RACCONTI
Massimiliano Città
L'incidente
Il cielo plumbeo disegna all'orizzonte molteplici onde intente a giocare con l'asfalto. Le gocce di pioggia appena scese riflettono le carene delle automobili in transito.
Un solo colore, cangiante.
Sfumature di esistenze sovrapposte che scivolano incuranti l'una dell'altra sulla stessa via, verso direzioni opposte.
L'uomo al volante cerca con affanno tra le tasche della giacca umida. Il sudore lo accompagna fin dal mattino. Ogni piccolo movimento gli costa fatica in quell'abitacolo. Un'angusta prigione ambulante che, senza una meta precisa, lo sta portando a zonzo fin dalle prime luci dell'alba.
Cerca, tastandosi con indolenza, di scovare una cicca, magari lasciata distrattamente a metà, ma invano. Ricorda che l'ultima l'ha gettata in fretta dopo aver preso un orribile caffè mattutino.
Entrato in silenzio nell'affollato bar cittadino, rifuggendo gli sguardi degli avventori, era riuscito a ritagliarsi un misero spazio al bancone e, sollevando impercettibilmente un dito, aveva ordinato il solito ristretto. Immerso in una dimensione assente, lontano dal chiacchiericcio denso di pettegolezzi, di rinnovate corna e auspicabili acquisti per la nuova stagione calcistica alle porte, s'era sentito avvelenare dal sorso mandato giù in fretta.
Orribile, come il ricordo dei pomeriggi trascorsi a litigare furiosamente con lei.
Aveva cercato di rimediare accendendo l'ultima sigaretta, ma un inatteso attacco d'ansia l'aveva spinto a lasciarla fumante sul gradino di ingresso del bar.
S'era infilato velocemente in auto e da allora, ormai più di quattro ore, era in viaggio, senza destinazione.
Iniziava ad avvertire un appannamento di riflessi, il volante gli pesava ad ogni sterzata, faticava più del dovuto ad affondare la frizione per il cambio di marcia.
Considerava, piccola distrazione di pensiero in quel mattino di intenso flusso d'immagini, che avrebbe fatto bene a sostare, rinfrescarsi un po'.
Era solito portare con sé un ricambio, spesso e volentieri s'era ritrovato imbottigliato nel traffico. Schiavo dell'incuria altrui, aveva dovuto sorbirsi ore e ore di stramaledetta afa, quel tipo di tortura quotidiana che annienta ogni possibilità di respiro per la mente.
Così usciva al primo autogrill, scendeva repentino dall'auto incandescente, e presa l'inseparabile ventiquattrore, si fiondava al cesso. Lanciava, quasi a volerlo colpire, la solita moneta da cinquanta centesimi, all'addetto di turno, e provava a rimettersi a nuovo, per quanto possibile.
Poi riprendeva la marcia, verso il prossimo cliente.
Quel mattino non c'era nessuno in verità ad attenderlo.
Una domenica d'agosto in cui ogni studio professionale che si rispetti resta serrato.
Famiglie intere traslocate da un lido all'altro, cariche di aspettative, equipaggiate a dovere. Partite ad anticipare l'alba nella speranza di scansare il traffico da bollino nero, e puntualmente rimasteci dentro, all'inferno.
Conosceva bene quella sensazione di impotenza. Dover dipendere dal lento estenuante e mai risoluto movimento altrui. C'era rimasto spesso dentro, per lavoro, e qualche volta con una speranza di sorriso in più, s'era sobbarcato ore e chilometri infiniti soltanto per il gusto di accontentarla.
Ormai erano trascorsi mesi, e iniziava a perdere l'immagine di quel sorriso, cangiante come i colori delle infinite automobili che aveva incontrato fino ad allora.
Di certo non avrebbe trovato niente di buono sulla superstrada, seppur ancora scorrevole.
Ma fino a quando?
Era necessario uscire al primo svincolo.
Senza pensarci troppo, s'infilò rapido sulla destra, tanto da dover abbozzare una lunga frenata, per evitare di finire spiaccicato sul guardrail, come un moscerino sul vetro delle moto.
