RACCONTI
Federico Ligotti
Il peggio è passato
Il dolore scorreva via tranquillo, ma la scorza dura, la parte consistente del male c'era ancora.
Fra 37 e 37.3 di febbre, si sa, non passa troppa differenza. Ogni 28 giorni, ogni periodo di lunazione; eppure le sue cose erano già venute. E allora cosa poteva essere quel sottile scampanio che pareva segarle la testa in due? Maria De Febbri non riusciva proprio a capire.
Era un lungo e desolato pomeriggio settembrino che sembrava non richiedere troppi perché, troppi ma e si vedrà. Suonò, lungo e secco, l'ottone smaltato del campanello. Maria De Febbri si stiracchiò, il tempo di riprendere contatto con la realtà d'intorno, poi compì un semi-giro sulle lenzuola e inforcò le De Fonseca. Avvertiva quel senso di pesantezza e caldo straniamento di una febbriciattola da mezza-stagione; ciononostante, riuscì a raggiungere il portone e ad aprire. Lungo la veranda, nessuno. Fu colta di trasalimento. Come nessuno? Basita, Maria De Febbri rimase tre secondi a pensare. E in quei 180 decimi di porzione temporale, Maria De Febbri apparve per la prima volta estranea a se stessa. Estranea come se non avesse mai conosciuto prima d'ora il suo corpo; estranea come un'ombra sbiadita sul selciato bagnato di sole. Improvvisamente, la testa non picchiettava più: il chiodo da Inquisizione che le perlustrava la tempia non si stava più facendo sentire. Le assi del tetto sul porticato della veranda scintillavano lucide, come quattro piroloni di ferro nuovissimo, fresco fresco di accaieria. Perfino gli odiosi rampicanti che sorreggevano le proprie impalpabili vite di vegetali su quegli assi una volta marciti per l'umido, potevano tranquillamente dirsi scomparsi. Dissolti nel campo spaziale di quella casa di campagna nei pressi della ferrovia, località Ponte Galeria. Casa bella ma sfiorita con l'uso, o meglio il non-uso di un solo inquilino.
Lei, Maria De Febbri, da giorni alle prese con un malessere d'altri tempi, di altra tempra. Dell'altro mondo, forse. Ora, si sentiva veramente sola, stranita per il vuoto lungo che le correva davanti.
E dire che quell'abitazione le era venuta a costare due soldi, dopo che suo marito era scomparso, nel senso che il corpo non fu più trovato, in seguito al solito incidente occorso sul lavoro. Travolto inspiegabilmente da un treno lanciato ad alta velocità: quel giorno i casellanti erano in sciopero, e il passaggio di nessuna linea ferroviaria era previsto per quel giorno, martedì 13 novembre del 1966.
Maria De Febbri dunque aveva scelto una vita di tutto riposo, da eremita quasi. All'epoca era ancora una bella donna, ma qualcosa di dentro, come un polipetto staccatosi da un tentacolo di Medusa fatale, le aveva continuato a bruciare nel corso degli anni. E, c'era da scommetterlo, a trent'anni dal decesso tragico del consorte, le bruciava ancora: impedendole di risposarsi, di rifarsi una vita, di conoscere altra gente, di procurarsi svago, puro e semplice divertimento. Correva l'anno 1996, e Maria De Febbri non riusciva più a correre, a camminare con scioltezza. Con sempre maggiore difficoltà era in grado di alzarsi dal talamo, dove un inossidabile e angarioso fantasma aveva da tempo deciso di inchiodarla. Già, i fantasmi; ma torniamo al discorso sull'abitazione a due piani in aperta campagna di periferia romana, trasformatosi nell'arco di un trentennio nell'ostello di chissà quale oscura penitenza per l'ormai ultracinquantenne Maria De Febbri.
Ebbene, nei primi anni sessanta si narrava che quella casa fosse infestata dai demoni, che uno spiritello allucinoforo e terribile la governasse. Addirittura, pare che la famiglia di inquilini prima di Maria De Febbri l'avesse, tutt'a un tratto, abbandonata. Lasciata così com'era, chiusa a chiave e con le ante delle finestre mezze socchiuse. Sola e in balia del vento, delle spighe di granturco pronte per la falce e del puzzo della chiavica adagiata sugli argini di un fossato nei pressi dello scalo ferroviario. Dei vecchi inquilini, nessun corriere riportò notizie.
Maria De Febbri, lei no, non si sarebbe mai e poi mai piegata alla legge dell'italica superstizione; e aveva colto al volo l'occasione. Già a quei tempi, i prezzi degli immobili lievitavano, in barba a presunti miracoli economici nascosti nello stivale.
