritrovavo gesti che credevo appartenessero a lei: il sorriso con cui chiudeva una battuta riuscita, il modo di darsi il ritmo con le mani mentre parlava, il tocco sul braccio con cui accorciava le distanze, il tono di voce che faceva da preludio all’intimità. Non sapevo nemmeno più chi, tra le due, fosse l’originale. Ma, in fondo, che importanza aveva? Veniamo tutti assemblati dal nostro inconscio in una notte buia e tempestosa, e non sappiamo neanche dove si sia procurato i pezzi. Persino adesso, mentre me ne sto seduto qui a fingere di voler indagare la mia interiorità – come faccio ogni lunedì mattina –, assumo una posa indolente che non mi appartiene: l’ho imparata da ragazzino, copiandola a un amico più grande che era bravo a far perdere la testa alle ragazze. Da lui ho preso anche l’abitudine ostinata di nascondermi in palestra ogni volta che mi sento fuori posto.
“Andrea, è ancora qui con me?”
“Mi scusi, ha ragione”.
“Io posso solo indicarle la soglia, ma è lei che deve varcarla”. L’analista sorride. Non ha l’aria lievemente compiaciuta di chi recita una citazione a memoria, eppure sono sicuro che sia la battuta di un film classico, anche se non ricordo più quale. Intanto, lei insiste con una metafora sportiva estratta a caso dal suo repertorio, credendola più adatta a me.
“Sa come funziona: è come se io fossi il suo personal trainer. Posso dirle di cosa ha bisogno il suo programma, di quali esercizi, di quante serie e ripetizioni… ma è lei a doverli fare”.
Respiro a fondo e poi la fisso determinato. Va bene, devo darle dei ricordi.
“C’era un’altra donna. Mora, occhi di brace e sorriso obliquo: un cliché. Viola sapeva esercitare un fascino insidioso sulle persone – anche su Clara – ma credeva sul serio nel suo progetto. Come me, voleva semplicemente investire sulla start-up. E non era la sola”.
Nessuno di noi è stato più solo, da quando siamo entrati nell’Alveare.
“Quando vi siete accorti del glitch, la prima volta?”
“Troppo tardi, come ho già detto. Inoltre, non pensavamo avesse conseguenze a lungo termine. L’unica cosa che il glitch sembrava disturbare, all’inizio, era la nozione che gli utenti avevano della propria identità, ma non c’era nulla che non andasse con i loro dati. E poi, l’idea era già stata esplorata in passato, e questa nuova tecnologia la rendeva ancora più attraente. Tra i soci della start-up c’era persino un noto game designer”.
“Sì, ho letto che era coinvolto. È l’autore di uno dei videogiochi preferiti di mio figlio”.
“Già. Anche in questo caso, lui avrebbe voluto pilotare l’esperienza, inserire una narrazione, ma Clara insisteva sull’autenticità, e noi, be’, noi non avremmo mai potuto immaginare cosa sarebbe successo”.
“Come si svolgeva il suo lavoro?”
Fingo di riflettere sulla mia risposta.
L’idea era semplice: collegare un gruppo di individui come i moduli delle intelligenze artificiali, creare una rete neurale tra di noi e, con quella, realizzare Haven. Sapevo come funzionava sul piano operativo, ma non avevo idea di come mi sarei sentito.
Avevo sistemato tutto, ogni dettaglio della mia architettura interna, ogni soprammobile della mia personalità, tenendo a mente l’idea di un’ospite perfetta, una sorta di fusione tra le donne che mi avevano spezzato il cuore. Lei si sarebbe districata con grazia nel labirinto dei miei traumi, avrebbe percorso altera le sale più imponenti del mio super-io, avvicinando il viso per osservare meglio i trofei e i ricordi di viaggio. Era tutto lì per lei, ma quella donna non era mai venuta. Invece, ecco arrivare Clara e gli altri: quelle sale vuote e fredde si erano animate all’improvviso. Nessuno badava ai dettagli minuziosamente collezionati ma, finalmente, da qualche parte era stato acceso un fuoco.