Il cartello indicava il primo centro abitato a 5 km. Non ricordava quel nome, eppure era certo che per lavoro c'era almeno passato una volta.
Lo credeva di ogni paese nel raggio di duecento chilometri. S'era convinto che in più di vent'anni di viaggi aveva toccato, anche in fuga, ogni centro, conosciuto ogni faccia, assaporato ogni voce.
Spesso gli accadeva lungo il tragitto di azzerare il volume della radio, un modello d'antiquariato moderno, con ancora il mangianastri funzionante, lasciandosi andare a pensieri astrusi del genere filosofico che tanto avevano avuto presa su di lei.
Sovente ricordava gli episodi, che a suo insindacabile giudizio, meritavano d'essere mantenuti vivi nella mente. E poco importava se alla fine quei pensieri, flashback influenzati dagli innumerevoli film visti insieme, risultassero anni luce distanti dalla realtà vissuta in transito.
Si crogiolava come un gatto al sole d'inverno a far le fusa su melanconici ricordi.
Credeva d'avere marchiato a fuoco nella mente il primo istante in cui la vide, l'istante zero quando, a suo dire, la vita aveva preso una piega irrinunciabile, verso un punto da non ritorno.
Credeva indossasse allora un tailleur blu elettrico, aderente, che ne esaltava i floridi fianchi, dimenticando che era pieno inverno, e che lei, come sempre, s'era imbacuccata nel suo comodissimo giubbotto bianco da montagna.
Credeva di averle ceduto il passo gentilmente, facendola accomodare per prima al bar che li avrebbe visti per settimane tubare, dimenticando che era maldestramente inciampato sullo stupido zerbino che malediceva di continuo.
Credeva molte cose che trovavano riscontro esclusivamente nella sua mente.
Luminoso e surreale, sperso tra grige palazzine, quasi sospeso in una via che pareva non svoltare mai, si ritrovò davanti un esplicito cartello che lo invitava a sostare.
Per il pranzo.
Menù turistico: Primo (a scelta spaghetti aglio e peperoncino o mezzepenne rigate al pomodoro) + Secondo (a scelta bistecca di carne arrosto o cotoletta panata) + Contorno (a scelta patatine fritte o verdure a vapore) + Bibita (a scelta Coca cola o acqua minerale, alcolici esclusi) a soli 9,50 €.
Decise che era giunto il momento di fermarsi.
Sentiva d'esser quasi diventato tutt'uno con il coprisedile. La pelle aderiva perfettamente alla sagoma.
Accostò, spense il motore e rimase immobile per alcuni istanti. Poi, si voltò come se avvertisse la presenza di qualcuno dietro, ma ovviamente non vide nessuno, perché nessuno poteva vedersi.
Ne era certo.
Entrò nel localino, classica trattoria di paese, accolto da una zaffata di carne ai ferri mista ad un odore che non fu in grado di identificare, ma che non faceva presagire granché bene.
Una donna minuta dal fare vigoroso lo accolse con un sorriso aperto.
E gli incisivi assenti che spinsero il viaggiatore ad un moto di disgusto. Ma, nonostante il primo impatto orrido, l'uomo riuscì in pochi attimi a smorzarlo in un cordiale sorriso di ricambio.
La donna lo invitò ad accomodarsi.
La sala era pressoché vuota.
Due signori si confutavano amabilmente profonde verità politiche, sostenendosi reciprocamente con un cicchettino di rosolio davanti e qualche bicchiere di troppo sulle gote, in fondo a sinistra un tizio distinto consumava in silenzio il suo menù.
Il viaggiatore, dopo aver ordinato Mezzepenne + cotoletta + verdure + acqua, chiese gentilmente indicazioni per il bagno.
Uno sgabuzzino adibito a toilette.
Stesso ingresso per la cucina, ma immediata svolta a destra.
Corridoio angusto, e inequivocabile simbolo di ristoro da vescica piena.
Armeggiò qualche secondo con la lampo, che s'era incagliata ad una cucitura male in arnese, e svuotò con un sospiro liberatorio tutto lo stress accumulato nelle ore precedenti.
