RACCONTI
Ignazio Ferlito
La rosa dallo stelo di cristallo
Tania era immobile sull’uscio di casa. Sulle spalle aveva uno zainetto rosa, quello che le aveva regalato la zia Lyudmila per l’ultimo compleanno, e teneva per un braccio Tommy, l’orsacchiotto di pezza che adesso penzolava a pochi centimetri da terra in una posa dai tratti quasi drammatici. Non l’avrebbe mai lasciato da solo in casa. Per nessuna ragione al mondo, neanche quando il suo, di mondo, stava per prendere una piega inaspettata.
Viktoria, la sorella più piccola, continuava a colpire il tavolo con il biberon che aveva tra le mani; era attratta da quel suono secco e ripetitivo, attenuato dalla cerata con dei frutti disegnati sopra, che riempiva il silenzio della stanza insieme al rumore dei passi del padre che venivano da un punto imprecisato della casa. Roman stava cercando di prendere il necessario, sforzandosi di farlo mentre pianificava i vari punti di una lista mentale di ciò che sarebbe servito per quella fuga improvvisata. Pregava, Roman. Lo faceva silenziosamente e freneticamente, senza un ordine preciso. Pregava che a Natalia, Tania e alla piccola Viki non fosse accaduto nulla, che tutto sarebbe andato per il meglio. E che fosse finito in fretta.
Prese un mazzo di contanti che aveva dentro il comodino, i documenti di tutta la famiglia e si affrettò a cercare le valigie.
“Eccoti!”, pensò, mentre afferrava l’enorme valigia argentata che aveva in mente. Corse nella stanza delle bambine a prendere tutti i vestiti che le sue braccia riuscivano a trasportare in un unico viaggio. Puntava alle cose invernali, principalmente: si gelava fuori e, per quello che ne sapeva, sarebbero potuti rimanere fuori casa per parecchio tempo.
«Dov’è l’altra?» disse Roman, dando un volume ai suoi pensieri. «Era qua l’ultima volta!» Non è possibile sia sparita, tornò a pensare. «Natalia!» urlò alla moglie. «Natalia!»
La moglie sedeva nel letto matrimoniale, con la faccia stretta tra le mani umide di lacrime. Non riusciva a credere a quello che stava accadendo. Non lo voleva accettare.
«Natalia» urlò Roman entrando nella stanza della coppia. «Dov’è l’altra valigia?». Scostò delicatamente le dita dal viso della moglie che scoprirono un paio di occhi nocciola, resi enormi e lucenti dalle lacrime. «Ho bisogno di te» sussurrò Roman. «Ho bisogno di te adesso.»
«Non voglio andare» singhiozzò Natalia.
«Torneremo, tesoro» disse con un groppo alla gola, abbracciando la moglie.
Si rese conto solo in quel momento che non credeva a quello che aveva appena detto; quelle parole, nell’aria, sembravano aver acceso dentro di Roman una spia che fino a quel momento era rimasta spenta. Rabbrividì. Scosse la testa cercando di mandare via i pensieri e baciò la guancia della moglie, prima di tornare a abbracciarla.
«Nella stanza delle bambine» disse Natalia con la voce rotta dal pianto, asciugandosi gli occhi con i dorsi di entrambe le mani. «Dentro l’armadio.»
Roman scattò in piedi e si diresse verso la stanza di Tania e Viktoria, percorrendo l’intero corridoio, superando, in ordine, il bagno, la cucina e il salone d’ingresso, diretto verso l’altra valigia. Si fermò di fronte la porta socchiusa che lasciava intravedere uno spicchio di parete rosa. Sentì nuovamente stringere il petto; tornò indietro, compiendo appena qualche passo, silenziosamente, e si affacciò dall’arco nella parete che delimitava il salone: osservò l’innocenza dipinta sul volto delle sue figlie. Rimase, per un attimo, incantato dai sorrisi della piccola Viki, poi spostò lo sguardo sull’altra figlia. Tania teneva stretto a sé Tommy; il suo volto, dalla posizione di Roman, veniva coperto in parte dalla testa bruna dell’orsacchiotto. Era visibile solo un frammento blu, contornato da una chioma folta e dorata: le sue pupille sfarfallavano, lasciando tradire il gesto di rimprovero – come una madre che redarguisce il proprio figlio – che si stava compiendo. Fece anche un cenno con il capo, prima di stringere Tommy in un abbraccio. Il viso di Roman si aprì involontariamente in un sorriso. Poi tornò a pensare alla valigia e si precipitò di corsa verso la stanza alla fine del corridoio.
