RACCONTI
Giovanna Piazza
La tigre
Una sera di pioggia, dopo molto vagare, un viandante dalla pelle di ambra trova rifugio in una casa.
Quando ne esce la mattina seguente, s’imbatte in una schiera di strani figuri in divisa, appoggiati ai fucili proprio dinnanzi all’uscio.
I tre in prima fila, dai volti stanchi e segnati, gli chiedono da dove viene.
Spiega che è arrivato dal mare, ha bussato alle porte e da nessuno ricevuto ospitalità, così si è riparato sotto un pesco del giardino e poi ha varcato la soglia della casa, a motivo dell’acqua che scendeva copiosa.
Uno gli dice che è stato fortunato a uscire da lì. Che nella casa si nasconde una tigre.
Non c’è nessuno, risponde il viandante.
Gli uomini entrano e vedono un bambino addormentato sulla schiena della bestia, che li fissa.
Caricano i fucili.
Prendono la mira.
II
Nella città bianca, tra i vicoli e l’inizio della radura, stava una casa senza pareti, fatta di larghe aperture e circondata da un giardino alberato, al centro del quale si ergeva un pozzo coperto dall’edera.
Dentro la casa vivevano una tigre e un bambino.
Il bambino giocava e la tigre rimaneva immobile la gran parte del tempo.
Quando c’era della discordia o una vicinanza affrettata tra loro, capitava che la tigre mangiasse del corpo del bambino, che così cresceva, si faceva robusto e lungo, e si copriva di peluria, tanto da raggiungere le sembianze di un uomo.
Divorando le parti e le carni, la tigre diveniva piccola, minuta, fino ad assumere l’aspetto di un gatto.
L’uomo e il gatto vivevano indifferenti l’uno all’altro. L’uomo leggeva, scriveva, pensava a cose grandi e distanti, in silenzio. Il gatto usciva dalla casa, attirato dai tetti e dall’odore animale.
Dopo alcuni giorni in solitudine, senza un motivo, una gran malinconia sorprendeva l’uomo, che si lamentava di non sentire più, era come chiuso in quel suo corpo lontano dal mondo.
Quando il gatto faceva ritorno, all’uomo bastava la gioia a renderlo bambino.
Il gatto si gonfiava di vanità e forza nel ricevere l’affetto e l’attenzione dell’uomo che non era più uomo. Ed era di nuovo una tigre.
Se faceva il ritroso e scansava le effusioni dell’altro che piano piano rimpiccioliva, il gatto sentiva su di sé i gesti sempre più violenti del bambino, le carezze farsi timide molestie e poi atti decisi, chiari.
Il bambino lo rincorreva, lo prendeva per la coda, gli tirava i calci ogni volta che tentava di nascondersi in un vano. E la paura impediva al gatto di tornare alla sua forma consueta.
Quando però una rabbia oscura e sconosciuta gli veniva in aiuto dopo tante angherie, come una salvezza del corpo, il gatto principiava a graffiare il bambino e ad attaccarsi ai suoi arti; mentre cercava furente di raggiungere e percorrere le sue membra, un’energia nuova e ingovernabile invadeva i suoi movimenti, lo rendeva estraneo a se stesso e lo costringeva a lasciare la preda.
La tigre andava silenziosa in un angolo e appoggiava la testa sulle zampe; il bambino, intanto, come se nulla fosse successo, giocava con dei legni, non visto; li batteva uno sull’altro, inseguendo un ritmo irregolare.
III
Quando la città bianca era illuminata dalla luna o dentro la notte nera, la tigre vagava per le strade deserte e il bambino le stava in groppa.
Al sicuro sopra l’animale, si abbandonava alla visione dei paesaggi oscuri, delle linee e delle ombre, fino a che non chiudeva gli occhi.
Sostavano sotto le finestre delle case silenziose per un po’ e poi andavano via, correndo tra i vicoli, si lasciavano portare dai venti.
Nascevano così i sogni degli uomini.
La tigre si arrestava all’angolo della strada. Mordeva e mangiava un piede del bambino addormentato e prendeva la via del nosocomio, lasciando l’uomo disteso. Il gatto silenzioso entrava da un pertugio e vagava per i corridoi deserti, sotto i neon. Entrava nelle stanze, balzava sui letti e si accovacciava ai piedi di chi moriva in solitudine.
L’uomo all’alba si destava sovente con la schiena al muro e trovava accanto a sé un berretto che conteneva delle monete. La gente camminava avanti e indietro, qualcuno lo ignorava, qualcuno mandava nella sua direzione parole di biasimo e disapprovazione, qualcun altro gli faceva la carità.