Lavò accuratamente le mani, le strofinò con l'inseparabile goccia di amuchina e ritornò in sala poco sorpreso di ritrovarsi già al tavolo la prima portata del luculliano pranzo.
Mangiava lentamente, per inerzia, come fosse doveroso fare, senza alcun gusto.
Gli capitava spesso.
Il vuoto che si proiettava davanti ai suoi occhi fu riempito dal pensiero della sera prima.
Piccola sala anche quella, locale intimo, luce soffusa, profumi migliori, senz'ombra di dubbio. E lei a fissarlo senza pronunciare una sillaba.
Ostinata nel suo silenzio.
Restia ad accettare l'ennesimo invito s'era alla fine fatta convincere. Aveva ceduto, in qualche modo, pensava il viaggiatore, come molte volte era accaduto prima.
In effetti erano settimana che lui insisteva.
Pesantemente.
Telefonate a ripetizioni, su tutte le schede che gli erano note.
Wind, Vodafone, Tim, aveva perfino resuscitato il vecchio numero Coop Voce, dopo che automaticamente partivano le varie segreterie telefoniche ad ogni tentativo.
E poi sms invasivi, invadenti, offensivi.
E le solite frasi a doppio senso su Facebook.
Dopo un tampinamento massiccio lei aveva accettato di rivederlo, la sera precedente.
Aveva indicato il locale, l'orario, e addirittura fissato il tempo massimo.
Entro le dieci avrebbero dovuto concludere la cena o quel che poteva definirsi tale. Un impegno preso giorni addietro non le dava la possibilità di sforare di un minuto.
Il viaggiatore intento a rosicchiare la sua cotoletta sfibrata sorrideva tra sé pensando come, alcuni mesi prima, lei sarebbe andata su tutte le furie per un tipo di appuntamento del genere.
Non accettava, la donna, che il tempo da dedicarle fosse limitato, o limitante.
Pretendeva l'esclusiva di pensiero e di gesti.
Ora, invece, si ritrovava a concedere il suo preziosissimo tempo.
<<Giada, non possiamo andare avanti così, almeno io. Non lo reggo più.>>
Silenzio.
<<Ti pare possibile che un mattino ci si svegli, stretti uno nell'altra e da sotto le lenzuola che tu hai scelto sospiri annoiata dicendomi candidamente che non mi ami più, che è da tempo che volevi dirmelo...>>
Silenzio.
<<Cane al guinzaglio che annoia si molla sulla strada?>>
Silenzio.
A quell'ennesimo rifiuto verso ogni forma di dialogo, o conciliazione sperata, il viaggiatore vibra un colpo secco sul tavolino, tanto da far tremare tavoli e astanti.
Eppure lei non reagisce affatto.
Glaciale, lo fissa, annoiata sempre più, poi estrae il suo telefonino dalla borsa e come se nulla fosse risponde al messaggio appena ricevuto.
<<Signore, gradisce un dolcino, un amaro, un limoncello?>>
L'immagine di lei che s'alza, il sorriso accennato di compassione, le cinquanta euro lasciate sul tavolo come elemosina sfumano nell'eco delle parole della piccola donna vigorosa dalla dentatura alternata.
<<No grazie, va bene così.>>, riesce a dire con voce tremante dalla rabbia.
Gli è sempre accaduto di immedesimarsi profondamente negli episodi che gli rimbalzano nella mente, cercati o trovati che siano.
Un leggero tremito lo scuote, la mano destra vibra senza che lui l'abbia autorizzata, e la forchetta lentamente abbandona le dita per posarsi rumorosamente sul piatto sguarnito.
Prova a respirare, sorride privo di convinzione, paga senza chiedere il resto ed esce.
Già due volte in questa giornata è stato sorpreso da una morsa d'ansia che gli ha gelato il sangue.
Di primo mattino al bar quando provava a nascondere il ricordo dell'amaro caffè sotto una boccata di sigaretta, e adesso.
Il sole ancora alto picchia violento sull'asfalto. Dalla strada sale un puzzo penetrante che sostituisce l'odore pesante della trattoria. La stretta alla gola non l'ha del tutto abbandonato. Rimane in piedi a pochi passi dalla porta cigolante del locale, e annaspa.
