ATTUALITA'
Stefano Torossi
I piaceri della terrazza
Secondo una leggenda, che nella nostra infanzia avevamo trovato sulla gloriosa Enciclopedia dei Ragazzi (che temiamo sia stata smentita da successivi studi più accurati, e ce n’è stato tutto il tempo, data l’arcaicità del riferimento temporale), i lemming, una specie di criceti scandinavi, quando si accorgono che ci sono più bocche da sfamare che lattuga a disposizione, formano un gruppone che si mette agli ordini di un capo (un lemming alto commissario per la sanità) il quale li porta sull’orlo di una scogliera e da lì si butta di sotto seguito da tutti i presenti, in un suicidio globale che risolve l’emergenza.
L’impressione che ci faceva questa accettazione ubbidiente del sacrificio per il bene della comunità!
Allora eravamo assolutamente all’oscuro dei meccanismi di sopravvivenza della specie, come lo siamo ora su quelli di controllo di una pandemia, eppure la sera quando ci affacciamo alla finestra di casa e non un motore, non una musica, non una voce rompe lo spettrale silenzio di quella che eravamo abituati a considerare (e adesso ci par di ricordarla con una certa nostalgia) una zona di movida fracassona e tiratardi, ci viene naturale stabilire un rapporto con la strategia salvaspecie dei lemming. Come loro, gli esseri umani sembrano rassegnati a seguire gli ordini senza farsi domande: anzi, quasi contenti di essere stati messi in castigo.
Dovremmo saperlo che questa morte civile alla quale tutti i romani si sottopongono con un inaspettato senso del dovere, è l’unico modo per sconfiggere il male, eppure la sensazione del suicidio globale comandato continua a fare capolino nelle inevitabili riflessioni che ci risveglia questa situazione del tutto inaspettata non solo per noi, ma anche per i sette miliardi (troppi) che siamo.
E, al di là del gesto terapeutico, ipotesi fantascientifica che come tale è un fatto astratto, basta rifletterci un po’ e subito emerge qualcosa di molto più concreto: il pensiero della morte non del gruppo a cui apparteniamo, ma nostra personale.
Questo la sera, e ancora di più la notte, i momenti in cui non si è distratti da niente e gli incubi fanno carosello nel nostro cranio in totale sfrenatezza.
Di giorno, invece, c’è il sole, ci sono le prime brezze profumate, c’è la passeggiata da fare, da quei bravi bambini che siamo diventati, con mascherina e autocertificazione pronta, fino al giornalaio perché la lettura del quotidiano davanti a un cappuccino deve essere mantenuta come una delle poche abitudini adulte di civiltà; c’è il ritorno a casa facendo il giro largo, stavolta da bravi malatini immaginari, con una ricetta in tasca come giustificazione in caso di controlli. E, risalite le scale a piedi (utile esercizio), ci si lava per bene le mani, si prepara la bevanda di conforto e finalmente…
Si va in terrazza! Il paradiso dei reclusi del ventunesimo secolo.
Per evitare gli insulti che già ci sentiamo piombare addosso, vogliamo dichiararci umilmente consapevoli della fortuna che ci sfiora, di avercela una terrazza, in questa drammatica circostanza, che per pura coincidenza si verifica nella stagione più giusta per stare all’aperto.
Mai avevamo dedicato tanta attenzione ai nostri vasi, dove, come ogni primavera, anche in questo periodo spunta, seguendo il suo indifferente calendario, quello che abbiamo distrattamente seminato a suo tempo.
Solo in queste lunghe ore solitarie capiamo i minuscoli germogli dei peperoncini che si affacciano dalla terra, le rose che inalberano improbabili rigonfiamenti verdi che diventeranno fiori. C’è perfino questo meraviglioso bombolone di cactus che evidentemente sta faticando da qualche mese per diventare così bello, e noi neanche ce n’eravamo accorti.