Lui stava immobile, senza capire.
Un giorno riconobbe un vecchio amico che passeggiava sull’altro lato del marciapiede guardando avanti; tempo prima, all’improvviso qualcosa tra loro si era consumato e non si erano cercati più. L’uomo avrebbe voluto chiamarlo, ma sentiva che non gli era possibile alzare la voce. Non aveva mai alzato la voce. Così rimase fermo, mentre l’altro passava e si faceva sempre più piccolo, fino a scomparire.
IV
Avevano provato più volte a separarli.
L’ultima volta, catturarono la tigre mediante della carne e grazie ad alcuni vestiti del bambino, che affidarono al ricovero degli orfani.
Passava il tempo e il corpo del bambino rimaneva piccolo, i denti fragili e lui non esprimeva che suoni disarticolati. E piangeva spesso, ma senza urlare, perché non sapeva portar dispiacere. Sembrava che non mettesse pensiero e intenzione nelle azioni, vuote ma precise, e senza bassezza, pari a quelle della natura.
All’inizio, grandi e piccoli ne rimasero stupiti, poi vollero, con parole e atti, che lui non fosse così diverso da loro; tuttavia, facevano presto a dimenticarlo e ritornavano ai loro giochi, alle loro vite.
Soltanto una donna, a servizio presso quell’istituto, si prendeva cura del bambino, lo proteggeva e gli prestava attenzione quando gli altri gli davan tormento o lo lasciavano in disparte, perché era piccolo e sempre identico a sé. Una sera, dopo aver deposto stracci e scope ed essersi sistemata capelli e vestito con un movimento rapido di chi non ha tempo per cose vane, si recò a udienza dal direttore e chiese di poter prendere il bambino con sé.
Il bambino andò a vivere con la donna e il marito. Ogni giorno, uno alla volta, controllavano entrambi la sua altezza e il suo peso, cercavano in tutti i modi di insegnare al bambino a parlare. Scoprirono presto che mangiava pochissimo e si nutriva come per caso, distrattamente, e così, dopo aver cucinato le più rare prelibatezze, iniziarono a obbligarlo a ingoiare il cibo, che lui subito rigettava. Talora si mordeva le dita o un braccio o un piede e poi rimaneva a lungo assorto.
Chiamarono un medico e poi un altro, e tutti ammisero che quel male superava ogni loro scienza.
Uno, il più bravo, toccava continuamente il corpo del bambino, alla ricerca di un segno.
Chissà a cosa pensa il dottore quando mette le mani su quel corpo, domandò il marito. Lei lo guardò diritto negli occhi e gli diede uno schiaffo.
Il marito e la donna non dormivano più al pensiero di quel bambino che non dimostrava affetto e non ne prendeva. Si davano pena e non sapevano che cosa fare. Discussero l’idea di riportare il bambino all’istituto, ma significò subito per entrambi ammettere una ingiusta sconfitta; arrivarono a pianificare di condurlo nel bosco e lasciarlo lì. Sognavano spesso che cadesse nel pozzo coperto dall’edera.
V
Intanto, la tigre, chiusa in una gabbia ai confini della città, era sorvegliata da tre custodi, uno alto, uno basso e uno magro, che le lanciavano i pasti, pulivano la gabbia e immaginavano a turno ad alta voce quanto fosse difficile ammaestrarla.
Il magro si stupiva che l’alto assecondasse sempre il ragionare del basso, che non opponesse sue convinzioni, quasi non ne avesse di proprie, come se la sua arrendevolezza fosse un segno di vulnerabilità e di viltà. L’alto ammirava molto il coraggio del basso e credeva alle sue costruzioni con le parole, accettava le sue correzioni continue, perché era convinto che il bene, cioè la riuscita del lavoro o del conversare tra loro, fosse più importante di una piccola mortificazione della propria vanità.
Il basso cercava la compagnia dell’alto, vicino a lui gli veniva la smania di dire stramberie e pensieri oscuri, ma nel parlare e nel chiedere non conosceva mezze misure, che erano per lui tutte falsità, e sentiva in cuor suo che l’altro voleva a ogni costo essergli amico, ma inferiore, come per stare al sicuro dall’uguaglianza, senza mostrare chi era, come in difesa.
L’alto e il basso credevano che il magro fosse stupido, ma se il basso era convinto che tutti gli stupidi potessero diventare intelligenti, l’alto era certo che la stupidità di quello fosse irrimediabile.
La tigre sentiva che i tre avevano una comune paura. Veniva ammaestrata per il circo itinerante.