Prova a respirare, forte e a lungo, come nei suoi ricordi di bambino gli chiedeva di fare la madre dopo il solito pianto capriccioso, quando anche allora agitava le braccia al cielo in cerca di aria da dare ai polmoni.
Con moto repentino scioglie il nodo della cravatta e quasi si ritrova a gettarla per terra.
La blocca ancora in volo ed in quel fare inizia a sorridere, come soltanto ai matti aveva visto fare prima.
Riesce in qualche modo a stabilizzarsi e a passo di marcia si indirizza verso l'auto. In pochi rapidi gesti mette in moto e sgomma senza sapere verso dove.
Gli occhi si riempiono di lei nella notte trascorsa. Ne segue il passo leggero incurante di ciò che lo circonda.
Svolta l'angolo e come lei s'avvia verso l'automobile. La fulgida Mercedes Cl appena acquistata.
Esita.
Voci e pensieri senza alcun preavviso gli entrano nella mente, in una ressa di suoni da perdere la testa, mentre lei continua con la sua falcata reale a voltargli la schiena, in un invito che a quel punto gli appare inequivocabile.
Il vialetto silenzioso ripete il tempo dei loro passi, il tacco alto della donna svetta e segna il ritmo, lui si adegua avvicinandosi sempre più.
Allunga il braccio a sfiorarle la spalla scoperta. Lei, infastidita come in tutta la serata, si scosta e lo guarda di traverso. I suoi occhi affondano sulla pelle dell'uomo come lame incandescenti.
Ormai non respira quasi più, né pensa.
La cinge alla vita e la porta con uno scatto violento a sé. Preme le sue labbra contro la nuca mentre la donna prova a dimenarsi.
L'uomo sente un vigore che non avvertiva da anni, quando da ragazzino dopo pomeriggi interi trascorsi a nuotare usciva in spiaggia con il petto gonfio e le braccia pesanti.
La stringe ancor più forte fino a che la donna riesce di traverso ad assestargli una taccata di striscio allo stinco destro.
La ragazza è confusa, non c'è più alcuna traccia della superbia di alcuni istanti prima, gli occhi sono piccoli e luccicano, il petto ansima.
L'uomo dopo averla lasciata per pochi secondi si avventa con ferocia inaudita verso la preda. Non più al fianco, adesso le sue mani di stagno, senza avvertire alcun dolore, premono con decisa violenza lungo le venature dell'esile collo della donna.
E il volto le s'infiamma, come spesso era accaduto nelle notti di rumorosi amplessi. Adesso il rossore sulle gote non è piacere che svanisce in un battito di ciglia, ma dolore che si protrae in eterno.
La donna si arrende completamente e senza forze scivola giù, priva di grazia, sui tacchi.
Uno si spezza e rotola leggero verso il vicino tombino, restando sospeso tra le maglie della grata di ferro.
L'uomo ha la forza della paura che lo tiene ancora dritto sulla schiena.
Con fare rapido estrae le chiavi e apre l'automobile.
Poi, con delicatezza estrema, si potrebbe dire con amore perfino, adagia il corpo della donna sul sedile posteriore. Si ridesta un attimo e dopo interminabili minuti di black-out ritorna a pensare.
Eppure la mente non risponde a dovere, ancora voci, ancora ricordi, ancora lo sguardo indolente di lei che non cede d'un passo alle sue richieste.
D'improvviso si guarda intorno, consapevole del fatto che una realtà lo circonda, fatta di altri esseri umani. Ma non scorge nessuno.
In quel medesimo istante, venuto fuori dal ricordo in un altro momento zero diremmo, consapevole di non avere nessuno intorno, una violenta e insensata accelerazione in curva lo scaraventa dall'altra parte della corsia.
D'istinto prova a rimettere in carreggiata l'auto che ormai sbanda senza alcuna possibilità di controllo.
La disperata frenata che segue lo consegna alla massicciata sulla destra devastando il luccicante fronte della sua preziosa automobile.
