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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Luigi Rocca

Interno giorno

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Il carrello sul pavimento sconnesso fa un rumore sferragliante che riempie tutto il corridoio. E’ uno dei tanti fastidi ai quali si fa presto l’abitudine. Quando succede che una delle rotelle si incastri in qualche fessura nascosta, bisogna sbrigarsi a liberarla e terminare il percorso in fretta. D’altra parte la puntualità è necessaria, se non si vogliono sentire le lamentele (le urla, qualche volta) di chi sta aspettando la propria razione di cibo: la loro giornata è tutta un’attesa e come ogni attesa ha i suoi riti e i suoi ritmi e i pasti sono tra i più importanti.
Arrivati al muro, si può tornare indietro lentamente, perché adesso non c’è più nessuno che manifesti insofferenza. Si rientra in cucina, si appoggia il carrello al muro dove non ingombri il passaggio e si aspetta il momento del prossimo giro. E’ così ogni giorno, tre volte al giorno, da quarant'anni. Non si deve credere che sia una fatica perché anche per noi l’attesa è fatta di riti e ritmi e non è facile rinunciare a nessuno di questi. C’è stato un tempo in cui anche a casa (quando c’era ancora la possibilità di avere una casa) non potevo fare a meno di prendere il carrello portavivande e portarlo in giro per le stanze del mio piccolo appartamento. Non mi dava la stessa soddisfazione, certo, ma era sempre meglio di niente.
Un altro rumore che mi accompagna ad ogni passo è quello delle chiavi appese alla cintura: senza il loro tintinnio contro la gamba, rischierei di perdere l’equilibrio. Altre azioni vengono naturali, come quando la mattina si fa scorrere il bastone contro le sbarre. Lo facevo da bambino con un legnetto contro le ringhiere e mi sono ritrovato da adulto a ripetere il gesto con questa specie di manganello, senza neanche sentir più le proteste (Ehi - Ma è questo il modo - Ma lasciaci dormire…) perché anche loro in fondo fanno parte di questo rito.
E poi gli scatti delle serrature. Tutto un aprire e chiudere: le porte principali, le porte di passaggio, le celle. Aprire e chiudere, aprire e chiudere. E le urla, poi, le risate sguaiate ogni volta che il mazzo delle chiavi cade per terra. Si esce, si esce! gridano tutti. Non si può che sorridere di questa ingenuità, mentre ci si affretta a raccogliere le chiavi per riattaccarle alla cintura, accanto alla gamba destra.
E’ stato proprio il giorno in cui le mie chiavi sono rimbalzate sul cemento e nessuno ha urlato che ho cominciato a capire. Subito ho pensato che si trattasse di una forma di protesta,  uno sciopero del silenzio, magari, così ho deciso di continuare l’ispezione facendo finta di niente. Il bastone sulle sbarre, l’apertura delle porte, poi il carrello con il cibo… Certo mi ero accorto da tempo di quanto il carrello fosse diventato leggero, scivolava sul pavimento senza incastrarsi e quando succedeva mi bastava una mano per liberare il ruotino. Anche le proteste al momento della sveglia erano diminuite giorno dopo giorno, fino ad arrivare a quel silenzio sconcertante. Meglio così, ho pensato. Però non ero contento: era come se  mi mancasse qualcosa. Gettavo uno sguardo oltre le sbarre e mi apparivano quegli armadietti spalancati come bocche sdentate, i disegni sulle pareti, le brande vuote… Una desolazione, insomma.
L’ultimo viso che ricordo è quello di Cristiano. Cristiano qui dentro c’è invecchiato, come me. Non ricordo se ci fosse già quando sono arrivato io o se sia arrivato subito dopo, ma è questione di giorni. Qualche volta lo facevano uscire, sapendo che presto sarebbe tornato. Era saggio, Cristiano. Lo ascoltavo dare consigli ai compagni, soprattutto ai più giovani. La vita, diceva, è quella fuori. Mi sembra di sentire ancora la sua voce. La vita è quella fuori. E allora tu cosa fai qui dentro, gli chiedevano loro. Mi prendo una pausa, rispondeva. Era così: né allegro né triste. Spesso negli ultimi tempi giocavamo a carte. Scala quaranta, pinnacolo, anche giochi più complicati. Sosteneva di essere un campione di bridge, ma qui non c’era nessuno che potesse sfidarlo. Parlava volentieri delle sue mogli, dei suoi figli. Mi domandava perché non mi fossi mai sposato. Le mogli le hai già prese tutte tu, dicevo. E lui rideva. E’ vero, è vero. Perché fosse qui non lo aveva mai saputo dire. Qualche volta l’ho sentito sostenere come tutti che si fosse trattato di un errore, in altre occasioni raccontava storie avventurose e inverosimili, in cui figurava sempre come il paladino contro le ingiustizie. Era un buon narratore e tutti lo ascoltavano volentieri, senza però prenderlo troppo seriamente.
Quando è venuto il momento, con i suoi vestiti dentro una misera borsa del supermercato, non ha voluto abbracciarmi né darmi la mano, come aveva fatto il mio collega il giorno precedente, anche gli si leggeva negli occhi la voglia di farlo. Ora rimani solo tu, mi ha detto prima di oltrepassare l’ultimo cancello. Mi è occorso qualche giorno per comprendere che non scherzava: rimanevo solo io. Quello che ho capito subito invece è che non bisognava cambiare niente, i riti e i ritmi dovevano rimanere invariati.
Ed è per questo che ogni mattina cammino lungo il corridoio facendo risuonare il bastone sulle sbarre e dopo pochi minuti passo una seconda volta spingendo il carrello (vuoto perché l’unico caffelatte che preparo, lo consumo in cucina), poi apro una ad una le celle vuote e cammino, cammino continuamente perché mi piace il tintinnare delle chiavi contro la mia gamba. Nel silenzio di questo corridoio è l’unico suono che mi tenga veramente compagnia. Spesso lascio anche cadere volontariamente il mazzo sul pavimento, per sentire quel suono scomposto e gridare da solo: Si esce, oggi si esce. Qualche volta l’eco dei muri vuoti ha un effetto che mi illude. In fondo anche la mia attesa ha riti e ritmi che bisogna rispettare.
 
 
 



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