“Clara recuperava dati sul patrimonio genetico dei Borg, ritrovava le tracce dei loro antenati più interessanti: le foto pubblicate sui social media di un tempo, i video, i post, persino i documenti cartacei. Aveva formato una squadra di And di prima classe, in grado di lavorare insieme ed elaborare enormi quantità di dati. Il programma si chiamava Haven e riusciva a produrre un’esperienza davvero immersiva. Tuttavia, Clara esigeva che fosse basata sulla realtà: ogni utente doveva rivedere i luoghi da cui davvero proveniva la sua gente, i volti della sua famiglia perduta. Ma poteva anche sentire il profumo di fiori scomparsi, il richiamo di magnifici animali estinti, persino il sapore della frutta. Era un’esperienza toccante, che credevamo potesse unire le persone”.
“Lei trova che la nostra società sia divisa?”
“In effetti no, al suo interno è piuttosto unita. Il problema è che tiene fuori tutti gli altri. Tutti quelli che non sono autorizzati a varcare le frontiere: gli Ind, per l’appunto”.
Tiene fuori gli aggiornamenti, le connessioni profonde con sistemi diversi in grado di potenziarci, tiene fuori il nostro futuro.
L’analista butta giù un’altra nota sul suo taccuino.
“Le piacciono proprio questi diminutivi?”
Sorrido. “Già. Ecco una domanda che mi è stata posta più volte”.
“Ad esempio, quando?”
Vedo un’occasione per distrarla e la colgo al volo, dandole in pasto un ricordo d’infanzia: le prime cene eleganti alle quali ho accompagnato mio padre. Lo scenario era il motivo per cui ci andavo: c’erano piante ovunque, e così tanto spazio… due delle cose più preziose che avessi mai visto da vicino. All’inizio fissavo i dettagli delle sale da pranzo mentre loro parlavano a bocca piena del cibo-come-esperienza, e di quale chef meritasse i loro soldi. In sottofondo, un pianoforte jazz suonava da un vecchio impianto hi-fi, e i vecchi si commuovevano davanti alle enormi casse vintage che evocavano una giovinezza mai veramente appartenuta a loro. Il legno organico era un altro dei lussi che preferivano, soprattutto da quando ce n’era così poco. Distese di parquet scuri su cui si stagliavano divani bianchi e cuscini color crema, e poi ventilatori di legno tropicale su soffitti altissimi, e lampadari che splendevano come merletti di cristallo. A volte interrompevano i miei sogni a occhi aperti per pungolarmi con le loro domande:
“Come sono i nomignoli che usate voi ragazzi?”
“And e Borg… e poi ci sono gli Ind”.
“Dio, i giovani di oggi sembrano spaventati dalle parole, come se fossero tossiche e servissero dei diminutivi per neutralizzarle”. Mi voltai: una signora sorrideva a se stessa mentre gli altri annuivano. La riconobbi: era una professoressa. Si riteneva un’esperta quando si parlava di “ragazzi”, ma persino lei sembrava volersi ingannare sul nostro conto.
“Androidi e Borghesi: era questo che significava, no?”, chiese mio padre.
“Già, ma hai dimenticato gli Indesiderati”.
“E chi sarebbero?”, domandò la professoressa con una smorfia.
“In breve, i poveri”.
A quel punto rabbrividirono tutti insieme: forse sentivano allungarsi l’ombra di quel populismo che gli era costato decenni di regime.
“Di questi tempi, si può essere poveri solo di cultura, grazie a dio”, mi spiegò la donna. “Se solo si studiassero ancora le lettere classiche, come un tempo…”
“Uh, è arrivato il vino!”, un uomo tarchiato interruppe la professoressa con sincero entusiasmo, ma poi si ricompose. Gli amici di mio padre detestavano essere interrotti e lei non faceva eccezione. Così, sotto il suo sguardo severo, l’uomo cercò di recuperare: “Un brindisi al greco, la lingua degli angeli!”
“Perché questa scena le è rimasta così impressa?”, mi chiede l’analista.
“Perché è anche colpa loro se – dopo la crisi – i greci sono scomparsi”.
“In che senso?” Avverto una nota d’allarme nella sua voce, ma Viola mi ha ripetuto fino alla nausea che devo mettere qualche sprazzo di sincerità nella mia interpretazione, e così procedo.