'Un'illusione, questa è stata la mia vita, solo un'illusione' pensava Maria De Febbri, prima che un leggero ghigno di folle soddisfazione le increspasse prima le labbra, poi l'intero viso. E pensava e ghignava fissando un punto all'altezza del suo baricentro: un posto preciso, il posto delle ortensie. All'ambiguo chiarore di quel bigio pomeriggio, le sue piante preferite, una volta zampillanti di florida gaiezza, s'erano come trasformate, sdoppiandosi in creature dalla parvenza amorfa e pungente. Un mucchio selvatico di metallici calabroni, che quasi a comporre un quadro surrealista sembravano tendere i gambi verso innocue roselline di campo: sarà stato il fisico debilitato, ma a Maria De Febbri sembrò invece di avere davanti dei pistoni, boccheggianti vapore per giunta. Eppure quel torpore di trasognata lucidità, non avendole affatto schiarito la mente, l'aveva però di molto alleggerita. 'Sì, il peggio è passato', si scoprì a pensare Maria De Febbri.
'Non devo più avere febbre, riesco persino a muovere con scioltezza mani e gambe!'; e così dicendo la donna si avviò cautamente oltre lo steccato dell'orto di casa, principiò uno scattino di corsa, e infine cominciò a trotterellare stile Heidi oltre il perimetro di casa sua, con le spighe che le solleticavano vita e fianchi.
Proprio in quel momento, qualcosa cambiò. Le nubi si oscurarono e un turbinio di nero zolfo vorticò su su in alto, fino a ricadere poi in terra. Quello che fino a un minuto prima poteva ben dirsi campo di grano, ora era bollente lastricato color della pece. Maria De Febbri avvertì il bruciore: il fuoco, penetrante, le aveva mangiato suole e rivestimento dei sandali, ed era a un passo dalla nuda carne. Maria De Febbri, ormai rientrata in regime delle sue facoltà motorie, iniziò una disperata corsa. Ma protesa verso dove? Da chi e per che cosa stava fuggendo? Quando all'improvviso ecco spalancarlesi davanti una spelonca. Al fioco barlume di lampade a olio, un gruppo di minatori tossiva e bisbocciava, indicando Maria De Febbri con i ditoni indici scuri e polposi. Le loro facce avevano poco di reale, si presentavano tutte come volti dipinti. Avete presente i fiamminghi mangiatori di patate magistralmente illustrati da Vincent Van Gogh? Bene. I minatori in questione erano altrettanto bozzosi e gonfi in viso, altrettanto tozzi e appesantiti nella corporatura. Ma, se possibile, erano ancora più macabri, sfioriti nel bocciolo della vita e incrudeliti nel lento dissapore di un'agonia. Erano espressionisticamente reali.
Maria De Febbri rimase freddata dalle loro pazze risate, e quindi si girò. Troppo tardi. La visione stava per completarsi.
Maria De Febbri sentì un fischio ritmato e ripetuto che le impedì, durante i seguenti attimi, di mantenere il contatto con la realtà auditiva: la casetta in mezzo alla radura campagnola aveva assunto le sembianze di un orrido ragno sbuffante, che minaccioso muoveva le pelose gambuzze, zoppicante ma veloce.
Impietosa e rapida era la mostruosità, cari miei 26 lettori. Ma se mettete meglio a fuoco la vostra immaginazione, vi renderete presto conto che non proprio di ragno gigante si trattava. Se allargate le vostre belle pupille, e fate sì che la vostra materia grigia divenga tutt'uno con i bulbi oculari, capirete, come la nostra sfortunata eroina ebbe modo di capire, ahimè con troppo ritardo, che una sferragliante locomotiva, nera come la notte all'inferno, era in moto e accelerava vertiginosamente.
Maria De Febbri venne travolta: le restò solo l'attimo di aprire le fauci e urlare, memore forse, in quegli attimi di fatale orgasmo, dell'immagine dipinta da quel pittore norvegese.
Il lugubre locomotore passò oltre. Mentre svaniva nel fuoco, voi 26 miei lettori avrete certamente avuto il modo di passare in rassegna la sua struttura esterna: carrozza centrale in stile decò, ampio finestrone con tutta l'apparenza di un elegante porticato di veranda; avantreno con smaltata targa in ottone: TRENO DIRETTO SOLE ANDATE 'PEGGIO', 666LCFR.
Un nebbione avvolge la scena, fino al tardo mattino del giorno dopo. Un'elegante casa color terra sorge in mezzo alla campagna, chiusa a chiave e con le ante delle finestre mezze socchiuse. Sola e in balia del vento, delle spighe di granturco pronte per la falce e del puzzo della chiavica adagiata sugli argini di un fossato nei pressi dello scalo ferroviario. Della vecchia inquilina, nessun corriere ha riportato notizie.