Ammucchiò in questa quasi tutto quello che la dispensa conteneva; la chiuse velocemente e si diresse verso Natalia per radunare la famiglia con l’intenzione di andare.
Arrivato in strada, lanciò le valigie al suolo stremato. La pioggia del cielo di Kiev cadeva lentamente ma con regolarità. La strada era deserta. Si mise al riparo sotto la fila di balconi del palazzo dove abitava, afferrando per una mano Tania che tirò con sé il resto della famiglia. Roman rimase incantato per un attimo dal movimento delle gocce d’acqua; poi spostò velocemente lo sguardo su ogni componente della famiglia: cercò di fare una fotografia dei loro volti per riporla in un cassetto d’emergenza dentro di sé. Non aveva ancora chiaro quello che sarebbe potuto accadere, ma volle prendere in considerazione qualsiasi eventualità. “Non è da escludere” pensò stringendo inavvertitamente la mano di Tania, prima di scacciare via i pensieri che gli avevano inumidito gli occhi. Tania girò il capo nella sua direzione per un istante. Poi lanciò uno sguardo carico di intensità verso Tommy.
Roman tornò a guardare la strada. “Sembra quasi la stessa di ogni mattina” pensò Roman. “Saranno già andati tutti. Spero questo non autorizzi la gente a dare di matto. Chissà quante persone saranno in giro a cercare il necessario. O peggio, a prenderselo con la forza.”
Viktoria fu improvvisamente catturata da qualcosa nel cielo. Alzò le braccia – aprendo e chiudendo i pugni – con l’idea di afferrare quella visione: un uccello tagliò il cielo grigio a metà, con un volo preciso e rapido. Diventava sempre più grande lasciando trasparire la sua vera natura. Aveva piccole ali e un corpo liscio, completamente nero. Si abbatté violento sul suo nido, aprendo una voragine di una decina di metri. Il piano colpito, a una cinquantina di metri dalla famiglia, andò velocemente in fiamme, trasformando la pioggia in un misto di cenere e acqua. Rimasero fermi a osservare quella scena per un tempo indefinito, fulminati dalla realtà senza nome che stavano vivendo. Le fiamme stavano divorando quella parte di edificio nonostante la pioggia.
Tania strattonò il giubbotto del padre:
«Perché non piove più forte, papà?».
Roman non lo sapeva.
Non poteva sapere che non piove mai abbastanza quando brucia una terra. Qualsiasi terra.
Nemmeno su quei campi di battaglia in fiamme che erano le loro anime.
Viktoria, la sorella più piccola, continuava a colpire il tavolo con il biberon che aveva tra le mani; era attratta da quel suono secco e ripetitivo, attenuato dalla cerata con dei frutti disegnati sopra, che riempiva il silenzio della stanza insieme al rumore dei passi del padre che venivano da un punto imprecisato della casa. Roman stava cercando di prendere il necessario, sforzandosi di farlo mentre pianificava i vari punti di una lista mentale di ciò che sarebbe servito per quella fuga improvvisata. Pregava, Roman. Lo faceva silenziosamente e freneticamente, senza un ordine preciso. Pregava che a Natalia, Tania e alla piccola Viki non fosse accaduto nulla, che tutto sarebbe andato per il meglio. E che fosse finito in fretta.
Prese un mazzo di contanti che aveva dentro il comodino, i documenti di tutta la famiglia e si affrettò a cercare le valigie.
“Eccoti!”, pensò, mentre afferrava l’enorme valigia argentata che aveva in mente. Corse nella stanza delle bambine a prendere tutti i vestiti che le sue braccia riuscivano a trasportare in un unico viaggio. Puntava alle cose invernali, principalmente: si gelava fuori e, per quello che ne sapeva, sarebbero potuti rimanere fuori casa per parecchio tempo.
«Dov’è l’altra?» disse Roman, dando un volume ai suoi pensieri. «Era qua l’ultima volta!» Non è possibile sia sparita, tornò a pensare. «Natalia!» urlò alla moglie. «Natalia!»
La moglie sedeva nel letto matrimoniale, con la faccia stretta tra le mani umide di lacrime. Non riusciva a credere a quello che stava accadendo. Non lo voleva accettare.