Un dì il proprietario del circo portò suo figlio a guardare la tigre. Quando il figlio si avvicinò, la tigre corse fino alle sbarre e cercò di strappare il dito puntato contro il suo manto, ma non vi riuscì. Il figlio pianse. Alla tigre venne iniettato un potente sonnifero.
VI
È già scesa l’oscurità quando il bambino scappa dalla casa della donna e di suo marito. Cerca la tigre. E la trova.
Allunga il più possibile la piccola mano verso di essa, fino a che la tigre non gliela mangia.
Il gatto esce a coda alta da uno dei tanti spazi tra le sbarre e si perde nell’oscurità. Nessuna gratitutine ha mostrato all’uomo che, in preda a una grande stanchezza, stringe i ferri tra i pugni fissando il niente racchiuso.
Il giorno dopo, i guardiani dicono che la visione è incredibile. Il cancello serrato, la gabbia vuota, il ferro intatto.
Inciampano su un uomo malconcio e con gli occhiali, sdraiato sulla rena, e scrutano le cicatrici profonde ai suoi polsi.
Li conosco i tipi come questo, esclama il basso, sicuro.
Il basso allora parla della materia, e dice che ormai non piace a nessuno, che anche il corpo ora è solo un ingombro; che le parole, sì, piacciono, quando sembra che non chiedano niente, perché non si vedono. E poi tutti però ad attendere prove, dimostrazioni, cause di ciò che succede e subito dopo ad afferrare e fare ordine, a distinguere e accumunare, a decidere ciò che è migliore e ciò che è peggiore. L’alto annuisce in silenzio come davanti a una grande saggezza, mentre muove lontano il pensiero che sia soltanto il parlare di un essere solo con un dolore muto e una moglie bellissima che un giorno in un incidente ha perso le mani.
Quasi fosse stato accusato, il magro grida che presto di certo perderanno il lavoro. Però non smette di fissare l’uomo, pensa che un po’ gli somiglia, che anche lui nasconde una immensa mestizia che fa dolci ed eleganti i suoi modi di povero.
Per punizione, ordina il direttore, Sarete voi a trovare la bestia. Avrete indietro il vostro posto e io la mia pelliccia. Quella tigre ormai non serve più a molto. Non c’è un domatore che riesca a capire dove è collocato in lei il male.
VII
Quando non studia i viventi, le pietre e le parole che la gente dà e si prende (studiare è l’unico piacere che gli rimane, e non è che lo faccia per l’amore della quantità o della distinzione di sé e delle cose – non ha più voglia di far vedere a qualcuno quel che ha imparato –, giacché sa che non migliorerà mai, non crescerà mai, che non esiste la proprietà), l’uomo va per faccende inutili da nessuno richieste, insegue le bestie, formiche e canti di uccelli sconosciuti, e gli pare di riuscire finalmente a non avere pensieri di male per gli altri, guarda le cose come chi sta per lasciarle ed esserne abbandonato. Mangia ciò che trova nel bosco o tra i resti dei mercati che chiudono. Non sa servirsi del fuoco per cucinare e non riceve cibo perché non ha nulla da dare in cambio, neppure un po’ di riconoscenza a divinità buone che non esistono.
Gli sembra chiaro ogni essere e capace di tenere il male presso di sé; pensa anche, non senza vergogna, che il bene e il male sono la medesima cosa, e che è questa l’unica innocenza possibile. Lui ha guardato nel fondo del pozzo coperto dall’edera e ha trovato nostalgia – un sentimento che non ha a che fare però con le fantasie né con la giovinezza – di qualcosa che è stato perduto senza che mai fosse preso, come una superficie lontana.
Sa che un viandante varcherà la soglia della casa con passo pesante di acqua, dopo aver cercato un nascondiglio tra gli alberi; la sua debolezza gli impedirà di avere timori.
In un angolo ci saranno la tigre e il bambino sulla sua schiena. Nel buio brilleranno gli occhi dell’animale; ma il viandante, che viene da un mondo altro, ora che la pioggia è finita tutta dentro i campi e nei fiumi e nel centro dei mari, sentirà soltanto la luce bianca delle stelle unirsi al caldo oscuro della terra.
E farà un sogno.
Quando ne esce la mattina seguente, s’imbatte in una schiera di strani figuri in divisa, appoggiati ai fucili proprio dinnanzi all’uscio.
I tre in prima fila, dai volti stanchi e segnati, gli chiedono da dove viene.
Spiega che è arrivato dal mare, ha bussato alle porte e da nessuno ricevuto ospitalità, così si è riparato sotto un pesco del giardino e poi ha varcato la soglia della casa, a motivo dell’acqua che scendeva copiosa.