Fra 37 e 37.3 di febbre, si sa, non passa troppa differenza. Ogni 28 giorni, ogni periodo di lunazione; eppure le sue cose erano già venute. E allora cosa poteva essere quel sottile scampanio che pareva segarle la testa in due? Maria De Febbri non riusciva proprio a capire.
Era un lungo e desolato pomeriggio settembrino che sembrava non richiedere troppi perché, troppi ma e si vedrà. Suonò, lungo e secco, l'ottone smaltato del campanello. Maria De Febbri si stiracchiò, il tempo di riprendere contatto con la realtà d'intorno, poi compì un semi-giro sulle lenzuola e inforcò le De Fonseca. Avvertiva quel senso di pesantezza e caldo straniamento di una febbriciattola da mezza-stagione; ciononostante, riuscì a raggiungere il portone e ad aprire. Lungo la veranda, nessuno. Fu colta di trasalimento. Come nessuno? Basita, Maria De Febbri rimase tre secondi a pensare. E in quei 180 decimi di porzione temporale, Maria De Febbri apparve per la prima volta estranea a se stessa. Estranea come se non avesse mai conosciuto prima d'ora il suo corpo; estranea come un'ombra sbiadita sul selciato bagnato di sole. Improvvisamente, la testa non picchiettava più: il chiodo da Inquisizione che le perlustrava la tempia non si stava più facendo sentire. Le assi del tetto sul porticato della veranda scintillavano lucide, come quattro piroloni di ferro nuovissimo, fresco fresco di accaieria. Perfino gli odiosi rampicanti che sorreggevano le proprie impalpabili vite di vegetali su quegli assi una volta marciti per l'umido, potevano tranquillamente dirsi scomparsi. Dissolti nel campo spaziale di quella casa di campagna nei pressi della ferrovia, località Ponte Galeria. Casa bella ma sfiorita con l'uso, o meglio il non-uso di un solo inquilino.
Lei, Maria De Febbri, da giorni alle prese con un malessere d'altri tempi, di altra tempra. Dell'altro mondo, forse. Ora, si sentiva veramente sola, stranita per il vuoto lungo che le correva davanti.
E dire che quell'abitazione le era venuta a costare due soldi, dopo che suo marito era scomparso, nel senso che il corpo non fu più trovato, in seguito al solito incidente occorso sul lavoro. Travolto inspiegabilmente da un treno lanciato ad alta velocità: quel giorno i casellanti erano in sciopero, e il passaggio di nessuna linea ferroviaria era previsto per quel giorno, martedì 13 novembre del 1966.
Maria De Febbri dunque aveva scelto una vita di tutto riposo, da eremita quasi. All'epoca era ancora una bella donna, ma qualcosa di dentro, come un polipetto staccatosi da un tentacolo di Medusa fatale, le aveva continuato a bruciare nel corso degli anni. E, c'era da scommetterlo, a trent'anni dal decesso tragico del consorte, le bruciava ancora: impedendole di risposarsi, di rifarsi una vita, di conoscere altra gente, di procurarsi svago, puro e semplice divertimento. Correva l'anno 1996, e Maria De Febbri non riusciva più a correre, a camminare con scioltezza. Con sempre maggiore difficoltà era in grado di alzarsi dal talamo, dove un inossidabile e angarioso fantasma aveva da tempo deciso di inchiodarla. Già, i fantasmi; ma torniamo al discorso sull'abitazione a due piani in aperta campagna di periferia romana, trasformatosi nell'arco di un trentennio nell'ostello di chissà quale oscura penitenza per l'ormai ultracinquantenne Maria De Febbri.
Ebbene, nei primi anni sessanta si narrava che quella casa fosse infestata dai demoni, che uno spiritello allucinoforo e terribile la governasse. Addirittura, pare che la famiglia di inquilini prima di Maria De Febbri l'avesse, tutt'a un tratto, abbandonata. Lasciata così com'era, chiusa a chiave e con le ante delle finestre mezze socchiuse. Sola e in balia del vento, delle spighe di granturco pronte per la falce e del puzzo della chiavica adagiata sugli argini di un fossato nei pressi dello scalo ferroviario. Dei vecchi inquilini, nessun corriere riportò notizie.
Maria De Febbri, lei no, non si sarebbe mai e poi mai piegata alla legge dell'italica superstizione; e aveva colto al volo l'occasione. Già a quei tempi, i prezzi degli immobili lievitavano, in barba a presunti miracoli economici nascosti nello stivale.
