ATTUALITA'
Stefano Torossi
Il viaggiatore
La primavera è appena arrivata e con lei i primi richiami pubblicitari a viaggi e vacanze: tutto facile, economico, veloce e sicuro. Oggi.
Invece, nel sedicesimo secolo, ecco a cosa andava incontro uno sconsiderato come Michel de Montaigne, autore del “Journal de voyage en Italie, 1580 et 1581”, uno dei più gustosi diari di viaggio che ci siano capitati sotto gli occhi, che aveva deciso di spostarsi non in territori inesplorati, ma semplicemente dalla Francia all’Italia, paesi civili della civile Europa dell’epoca.
I tempi: non ore o giorni, ma mesi, anni. I mezzi: a piedi, a cavallo, oppure, massimo del lusso, in una portantina sulle spalle di due uomini, con altri due di scorta. Un calesse o una carrozza erano pensabili solo per brevi percorsi perché le vere strade erano poche e malmesse. Il resto, sentieri o mulattiere. E si viaggiava solo di giorno perché il mondo era buio, fuori e nelle case.
A noi piacciono le cenette a lume di candela, ma quello che oggi funziona per i momenti romantici, allora non era affatto comodo per la vita quotidiana delle famiglie. Si andava a dormire al tramonto e ci si alzava all’alba. L’unica luce era quella del camino. I pochi che sapevano leggere e lo facevano col moccolo ci rimettevano gli occhi e la salute (vedi Leopardi).
In viaggio, un gentiluomo come Montaigne si portava dietro, oltre al proprio cavallo, un mulo per il bagaglio, con il suo mulattiere, più un cameriere, e due lacchè a piedi. Più, molto spesso, materassi, biancheria e coperte, stoviglie e provviste.
Perché le locande erano infami, gli osti imbroglioni, e non c’era da scegliere. Finestre senza vetri, solo con gli scuri. Piatti di legno o terracotta, quasi sempre sporchi. Tavolacci su cui dormire senza lenzuola, federe o pagliericcio (sistemazione all’epoca considerata igienica perché scongiurava la presenza di cimici e pulci).
Si stupisce, il nostro gentiluomo viaggiante, per il lusso di un albergo in cui trova teli smontabili appesi ai muri accanto al letto “per non insudiciare la parete quando si sputa”. E’ smarrito invece, in una infima locanda dove, avendo chiesto all’oste dove sgravare il corpo, questo gli risponde: “In cortile”, “Sì, ma dove? “Dove vuole”.
E’ chiaro che poi i cortili puzzano di urina e feci, le strade di letame e rifiuti, le scale di case e locande di legno marcio e sterco di topi, le cucine di cavolo e grasso rancido, le camere da letto di lenzuola bisunte e pitali non svuotati.
Brevi le tappe percorse ogni giorno; per di più calcolate in misure diverse da luogo a luogo: leghe di Guascogna, leghe di Francia, leghe tedesche, miglia italiane, spanne, piedi, braccia, cubiti, lance, passi. Su questo argomento non possiamo trattenerci dal citare due righe di mano dello stesso Montaigne che ci hanno fatto sorridere. Scrive, ed è appena all’inizio del viaggio: “Oggi quattro leghe. A cominciare da Bar-le-Duc, le leghe riprendono la misura di Guascogna e vanno allungandosi verso la Germania, fino a raddoppiarsi e perfino a triplicarsi”.
Si viaggia con il contante in borsa (e ne serviva davvero tanto), cambiandolo, chissà con quale criterio, con una girandola di valute locali: scudi, fiorini, soldi, lire, talleri, reali, giuli, zecchini, paoli, grossi, denari, baiocchi. Niente assegni o carte di credito, chiaro: quindi continuo rischio di rapina.
E naturalmente ognuno degli innumerevoli staterelli da attraversare richiede passaporti, bollette di alloggio con il numero di signori, servitori e bestie in transito, senza le quali non si riesce a trovare da dormire e da mangiare. Qualche volta servono anche i certificati di sanità, se si arriva da dove c’è, o si crede che ci sia, qualche pestilenza. E nel bagaglio sono attentamente controllati, e al caso sequestrati, anche i libri, oggetti rari, costosi e all’epoca molto sospetti.
Dopo la testimonianza incredibilmente distaccata per i nostri orecchi (ma all’epoca il fatto doveva essere assolutamente normale) di due esecuzioni capitali a Roma, una per impiccagione e successivo squartamento, l’altra con taglio delle mani, uccisione a colpi di mazza e sgozzamento del colpevole, Montaigne riferisce, con uno stupore che noi avremmo trovato più appropriato ai fatti precedenti, una cena al palazzo di un cardinale, in cui “tutti si sono lavati le mani prima del pasto”.
Tanto per sapere come regolarsi, conclude dando l nome della migliore locanda d’Italia, che è “La Posta” di Piacenza, e della peggiore: “Il Falcone” di Pavia, dove si paga a parte la legna per il camino, la biancheria e il materasso. Magari, essendo passati quattro secoli e mezzo, non sono più indicazioni tanto attendibili.
Oggi, certo, tutto è molto più semplice: il biglietto lo fai on line, viaggi comodo e sicuro. In poche ore giri il mondo.
Arrivi bello tranquillo al tuo albergo, ti cambi, doccia, scendi a fare due passi, poi vai al museo, e, certo, può essere che lì trovi qualche terrorista che ti spara.