Uno gli dice che è stato fortunato a uscire da lì. Che nella casa si nasconde una tigre.
Non c’è nessuno, risponde il viandante.
Gli uomini entrano e vedono un bambino addormentato sulla schiena della bestia, che li fissa.
Caricano i fucili.
Prendono la mira.
II
Nella città bianca, tra i vicoli e l’inizio della radura, stava una casa senza pareti, fatta di larghe aperture e circondata da un giardino alberato, al centro del quale si ergeva un pozzo coperto dall’edera.
Dentro la casa vivevano una tigre e un bambino.
Il bambino giocava e la tigre rimaneva immobile la gran parte del tempo.
Quando c’era della discordia o una vicinanza affrettata tra loro, capitava che la tigre mangiasse del corpo del bambino, che così cresceva, si faceva robusto e lungo, e si copriva di peluria, tanto da raggiungere le sembianze di un uomo.
Divorando le parti e le carni, la tigre diveniva piccola, minuta, fino ad assumere l’aspetto di un gatto.
L’uomo e il gatto vivevano indifferenti l’uno all’altro. L’uomo leggeva, scriveva, pensava a cose grandi e distanti, in silenzio. Il gatto usciva dalla casa, attirato dai tetti e dall’odore animale.
Dopo alcuni giorni in solitudine, senza un motivo, una gran malinconia sorprendeva l’uomo, che si lamentava di non sentire più, era come chiuso in quel suo corpo lontano dal mondo.
Quando il gatto faceva ritorno, all’uomo bastava la gioia a renderlo bambino.
Il gatto si gonfiava di vanità e forza nel ricevere l’affetto e l’attenzione dell’uomo che non era più uomo. Ed era di nuovo una tigre.
Se faceva il ritroso e scansava le effusioni dell’altro che piano piano rimpiccioliva, il gatto sentiva su di sé i gesti sempre più violenti del bambino, le carezze farsi timide molestie e poi atti decisi, chiari.
Il bambino lo rincorreva, lo prendeva per la coda, gli tirava i calci ogni volta che tentava di nascondersi in un vano. E la paura impediva al gatto di tornare alla sua forma consueta.
Quando però una rabbia oscura e sconosciuta gli veniva in aiuto dopo tante angherie, come una salvezza del corpo, il gatto principiava a graffiare il bambino e ad attaccarsi ai suoi arti; mentre cercava furente di raggiungere e percorrere le sue membra, un’energia nuova e ingovernabile invadeva i suoi movimenti, lo rendeva estraneo a se stesso e lo costringeva a lasciare la preda.
La tigre andava silenziosa in un angolo e appoggiava la testa sulle zampe; il bambino, intanto, come se nulla fosse successo, giocava con dei legni, non visto; li batteva uno sull’altro, inseguendo un ritmo irregolare.
III
Quando la città bianca era illuminata dalla luna o dentro la notte nera, la tigre vagava per le strade deserte e il bambino le stava in groppa.
Al sicuro sopra l’animale, si abbandonava alla visione dei paesaggi oscuri, delle linee e delle ombre, fino a che non chiudeva gli occhi.
Sostavano sotto le finestre delle case silenziose per un po’ e poi andavano via, correndo tra i vicoli, si lasciavano portare dai venti.
Nascevano così i sogni degli uomini.
La tigre si arrestava all’angolo della strada. Mordeva e mangiava un piede del bambino addormentato e prendeva la via del nosocomio, lasciando l’uomo disteso. Il gatto silenzioso entrava da un pertugio e vagava per i corridoi deserti, sotto i neon. Entrava nelle stanze, balzava sui letti e si accovacciava ai piedi di chi moriva in solitudine.
L’uomo all’alba si destava sovente con la schiena al muro e trovava accanto a sé un berretto che conteneva delle monete. La gente camminava avanti e indietro, qualcuno lo ignorava, qualcuno mandava nella sua direzione parole di biasimo e disapprovazione, qualcun altro gli faceva la carità.
Lui stava immobile, senza capire.
Un giorno riconobbe un vecchio amico che passeggiava sull’altro lato del marciapiede guardando avanti; tempo prima, all’improvviso qualcosa tra loro si era consumato e non si erano cercati più. L’uomo avrebbe voluto chiamarlo, ma sentiva che non gli era possibile alzare la voce. Non aveva mai alzato la voce. Così rimase fermo, mentre l’altro passava e si faceva sempre più piccolo, fino a scomparire.
IV
Avevano provato più volte a separarli.
L’ultima volta, catturarono la tigre mediante della carne e grazie ad alcuni vestiti del bambino, che affidarono al ricovero degli orfani.