Ecco, verso mezzogiorno, tutto quello che di notte era spettrale diventa sereno. Non passa un’auto, le voci sono diradate e così l’abbaiare dei cani che sembrano compresi della situazione e neanche litigano. E poi si sente la brezza! Il mormorio delle fronde (abbiamo degli alberelli sempreverdi), neanche fossimo sul promontorio della Maga Circe a farci stordire dal profumo del rosmarino (c’è anche quello: una bella pianta annosa e contorta).
Diciamolo sottovoce per non tradirci: una situazione veramente idilliaca.
L’impressione che ci faceva questa accettazione ubbidiente del sacrificio per il bene della comunità!
Allora eravamo assolutamente all’oscuro dei meccanismi di sopravvivenza della specie, come lo siamo ora su quelli di controllo di una pandemia, eppure la sera quando ci affacciamo alla finestra di casa e non un motore, non una musica, non una voce rompe lo spettrale silenzio di quella che eravamo abituati a considerare (e adesso ci par di ricordarla con una certa nostalgia) una zona di movida fracassona e tiratardi, ci viene naturale stabilire un rapporto con la strategia salvaspecie dei lemming. Come loro, gli esseri umani sembrano rassegnati a seguire gli ordini senza farsi domande: anzi, quasi contenti di essere stati messi in castigo.
Dovremmo saperlo che questa morte civile alla quale tutti i romani si sottopongono con un inaspettato senso del dovere, è l’unico modo per sconfiggere il male, eppure la sensazione del suicidio globale comandato continua a fare capolino nelle inevitabili riflessioni che ci risveglia questa situazione del tutto inaspettata non solo per noi, ma anche per i sette miliardi (troppi) che siamo.
E, al di là del gesto terapeutico, ipotesi fantascientifica che come tale è un fatto astratto, basta rifletterci un po’ e subito emerge qualcosa di molto più concreto: il pensiero della morte non del gruppo a cui apparteniamo, ma nostra personale.
Questo la sera, e ancora di più la notte, i momenti in cui non si è distratti da niente e gli incubi fanno carosello nel nostro cranio in totale sfrenatezza.
Di giorno, invece, c’è il sole, ci sono le prime brezze profumate, c’è la passeggiata da fare, da quei bravi bambini che siamo diventati, con mascherina e autocertificazione pronta, fino al giornalaio perché la lettura del quotidiano davanti a un cappuccino deve essere mantenuta come una delle poche abitudini adulte di civiltà; c’è il ritorno a casa facendo il giro largo, stavolta da bravi malatini immaginari, con una ricetta in tasca come giustificazione in caso di controlli. E, risalite le scale a piedi (utile esercizio), ci si lava per bene le mani, si prepara la bevanda di conforto e finalmente…
Si va in terrazza! Il paradiso dei reclusi del ventunesimo secolo.
Per evitare gli insulti che già ci sentiamo piombare addosso, vogliamo dichiararci umilmente consapevoli della fortuna che ci sfiora, di avercela una terrazza, in questa drammatica circostanza, che per pura coincidenza si verifica nella stagione più giusta per stare all’aperto.
Mai avevamo dedicato tanta attenzione ai nostri vasi, dove, come ogni primavera, anche in questo periodo spunta, seguendo il suo indifferente calendario, quello che abbiamo distrattamente seminato a suo tempo.
Solo in queste lunghe ore solitarie capiamo i minuscoli germogli dei peperoncini che si affacciano dalla terra, le rose che inalberano improbabili rigonfiamenti verdi che diventeranno fiori. C’è perfino questo meraviglioso bombolone di cactus che evidentemente sta faticando da qualche mese per diventare così bello, e noi neanche ce n’eravamo accorti.
Ecco, verso mezzogiorno, tutto quello che di notte era spettrale diventa sereno. Non passa un’auto, le voci sono diradate e così l’abbaiare dei cani che sembrano compresi della situazione e neanche litigano. E poi si sente la brezza! Il mormorio delle fronde (abbiamo degli alberelli sempreverdi), neanche fossimo sul promontorio della Maga Circe a farci stordire dal profumo del rosmarino (c’è anche quello: una bella pianta annosa e contorta).
Diciamolo sottovoce per non tradirci: una situazione veramente idilliaca.
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