La stradale accorsa sul posto dell'incidente trova il conducente sbalzato fuori, con il cranio fracassato sul vetro dal violento impatto e dal bagagliaio posteriore scorge la sagoma di un polpaccio tornito di donna.
Un solo colore, cangiante.
Sfumature di esistenze sovrapposte che scivolano incuranti l'una dell'altra sulla stessa via, verso direzioni opposte.
L'uomo al volante cerca con affanno tra le tasche della giacca umida. Il sudore lo accompagna fin dal mattino. Ogni piccolo movimento gli costa fatica in quell'abitacolo. Un'angusta prigione ambulante che, senza una meta precisa, lo sta portando a zonzo fin dalle prime luci dell'alba.
Cerca, tastandosi con indolenza, di scovare una cicca, magari lasciata distrattamente a metà, ma invano. Ricorda che l'ultima l'ha gettata in fretta dopo aver preso un orribile caffè mattutino.
Entrato in silenzio nell'affollato bar cittadino, rifuggendo gli sguardi degli avventori, era riuscito a ritagliarsi un misero spazio al bancone e, sollevando impercettibilmente un dito, aveva ordinato il solito ristretto. Immerso in una dimensione assente, lontano dal chiacchiericcio denso di pettegolezzi, di rinnovate corna e auspicabili acquisti per la nuova stagione calcistica alle porte, s'era sentito avvelenare dal sorso mandato giù in fretta.
Orribile, come il ricordo dei pomeriggi trascorsi a litigare furiosamente con lei.
Aveva cercato di rimediare accendendo l'ultima sigaretta, ma un inatteso attacco d'ansia l'aveva spinto a lasciarla fumante sul gradino di ingresso del bar.
S'era infilato velocemente in auto e da allora, ormai più di quattro ore, era in viaggio, senza destinazione.
Iniziava ad avvertire un appannamento di riflessi, il volante gli pesava ad ogni sterzata, faticava più del dovuto ad affondare la frizione per il cambio di marcia.
Considerava, piccola distrazione di pensiero in quel mattino di intenso flusso d'immagini, che avrebbe fatto bene a sostare, rinfrescarsi un po'.
Era solito portare con sé un ricambio, spesso e volentieri s'era ritrovato imbottigliato nel traffico. Schiavo dell'incuria altrui, aveva dovuto sorbirsi ore e ore di stramaledetta afa, quel tipo di tortura quotidiana che annienta ogni possibilità di respiro per la mente.
Così usciva al primo autogrill, scendeva repentino dall'auto incandescente, e presa l'inseparabile ventiquattrore, si fiondava al cesso. Lanciava, quasi a volerlo colpire, la solita moneta da cinquanta centesimi, all'addetto di turno, e provava a rimettersi a nuovo, per quanto possibile.
Poi riprendeva la marcia, verso il prossimo cliente.
Quel mattino non c'era nessuno in verità ad attenderlo.
Una domenica d'agosto in cui ogni studio professionale che si rispetti resta serrato.
Famiglie intere traslocate da un lido all'altro, cariche di aspettative, equipaggiate a dovere. Partite ad anticipare l'alba nella speranza di scansare il traffico da bollino nero, e puntualmente rimasteci dentro, all'inferno.
Conosceva bene quella sensazione di impotenza. Dover dipendere dal lento estenuante e mai risoluto movimento altrui. C'era rimasto spesso dentro, per lavoro, e qualche volta con una speranza di sorriso in più, s'era sobbarcato ore e chilometri infiniti soltanto per il gusto di accontentarla.
Ormai erano trascorsi mesi, e iniziava a perdere l'immagine di quel sorriso, cangiante come i colori delle infinite automobili che aveva incontrato fino ad allora.
Di certo non avrebbe trovato niente di buono sulla superstrada, seppur ancora scorrevole.
Ma fino a quando?
Era necessario uscire al primo svincolo.
Senza pensarci troppo, s'infilò rapido sulla destra, tanto da dover abbozzare una lunga frenata, per evitare di finire spiaccicato sul guardrail, come un moscerino sul vetro delle moto.
Il cartello indicava il primo centro abitato a 5 km. Non ricordava quel nome, eppure era certo che per lavoro c'era almeno passato una volta.