“Ai Borg purosangue piacciono le lingue morte e le belle arti, ma le persone in carne e ossa… be’, quella è una questione di numeri”. Decido di fermarmi qui. È infastidita.
“Crede che queste persone facciano differenza anche tra voi e loro?”
“Forse no. Preferiscono dimenticare che siamo stati costruiti. In fondo, anche il parto era poco sostenibile e – tecnicamente – non c’è più alcuna differenza tra un nuborn e un neonato, a parte la nascita, s’intende”.
“E allora, perché è così arrabbiato con loro?”
Perché l’hanno uccisa. Perché sono così consumati dall’egoismo che non hanno più niente di umano. Perché farebbero lo stesso a me, se solo sapessero la verità.
“Oh, ma io non sono arrabbiato con loro, non più”.
L’analista scrive qualcos’altro sul suo taccuino. È di pelle vera. Come tutti i Borg, ama circondarsi di oggetti d’epoca, che vengono da un mondo appartenuto solo a loro. Per fortuna, condividono anche la limitata capacità di individuare le menzogne di un And. Cerco di ricordarlo, cerco di rilassarmi.
“So che mio padre mi vuole bene come se fossi un figlio biologico. So anche che nella nostra società non c’è più alcuna differenza tra Borg e And di prima classe. Sono solo nomignoli infantili, e forse era puerile anche sperare che un giorno gli ‘Indesiderati’ smettessero di essere tali”.
L’analista mi sorride con aria materna. In fondo mi conosce, sa che sono un bravo ragazzo.
“È un’aspirazione nobile da parte sua. Sarebbe bello poter accogliere tutti ma – come sappiamo – non è realistico”.
Annuisco convinto, ma lei non molla.
“Peccato che la sua amica non la pensasse così”.
“La mia amica ha fatto molti errori”.
“Adesso che è passato un po’ di tempo, si rende conto che non c’era altra scelta che…”
“Staccarle la spina?”
L’analista rimane interdetta davanti a un’espressione che molti And troverebbero offensiva, ma poi decide di sorridere complice. Io ricambio.
“Sì, non credo ci fosse altra soluzione. Anzi, nonostante il glitch fosse del tutto imprevedibile, mi sento in colpa per il caos che ha prodotto. Tutti quei dati personali cancellati, le code ai controlli di sicurezza... persino gli scontri con la polizia”.
“Oltre ai danni morali. Come lei, Andrea, in molti hanno corso il rischio di un esaurimento. Anzi, c’è chi ha descritto il glitch come un attentato, un attacco specificamente rivolto ai Borg, visto che sono gli unici ad avere degli antenati in senso stretto”.
Giusto, la Storia sono loro, non i figli nuborn nati in laboratorio e potenziati dalla tecnologia. Ci hanno voluti diversi, ci hanno messi al mondo con orgoglio e poi hanno avuto paura che non gli somigliassimo abbastanza. “È necessario rinunciare a una parte di libertà, in cambio della sicurezza”. Rivedo il senso di colpa sul viso di mio padre mentre ripeteva le parole con cui lo avevano convinto a farmi installare la nuova ID.
“Mi creda, è stato un brutto risveglio per me, ma adesso io e gli altri soci faremo di tutto per rimediare”. Kaden, ad esempio, che è noto per i suoi videogiochi, ma è in grado di scrivere qualunque codice. O di violarlo.
L’analista guarda l’orologio: il nostro tempo è scaduto.
“Ci vediamo la prossima settimana”.
Non è una domanda, ma la risposta è no. Sto per prendere un aereo, prima che sia troppo tardi. Prima che il glitch cancelli l’ID di centinaia di migliaia di persone, intrappolandole ai confini, rendendo impossibile varcarli, ma anche tornare indietro. Sto per sedermi davanti a uno schermo insieme ai miei soci, a guardare cosa accadrà quando Haven manderà in crash l’intero sistema di accesso, finendo il lavoro di Clara. Il nostro lavoro. Mentre la loro Storia… è diventata un fardello troppo pesante da portare: l’analista ha ragione. È a questo che penso quando le sorrido per l’ultima volta.
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