'Un'illusione, questa è stata la mia vita, solo un'illusione' pensava Maria De Febbri, prima che un leggero ghigno di folle soddisfazione le increspasse prima le labbra, poi l'intero viso. E pensava e ghignava fissando un punto all'altezza del suo baricentro: un posto preciso, il posto delle ortensie. All'ambiguo chiarore di quel bigio pomeriggio, le sue piante preferite, una volta zampillanti di florida gaiezza, s'erano come trasformate, sdoppiandosi in creature dalla parvenza amorfa e pungente. Un mucchio selvatico di metallici calabroni, che quasi a comporre un quadro surrealista sembravano tendere i gambi verso innocue roselline di campo: sarà stato il fisico debilitato, ma a Maria De Febbri sembrò invece di avere davanti dei pistoni, boccheggianti vapore per giunta. Eppure quel torpore di trasognata lucidità, non avendole affatto schiarito la mente, l'aveva però di molto alleggerita. 'Sì, il peggio è passato', si scoprì a pensare Maria De Febbri.
'Non devo più avere febbre, riesco persino a muovere con scioltezza mani e gambe!'; e così dicendo la donna si avviò cautamente oltre lo steccato dell'orto di casa, principiò uno scattino di corsa, e infine cominciò a trotterellare stile Heidi oltre il perimetro di casa sua, con le spighe che le solleticavano vita e fianchi.
Proprio in quel momento, qualcosa cambiò. Le nubi si oscurarono e un turbinio di nero zolfo vorticò su su in alto, fino a ricadere poi in terra. Quello che fino a un minuto prima poteva ben dirsi campo di grano, ora era bollente lastricato color della pece. Maria De Febbri avvertì il bruciore: il fuoco, penetrante, le aveva mangiato suole e rivestimento dei sandali, ed era a un passo dalla nuda carne. Maria De Febbri, ormai rientrata in regime delle sue facoltà motorie, iniziò una disperata corsa. Ma protesa verso dove? Da chi e per che cosa stava fuggendo? Quando all'improvviso ecco spalancarlesi davanti una spelonca. Al fioco barlume di lampade a olio, un gruppo di minatori tossiva e bisbocciava, indicando Maria De Febbri con i ditoni indici scuri e polposi. Le loro facce avevano poco di reale, si presentavano tutte come volti dipinti. Avete presente i fiamminghi mangiatori di patate magistralmente illustrati da Vincent Van Gogh? Bene. I minatori in questione erano altrettanto bozzosi e gonfi in viso, altrettanto tozzi e appesantiti nella corporatura. Ma, se possibile, erano ancora più macabri, sfioriti nel bocciolo della vita e incrudeliti nel lento dissapore di un'agonia. Erano espressionisticamente reali.
Maria De Febbri rimase freddata dalle loro pazze risate, e quindi si girò. Troppo tardi. La visione stava per completarsi.
Maria De Febbri sentì un fischio ritmato e ripetuto che le impedì, durante i seguenti attimi, di mantenere il contatto con la realtà auditiva: la casetta in mezzo alla radura campagnola aveva assunto le sembianze di un orrido ragno sbuffante, che minaccioso muoveva le pelose gambuzze, zoppicante ma veloce.
Impietosa e rapida era la mostruosità, cari miei 26 lettori. Ma se mettete meglio a fuoco la vostra immaginazione, vi renderete presto conto che non proprio di ragno gigante si trattava. Se allargate le vostre belle pupille, e fate sì che la vostra materia grigia divenga tutt'uno con i bulbi oculari, capirete, come la nostra sfortunata eroina ebbe modo di capire, ahimè con troppo ritardo, che una sferragliante locomotiva, nera come la notte all'inferno, era in moto e accelerava vertiginosamente.
Maria De Febbri venne travolta: le restò solo l'attimo di aprire le fauci e urlare, memore forse, in quegli attimi di fatale orgasmo, dell'immagine dipinta da quel pittore norvegese.
Il lugubre locomotore passò oltre. Mentre svaniva nel fuoco, voi 26 miei lettori avrete certamente avuto il modo di passare in rassegna la sua struttura esterna: carrozza centrale in stile decò, ampio finestrone con tutta l'apparenza di un elegante porticato di veranda; avantreno con smaltata targa in ottone: TRENO DIRETTO SOLE ANDATE 'PEGGIO', 666LCFR.
Un nebbione avvolge la scena, fino al tardo mattino del giorno dopo. Un'elegante casa color terra sorge in mezzo alla campagna, chiusa a chiave e con le ante delle finestre mezze socchiuse. Sola e in balia del vento, delle spighe di granturco pronte per la falce e del puzzo della chiavica adagiata sugli argini di un fossato nei pressi dello scalo ferroviario. Della vecchia inquilina, nessun corriere ha riportato notizie.
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