Lo credeva di ogni paese nel raggio di duecento chilometri. S'era convinto che in più di vent'anni di viaggi aveva toccato, anche in fuga, ogni centro, conosciuto ogni faccia, assaporato ogni voce.
Spesso gli accadeva lungo il tragitto di azzerare il volume della radio, un modello d'antiquariato moderno, con ancora il mangianastri funzionante, lasciandosi andare a pensieri astrusi del genere filosofico che tanto avevano avuto presa su di lei.
Sovente ricordava gli episodi, che a suo insindacabile giudizio, meritavano d'essere mantenuti vivi nella mente. E poco importava se alla fine quei pensieri, flashback influenzati dagli innumerevoli film visti insieme, risultassero anni luce distanti dalla realtà vissuta in transito.
Si crogiolava come un gatto al sole d'inverno a far le fusa su melanconici ricordi.
Credeva d'avere marchiato a fuoco nella mente il primo istante in cui la vide, l'istante zero quando, a suo dire, la vita aveva preso una piega irrinunciabile, verso un punto da non ritorno.
Credeva indossasse allora un tailleur blu elettrico, aderente, che ne esaltava i floridi fianchi, dimenticando che era pieno inverno, e che lei, come sempre, s'era imbacuccata nel suo comodissimo giubbotto bianco da montagna.
Credeva di averle ceduto il passo gentilmente, facendola accomodare per prima al bar che li avrebbe visti per settimane tubare, dimenticando che era maldestramente inciampato sullo stupido zerbino che malediceva di continuo.
Credeva molte cose che trovavano riscontro esclusivamente nella sua mente.
Luminoso e surreale, sperso tra grige palazzine, quasi sospeso in una via che pareva non svoltare mai, si ritrovò davanti un esplicito cartello che lo invitava a sostare.
Per il pranzo.
Menù turistico: Primo (a scelta spaghetti aglio e peperoncino o mezzepenne rigate al pomodoro) + Secondo (a scelta bistecca di carne arrosto o cotoletta panata) + Contorno (a scelta patatine fritte o verdure a vapore) + Bibita (a scelta Coca cola o acqua minerale, alcolici esclusi) a soli 9,50 €.
Decise che era giunto il momento di fermarsi.
Sentiva d'esser quasi diventato tutt'uno con il coprisedile. La pelle aderiva perfettamente alla sagoma.
Accostò, spense il motore e rimase immobile per alcuni istanti. Poi, si voltò come se avvertisse la presenza di qualcuno dietro, ma ovviamente non vide nessuno, perché nessuno poteva vedersi.
Ne era certo.
Entrò nel localino, classica trattoria di paese, accolto da una zaffata di carne ai ferri mista ad un odore che non fu in grado di identificare, ma che non faceva presagire granché bene.
Una donna minuta dal fare vigoroso lo accolse con un sorriso aperto.
E gli incisivi assenti che spinsero il viaggiatore ad un moto di disgusto. Ma, nonostante il primo impatto orrido, l'uomo riuscì in pochi attimi a smorzarlo in un cordiale sorriso di ricambio.
La donna lo invitò ad accomodarsi.
La sala era pressoché vuota.
Due signori si confutavano amabilmente profonde verità politiche, sostenendosi reciprocamente con un cicchettino di rosolio davanti e qualche bicchiere di troppo sulle gote, in fondo a sinistra un tizio distinto consumava in silenzio il suo menù.
Il viaggiatore, dopo aver ordinato Mezzepenne + cotoletta + verdure + acqua, chiese gentilmente indicazioni per il bagno.
Uno sgabuzzino adibito a toilette.
Stesso ingresso per la cucina, ma immediata svolta a destra.
Corridoio angusto, e inequivocabile simbolo di ristoro da vescica piena.
Armeggiò qualche secondo con la lampo, che s'era incagliata ad una cucitura male in arnese, e svuotò con un sospiro liberatorio tutto lo stress accumulato nelle ore precedenti.
Lavò accuratamente le mani, le strofinò con l'inseparabile goccia di amuchina e ritornò in sala poco sorpreso di ritrovarsi già al tavolo la prima portata del luculliano pranzo.