Ma fino a quel momento è stato tutto molto carino.
Invece, nel sedicesimo secolo, ecco a cosa andava incontro uno sconsiderato come Michel de Montaigne, autore del “Journal de voyage en Italie, 1580 et 1581”, uno dei più gustosi diari di viaggio che ci siano capitati sotto gli occhi, che aveva deciso di spostarsi non in territori inesplorati, ma semplicemente dalla Francia all’Italia, paesi civili della civile Europa dell’epoca.
I tempi: non ore o giorni, ma mesi, anni. I mezzi: a piedi, a cavallo, oppure, massimo del lusso, in una portantina sulle spalle di due uomini, con altri due di scorta. Un calesse o una carrozza erano pensabili solo per brevi percorsi perché le vere strade erano poche e malmesse. Il resto, sentieri o mulattiere. E si viaggiava solo di giorno perché il mondo era buio, fuori e nelle case.
A noi piacciono le cenette a lume di candela, ma quello che oggi funziona per i momenti romantici, allora non era affatto comodo per la vita quotidiana delle famiglie. Si andava a dormire al tramonto e ci si alzava all’alba. L’unica luce era quella del camino. I pochi che sapevano leggere e lo facevano col moccolo ci rimettevano gli occhi e la salute (vedi Leopardi).
In viaggio, un gentiluomo come Montaigne si portava dietro, oltre al proprio cavallo, un mulo per il bagaglio, con il suo mulattiere, più un cameriere, e due lacchè a piedi. Più, molto spesso, materassi, biancheria e coperte, stoviglie e provviste.
Perché le locande erano infami, gli osti imbroglioni, e non c’era da scegliere. Finestre senza vetri, solo con gli scuri. Piatti di legno o terracotta, quasi sempre sporchi. Tavolacci su cui dormire senza lenzuola, federe o pagliericcio (sistemazione all’epoca considerata igienica perché scongiurava la presenza di cimici e pulci).
Si stupisce, il nostro gentiluomo viaggiante, per il lusso di un albergo in cui trova teli smontabili appesi ai muri accanto al letto “per non insudiciare la parete quando si sputa”. E’ smarrito invece, in una infima locanda dove, avendo chiesto all’oste dove sgravare il corpo, questo gli risponde: “In cortile”, “Sì, ma dove? “Dove vuole”.
E’ chiaro che poi i cortili puzzano di urina e feci, le strade di letame e rifiuti, le scale di case e locande di legno marcio e sterco di topi, le cucine di cavolo e grasso rancido, le camere da letto di lenzuola bisunte e pitali non svuotati.
Brevi le tappe percorse ogni giorno; per di più calcolate in misure diverse da luogo a luogo: leghe di Guascogna, leghe di Francia, leghe tedesche, miglia italiane, spanne, piedi, braccia, cubiti, lance, passi. Su questo argomento non possiamo trattenerci dal citare due righe di mano dello stesso Montaigne che ci hanno fatto sorridere. Scrive, ed è appena all’inizio del viaggio: “Oggi quattro leghe. A cominciare da Bar-le-Duc, le leghe riprendono la misura di Guascogna e vanno allungandosi verso la Germania, fino a raddoppiarsi e perfino a triplicarsi”.
Si viaggia con il contante in borsa (e ne serviva davvero tanto), cambiandolo, chissà con quale criterio, con una girandola di valute locali: scudi, fiorini, soldi, lire, talleri, reali, giuli, zecchini, paoli, grossi, denari, baiocchi. Niente assegni o carte di credito, chiaro: quindi continuo rischio di rapina.
E naturalmente ognuno degli innumerevoli staterelli da attraversare richiede passaporti, bollette di alloggio con il numero di signori, servitori e bestie in transito, senza le quali non si riesce a trovare da dormire e da mangiare. Qualche volta servono anche i certificati di sanità, se si arriva da dove c’è, o si crede che ci sia, qualche pestilenza. E nel bagaglio sono attentamente controllati, e al caso sequestrati, anche i libri, oggetti rari, costosi e all’epoca molto sospetti.
Dopo la testimonianza incredibilmente distaccata per i nostri orecchi (ma all’epoca il fatto doveva essere assolutamente normale) di due esecuzioni capitali a Roma, una per impiccagione e successivo squartamento, l’altra con taglio delle mani, uccisione a colpi di mazza e sgozzamento del colpevole, Montaigne riferisce, con uno stupore che noi avremmo trovato più appropriato ai fatti precedenti, una cena al palazzo di un cardinale, in cui “tutti si sono lavati le mani prima del pasto”.
Tanto per sapere come regolarsi, conclude dando l nome della migliore locanda d’Italia, che è “La Posta” di Piacenza, e della peggiore: “Il Falcone” di Pavia, dove si paga a parte la legna per il camino, la biancheria e il materasso. Magari, essendo passati quattro secoli e mezzo, non sono più indicazioni tanto attendibili.
Oggi, certo, tutto è molto più semplice: il biglietto lo fai on line, viaggi comodo e sicuro. In poche ore giri il mondo.
Arrivi bello tranquillo al tuo albergo, ti cambi, doccia, scendi a fare due passi, poi vai al museo, e, certo, può essere che lì trovi qualche terrorista che ti spara.
Ma fino a quel momento è stato tutto molto carino.
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