ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il tempio in gabbia
C’era una volta… no, rimaniamo con i piedi per terra, anzi, sotto un tavolo. E più precisamente sotto un tavolino dell’Appia Antica Caffè. Si tratta di un locale con un indirizzo favoloso: Via Appia Antica N. 175, con la possibilità di sedersi al bordo del basolato antico, sotto un olivo forse millenario oppure, nel giardino sul retro, di godere di fragrante brezzolina e ombra fresca all’ombra di pini, anche se non millenari, di certo secolari. Un paradiso dove si può andare a mangiare un ottimo panino, bere una birra o un caffè e leggere il giornale in santa pace.
Ma dopo, per giustificare la (ancorché sobria) crapula, torniamo al “c’era una volta”, ovvero al Parco della Caffarella, un immenso spazio a un passo da lì, che ingloba anche la villa suburbana con azienda agricola due millenni fa nota come Pago Triopio, di proprietà di Erode Attico, che l’aveva avuta in dote dalla moglie Annia Regilla (morta in circostanze così dubbie che il marito fu prima accusato di uxoricidio, poi assolto in maniera altrettanto dubbia, ma, si sa, era molto ricco e molto bene ammanicato).
Insomma, per farla breve, fra i tanti monumenti che ornavano questa sontuosa proprietà (ce la immaginiamo come doveva essere: punteggiata di ninfei, cascate, ruscelli e boschetti) ha resistito egregiamente ai secoli questo tempio originariamente dedicato a Cerere e Faustina, che poi negli anni più bui del medio evo, persa la sua originaria consacrazione pagana, diventò la chiesa di Sant’Urbano e continuò a vivere precariamente come avamposto religioso in un’area che, malgrado fosse a sole tre miglia dalle mura urbane era preda delle incursioni dei pirati che sbarcavano a Ostia e razziavano a intervalli frequenti l’agro romano (doveva essere un mondo, quello intorno all’anno mille, che noi neanche riusciamo a immaginare nella sua primitiva ferinità).
Poi, ormai ridotto un rudere, ebbe vari rattoppi e finalmente lo spazio fra le colonne del pronao fu riempito da un robusto muro di mattoni e questo servì a evitare il crollo definitivo.
Ancora un particolare che ci sembra importante per chiarire meglio la figura del nostro protagonista (Erode, non il tempio): le quattro magnifiche colonne che ancora si vedono sulla facciata, più i capitelli e l’architrave sono di pentelico, un marmo molto pregiato proveniente dalla Grecia e più precisamente da cave di proprietà, guarda caso, proprio del medesimo Erode Attico.
Bene, prendiamo Vicolo S. Urbano, una traversina dell’Appia Pignatelli e dopo un centinaio di metri, non di più, il sentiero finisce davanti a questo portone, ermetico e senza indicazioni.
La dietro c’è, ben custodito e inaccessibile, il tempio-chiesa di S. Urbano. Per riuscire a sbirciarlo e a fotografarlo attraverso una minacciosa rete metallica ci siamo dovuti inerpicare aggrappandoci alla vegetazione selvaggia lungo la scarpata della collinetta, mentre sul sentiero sottostante, sul quale rischiavamo di precipitare a ogni passo, arrancavano gitanti in bicicletta, mamme con bambini in carrozzina e anziani stremati e sudati, maniacalmente presi dal rito suicida dello jogging, celebrato possibilmente sotto un sole bollente e accompagnato da manifestazioni di sofferenza e agonia.
Va bene, ognuno decide come torturarsi. Affari loro.
Quello che per l’ennesima volta abbiamo dovuto constatare, oltre all’irraggiungibilità, è stata l’assoluta indifferenza, la mancanza di curiosità degli sportivi (in sofferenza o non) e delle mamme verso quel raro oggetto di potenziale interesse nascosto dietro i cespugli e isolato dalla rete a cui stavamo invece perigliosamente aggrappati noi, tutti presi a rubare occhiate illecite e scattare foto proibite.
Ma dopo, per giustificare la (ancorché sobria) crapula, torniamo al “c’era una volta”, ovvero al Parco della Caffarella, un immenso spazio a un passo da lì, che ingloba anche la villa suburbana con azienda agricola due millenni fa nota come Pago Triopio, di proprietà di Erode Attico, che l’aveva avuta in dote dalla moglie Annia Regilla (morta in circostanze così dubbie che il marito fu prima accusato di uxoricidio, poi assolto in maniera altrettanto dubbia, ma, si sa, era molto ricco e molto bene ammanicato).
Insomma, per farla breve, fra i tanti monumenti che ornavano questa sontuosa proprietà (ce la immaginiamo come doveva essere: punteggiata di ninfei, cascate, ruscelli e boschetti) ha resistito egregiamente ai secoli questo tempio originariamente dedicato a Cerere e Faustina, che poi negli anni più bui del medio evo, persa la sua originaria consacrazione pagana, diventò la chiesa di Sant’Urbano e continuò a vivere precariamente come avamposto religioso in un’area che, malgrado fosse a sole tre miglia dalle mura urbane era preda delle incursioni dei pirati che sbarcavano a Ostia e razziavano a intervalli frequenti l’agro romano (doveva essere un mondo, quello intorno all’anno mille, che noi neanche riusciamo a immaginare nella sua primitiva ferinità).
Poi, ormai ridotto un rudere, ebbe vari rattoppi e finalmente lo spazio fra le colonne del pronao fu riempito da un robusto muro di mattoni e questo servì a evitare il crollo definitivo.
Ancora un particolare che ci sembra importante per chiarire meglio la figura del nostro protagonista (Erode, non il tempio): le quattro magnifiche colonne che ancora si vedono sulla facciata, più i capitelli e l’architrave sono di pentelico, un marmo molto pregiato proveniente dalla Grecia e più precisamente da cave di proprietà, guarda caso, proprio del medesimo Erode Attico.
Bene, prendiamo Vicolo S. Urbano, una traversina dell’Appia Pignatelli e dopo un centinaio di metri, non di più, il sentiero finisce davanti a questo portone, ermetico e senza indicazioni.
La dietro c’è, ben custodito e inaccessibile, il tempio-chiesa di S. Urbano. Per riuscire a sbirciarlo e a fotografarlo attraverso una minacciosa rete metallica ci siamo dovuti inerpicare aggrappandoci alla vegetazione selvaggia lungo la scarpata della collinetta, mentre sul sentiero sottostante, sul quale rischiavamo di precipitare a ogni passo, arrancavano gitanti in bicicletta, mamme con bambini in carrozzina e anziani stremati e sudati, maniacalmente presi dal rito suicida dello jogging, celebrato possibilmente sotto un sole bollente e accompagnato da manifestazioni di sofferenza e agonia.
Va bene, ognuno decide come torturarsi. Affari loro.
Quello che per l’ennesima volta abbiamo dovuto constatare, oltre all’irraggiungibilità, è stata l’assoluta indifferenza, la mancanza di curiosità degli sportivi (in sofferenza o non) e delle mamme verso quel raro oggetto di potenziale interesse nascosto dietro i cespugli e isolato dalla rete a cui stavamo invece perigliosamente aggrappati noi, tutti presi a rubare occhiate illecite e scattare foto proibite.
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