Mangiava lentamente, per inerzia, come fosse doveroso fare, senza alcun gusto.
Gli capitava spesso.
Il vuoto che si proiettava davanti ai suoi occhi fu riempito dal pensiero della sera prima.
Piccola sala anche quella, locale intimo, luce soffusa, profumi migliori, senz'ombra di dubbio. E lei a fissarlo senza pronunciare una sillaba.
Ostinata nel suo silenzio.
Restia ad accettare l'ennesimo invito s'era alla fine fatta convincere. Aveva ceduto, in qualche modo, pensava il viaggiatore, come molte volte era accaduto prima.
In effetti erano settimana che lui insisteva.
Pesantemente.
Telefonate a ripetizioni, su tutte le schede che gli erano note.
Wind, Vodafone, Tim, aveva perfino resuscitato il vecchio numero Coop Voce, dopo che automaticamente partivano le varie segreterie telefoniche ad ogni tentativo.
E poi sms invasivi, invadenti, offensivi.
E le solite frasi a doppio senso su Facebook.
Dopo un tampinamento massiccio lei aveva accettato di rivederlo, la sera precedente.
Aveva indicato il locale, l'orario, e addirittura fissato il tempo massimo.
Entro le dieci avrebbero dovuto concludere la cena o quel che poteva definirsi tale. Un impegno preso giorni addietro non le dava la possibilità di sforare di un minuto.
Il viaggiatore intento a rosicchiare la sua cotoletta sfibrata sorrideva tra sé pensando come, alcuni mesi prima, lei sarebbe andata su tutte le furie per un tipo di appuntamento del genere.
Non accettava, la donna, che il tempo da dedicarle fosse limitato, o limitante.
Pretendeva l'esclusiva di pensiero e di gesti.
Ora, invece, si ritrovava a concedere il suo preziosissimo tempo.
<<Giada, non possiamo andare avanti così, almeno io. Non lo reggo più.>>
Silenzio.
<<Ti pare possibile che un mattino ci si svegli, stretti uno nell'altra e da sotto le lenzuola che tu hai scelto sospiri annoiata dicendomi candidamente che non mi ami più, che è da tempo che volevi dirmelo...>>
Silenzio.
<<Cane al guinzaglio che annoia si molla sulla strada?>>
Silenzio.
A quell'ennesimo rifiuto verso ogni forma di dialogo, o conciliazione sperata, il viaggiatore vibra un colpo secco sul tavolino, tanto da far tremare tavoli e astanti.
Eppure lei non reagisce affatto.
Glaciale, lo fissa, annoiata sempre più, poi estrae il suo telefonino dalla borsa e come se nulla fosse risponde al messaggio appena ricevuto.
<<Signore, gradisce un dolcino, un amaro, un limoncello?>>
L'immagine di lei che s'alza, il sorriso accennato di compassione, le cinquanta euro lasciate sul tavolo come elemosina sfumano nell'eco delle parole della piccola donna vigorosa dalla dentatura alternata.
<<No grazie, va bene così.>>, riesce a dire con voce tremante dalla rabbia.
Gli è sempre accaduto di immedesimarsi profondamente negli episodi che gli rimbalzano nella mente, cercati o trovati che siano.
Un leggero tremito lo scuote, la mano destra vibra senza che lui l'abbia autorizzata, e la forchetta lentamente abbandona le dita per posarsi rumorosamente sul piatto sguarnito.
Prova a respirare, sorride privo di convinzione, paga senza chiedere il resto ed esce.
Già due volte in questa giornata è stato sorpreso da una morsa d'ansia che gli ha gelato il sangue.
Di primo mattino al bar quando provava a nascondere il ricordo dell'amaro caffè sotto una boccata di sigaretta, e adesso.
Il sole ancora alto picchia violento sull'asfalto. Dalla strada sale un puzzo penetrante che sostituisce l'odore pesante della trattoria. La stretta alla gola non l'ha del tutto abbandonato. Rimane in piedi a pochi passi dalla porta cigolante del locale, e annaspa.