«Natalia» urlò Roman entrando nella stanza della coppia. «Dov’è l’altra valigia?». Scostò delicatamente le dita dal viso della moglie che scoprirono un paio di occhi nocciola, resi enormi e lucenti dalle lacrime. «Ho bisogno di te» sussurrò Roman. «Ho bisogno di te adesso.»
«Non voglio andare» singhiozzò Natalia.
«Torneremo, tesoro» disse con un groppo alla gola, abbracciando la moglie.
Si rese conto solo in quel momento che non credeva a quello che aveva appena detto; quelle parole, nell’aria, sembravano aver acceso dentro di Roman una spia che fino a quel momento era rimasta spenta. Rabbrividì. Scosse la testa cercando di mandare via i pensieri e baciò la guancia della moglie, prima di tornare a abbracciarla.
«Nella stanza delle bambine» disse Natalia con la voce rotta dal pianto, asciugandosi gli occhi con i dorsi di entrambe le mani. «Dentro l’armadio.»
Roman scattò in piedi e si diresse verso la stanza di Tania e Viktoria, percorrendo l’intero corridoio, superando, in ordine, il bagno, la cucina e il salone d’ingresso, diretto verso l’altra valigia. Si fermò di fronte la porta socchiusa che lasciava intravedere uno spicchio di parete rosa. Sentì nuovamente stringere il petto; tornò indietro, compiendo appena qualche passo, silenziosamente, e si affacciò dall’arco nella parete che delimitava il salone: osservò l’innocenza dipinta sul volto delle sue figlie. Rimase, per un attimo, incantato dai sorrisi della piccola Viki, poi spostò lo sguardo sull’altra figlia. Tania teneva stretto a sé Tommy; il suo volto, dalla posizione di Roman, veniva coperto in parte dalla testa bruna dell’orsacchiotto. Era visibile solo un frammento blu, contornato da una chioma folta e dorata: le sue pupille sfarfallavano, lasciando tradire il gesto di rimprovero – come una madre che redarguisce il proprio figlio – che si stava compiendo. Fece anche un cenno con il capo, prima di stringere Tommy in un abbraccio. Il viso di Roman si aprì involontariamente in un sorriso. Poi tornò a pensare alla valigia e si precipitò di corsa verso la stanza alla fine del corridoio.
Ammucchiò in questa quasi tutto quello che la dispensa conteneva; la chiuse velocemente e si diresse verso Natalia per radunare la famiglia con l’intenzione di andare.
Arrivato in strada, lanciò le valigie al suolo stremato. La pioggia del cielo di Kiev cadeva lentamente ma con regolarità. La strada era deserta. Si mise al riparo sotto la fila di balconi del palazzo dove abitava, afferrando per una mano Tania che tirò con sé il resto della famiglia. Roman rimase incantato per un attimo dal movimento delle gocce d’acqua; poi spostò velocemente lo sguardo su ogni componente della famiglia: cercò di fare una fotografia dei loro volti per riporla in un cassetto d’emergenza dentro di sé. Non aveva ancora chiaro quello che sarebbe potuto accadere, ma volle prendere in considerazione qualsiasi eventualità. “Non è da escludere” pensò stringendo inavvertitamente la mano di Tania, prima di scacciare via i pensieri che gli avevano inumidito gli occhi. Tania girò il capo nella sua direzione per un istante. Poi lanciò uno sguardo carico di intensità verso Tommy.
Roman tornò a guardare la strada. “Sembra quasi la stessa di ogni mattina” pensò Roman. “Saranno già andati tutti. Spero questo non autorizzi la gente a dare di matto. Chissà quante persone saranno in giro a cercare il necessario. O peggio, a prenderselo con la forza.”
Viktoria fu improvvisamente catturata da qualcosa nel cielo. Alzò le braccia – aprendo e chiudendo i pugni – con l’idea di afferrare quella visione: un uccello tagliò il cielo grigio a metà, con un volo preciso e rapido. Diventava sempre più grande lasciando trasparire la sua vera natura. Aveva piccole ali e un corpo liscio, completamente nero. Si abbatté violento sul suo nido, aprendo una voragine di una decina di metri. Il piano colpito, a una cinquantina di metri dalla famiglia, andò velocemente in fiamme, trasformando la pioggia in un misto di cenere e acqua. Rimasero fermi a osservare quella scena per un tempo indefinito, fulminati dalla realtà senza nome che stavano vivendo. Le fiamme stavano divorando quella parte di edificio nonostante la pioggia.
Tania strattonò il giubbotto del padre:
«Perché non piove più forte, papà?».
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