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Il Paradiso degli Orchi
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ATTUALITA'

Giovanna Repetto

Hirst. La crudeltà dell’immaginario

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Può piacere o non piacere, ma l’indifferenza non è prevista.
Dal momento in cui entri sei coinvolto. Ti sorprende, e quasi ti offende. Una beffa ordita con inusitata sfacciataggine e dovizia di mezzi. Un tesoro sprofondato nell’Oceano Indiano nel primo secolo dopo Cristo e ritrovato nel 2008, e che però comprende un calendario Maya e poi, ancor più beffarde, le statue di Mickey Mouse e di altri personaggi dei fumetti, debitamente incrostate di molluschi e alghe (tutto finto, tutto rigorosamente finto) come a consacrare un paradosso temporale che è insieme mistificazione e grossolano disvelamento. E ci sono i filmati che ricostruiscono gli scavi e i ritrovamenti sul fondale marino, con vero mare, e navi, e veri sommozzatori elevati a officianti di un rito. È messa in scena, teatro, provocazione e gioco macabro. C’è perfino un modellino della nave Apistos (Incredibile) salpata con i tesori del liberto Amotan di Antiochia, e naufragata con il suo ventre pieno di tesori.
   La mostra Treasures from the Wreck of the Unbelivable, allestita a Venezia dal 9 aprile al 3 dicembre 2017 fra palazzo Grassi e Punta della Dogana, offre un catalogo che è uno sfacciato gioco del “come se”, con tanto di spiegazioni e ipotesi intrise di verità e affabulazione. Con disarmante innocenza dichiara:
   Alcune delle sculture sono esposte prima di aver subito qualsiasi intervento di restauro, coperte da pesanti incrostazioni di corallo e altre concrezioni marine che talvolta ne rendono la forma praticamente irriconoscibile.
   Salvo che poi fra i materiali utilizzati nelle singole opere sono elencati fra l’altro alluminio, silicone, poliestere, acrilico. A dire il vero non mancano il marmo, il bronzo, e perfino l’oro, l’argento e le pietre preziose.
   Hirst si è divertito a ricreare, accanto alle colossali statue, perfino monete, oggetti comuni e piccoli gioielli, accuratamente antichizzati per raffigurare, oltre alla materia, il tempo. Metalli deformati e corrosi, pettini senza rebbi, anelli spezzati. Un gioco meticoloso e perverso da cui il visitatore è (perfino suo malgrado) affascinato.
   La quantità delle opere è impressionante, anche perché alcune sono riprodotte in copie di diversi materiali e diverso stato di conservazione, a suggerire improbabili raffronti.
   Fin qui il gioco, il rompicapo, la sfida impudente. Ma non è tutto. C’è qualcosa che unisce quelle opere così disparate: un senso, un contenuto, un’atmosfera quasi palpabile che inquieta e prende alla gola. È il fascino di una crudeltà antica e ineluttabile, quasi l’illustrazione di una teoria evoluzionistica parallela a quella dell’evoluzione naturale. È una storia di dèi ostili, di animali mostruosi, di guerrieri e schiavi accomunati da un destino di dissoluzione che li trasforma in altro da sé: l’azione (immaginata) del mare ha alterato i contorni già spezzati dalla furia del naufragio. Il disastro ha punito la hybris del forsennato progetto del liberto Amotan, ne ha disperso il tesoro e ha poi chiamato a raccolta i pezzi devastati come corpi in attesa di un giudizio universale in cui la bellezza offesa si ripropone come colpa e condanna. Da vedere assolutamente.



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