Prova a respirare, forte e a lungo, come nei suoi ricordi di bambino gli chiedeva di fare la madre dopo il solito pianto capriccioso, quando anche allora agitava le braccia al cielo in cerca di aria da dare ai polmoni.
Con moto repentino scioglie il nodo della cravatta e quasi si ritrova a gettarla per terra.
La blocca ancora in volo ed in quel fare inizia a sorridere, come soltanto ai matti aveva visto fare prima.
Riesce in qualche modo a stabilizzarsi e a passo di marcia si indirizza verso l'auto. In pochi rapidi gesti mette in moto e sgomma senza sapere verso dove.
Gli occhi si riempiono di lei nella notte trascorsa. Ne segue il passo leggero incurante di ciò che lo circonda.
Svolta l'angolo e come lei s'avvia verso l'automobile. La fulgida Mercedes Cl appena acquistata.
Esita.
Voci e pensieri senza alcun preavviso gli entrano nella mente, in una ressa di suoni da perdere la testa, mentre lei continua con la sua falcata reale a voltargli la schiena, in un invito che a quel punto gli appare inequivocabile.
Il vialetto silenzioso ripete il tempo dei loro passi, il tacco alto della donna svetta e segna il ritmo, lui si adegua avvicinandosi sempre più.
Allunga il braccio a sfiorarle la spalla scoperta. Lei, infastidita come in tutta la serata, si scosta e lo guarda di traverso. I suoi occhi affondano sulla pelle dell'uomo come lame incandescenti.
Ormai non respira quasi più, né pensa.
La cinge alla vita e la porta con uno scatto violento a sé. Preme le sue labbra contro la nuca mentre la donna prova a dimenarsi.
L'uomo sente un vigore che non avvertiva da anni, quando da ragazzino dopo pomeriggi interi trascorsi a nuotare usciva in spiaggia con il petto gonfio e le braccia pesanti.
La stringe ancor più forte fino a che la donna riesce di traverso ad assestargli una taccata di striscio allo stinco destro.
La ragazza è confusa, non c'è più alcuna traccia della superbia di alcuni istanti prima, gli occhi sono piccoli e luccicano, il petto ansima.
L'uomo dopo averla lasciata per pochi secondi si avventa con ferocia inaudita verso la preda. Non più al fianco, adesso le sue mani di stagno, senza avvertire alcun dolore, premono con decisa violenza lungo le venature dell'esile collo della donna.
E il volto le s'infiamma, come spesso era accaduto nelle notti di rumorosi amplessi. Adesso il rossore sulle gote non è piacere che svanisce in un battito di ciglia, ma dolore che si protrae in eterno.
La donna si arrende completamente e senza forze scivola giù, priva di grazia, sui tacchi.
Uno si spezza e rotola leggero verso il vicino tombino, restando sospeso tra le maglie della grata di ferro.
L'uomo ha la forza della paura che lo tiene ancora dritto sulla schiena.
Con fare rapido estrae le chiavi e apre l'automobile.
Poi, con delicatezza estrema, si potrebbe dire con amore perfino, adagia il corpo della donna sul sedile posteriore. Si ridesta un attimo e dopo interminabili minuti di black-out ritorna a pensare.
Eppure la mente non risponde a dovere, ancora voci, ancora ricordi, ancora lo sguardo indolente di lei che non cede d'un passo alle sue richieste.
D'improvviso si guarda intorno, consapevole del fatto che una realtà lo circonda, fatta di altri esseri umani. Ma non scorge nessuno.
In quel medesimo istante, venuto fuori dal ricordo in un altro momento zero diremmo, consapevole di non avere nessuno intorno, una violenta e insensata accelerazione in curva lo scaraventa dall'altra parte della corsia.
D'istinto prova a rimettere in carreggiata l'auto che ormai sbanda senza alcuna possibilità di controllo.
La disperata frenata che segue lo consegna alla massicciata sulla destra devastando il luccicante fronte della sua preziosa automobile.
La stradale accorsa sul posto dell'incidente trova il conducente sbalzato fuori, con il cranio fracassato sul vetro dal violento impatto e dal bagagliaio posteriore scorge la sagoma di un polpaccio tornito di donna.
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