Passava il tempo e il corpo del bambino rimaneva piccolo, i denti fragili e lui non esprimeva che suoni disarticolati. E piangeva spesso, ma senza urlare, perché non sapeva portar dispiacere. Sembrava che non mettesse pensiero e intenzione nelle azioni, vuote ma precise, e senza bassezza, pari a quelle della natura.
All’inizio, grandi e piccoli ne rimasero stupiti, poi vollero, con parole e atti, che lui non fosse così diverso da loro; tuttavia, facevano presto a dimenticarlo e ritornavano ai loro giochi, alle loro vite.
Soltanto una donna, a servizio presso quell’istituto, si prendeva cura del bambino, lo proteggeva e gli prestava attenzione quando gli altri gli davan tormento o lo lasciavano in disparte, perché era piccolo e sempre identico a sé. Una sera, dopo aver deposto stracci e scope ed essersi sistemata capelli e vestito con un movimento rapido di chi non ha tempo per cose vane, si recò a udienza dal direttore e chiese di poter prendere il bambino con sé.
Il bambino andò a vivere con la donna e il marito. Ogni giorno, uno alla volta, controllavano entrambi la sua altezza e il suo peso, cercavano in tutti i modi di insegnare al bambino a parlare. Scoprirono presto che mangiava pochissimo e si nutriva come per caso, distrattamente, e così, dopo aver cucinato le più rare prelibatezze, iniziarono a obbligarlo a ingoiare il cibo, che lui subito rigettava. Talora si mordeva le dita o un braccio o un piede e poi rimaneva a lungo assorto.
Chiamarono un medico e poi un altro, e tutti ammisero che quel male superava ogni loro scienza.
Uno, il più bravo, toccava continuamente il corpo del bambino, alla ricerca di un segno.
Chissà a cosa pensa il dottore quando mette le mani su quel corpo, domandò il marito. Lei lo guardò diritto negli occhi e gli diede uno schiaffo.
Il marito e la donna non dormivano più al pensiero di quel bambino che non dimostrava affetto e non ne prendeva. Si davano pena e non sapevano che cosa fare. Discussero l’idea di riportare il bambino all’istituto, ma significò subito per entrambi ammettere una ingiusta sconfitta; arrivarono a pianificare di condurlo nel bosco e lasciarlo lì. Sognavano spesso che cadesse nel pozzo coperto dall’edera.
V
Intanto, la tigre, chiusa in una gabbia ai confini della città, era sorvegliata da tre custodi, uno alto, uno basso e uno magro, che le lanciavano i pasti, pulivano la gabbia e immaginavano a turno ad alta voce quanto fosse difficile ammaestrarla.
Il magro si stupiva che l’alto assecondasse sempre il ragionare del basso, che non opponesse sue convinzioni, quasi non ne avesse di proprie, come se la sua arrendevolezza fosse un segno di vulnerabilità e di viltà. L’alto ammirava molto il coraggio del basso e credeva alle sue costruzioni con le parole, accettava le sue correzioni continue, perché era convinto che il bene, cioè la riuscita del lavoro o del conversare tra loro, fosse più importante di una piccola mortificazione della propria vanità.
Il basso cercava la compagnia dell’alto, vicino a lui gli veniva la smania di dire stramberie e pensieri oscuri, ma nel parlare e nel chiedere non conosceva mezze misure, che erano per lui tutte falsità, e sentiva in cuor suo che l’altro voleva a ogni costo essergli amico, ma inferiore, come per stare al sicuro dall’uguaglianza, senza mostrare chi era, come in difesa.
L’alto e il basso credevano che il magro fosse stupido, ma se il basso era convinto che tutti gli stupidi potessero diventare intelligenti, l’alto era certo che la stupidità di quello fosse irrimediabile.
La tigre sentiva che i tre avevano una comune paura. Veniva ammaestrata per il circo itinerante.
Un dì il proprietario del circo portò suo figlio a guardare la tigre. Quando il figlio si avvicinò, la tigre corse fino alle sbarre e cercò di strappare il dito puntato contro il suo manto, ma non vi riuscì. Il figlio pianse. Alla tigre venne iniettato un potente sonnifero.
VI
È già scesa l’oscurità quando il bambino scappa dalla casa della donna e di suo marito. Cerca la tigre. E la trova.
Allunga il più possibile la piccola mano verso di essa, fino a che la tigre non gliela mangia.
Il gatto esce a coda alta da uno dei tanti spazi tra le sbarre e si perde nell’oscurità. Nessuna gratitutine ha mostrato all’uomo che, in preda a una grande stanchezza, stringe i ferri tra i pugni fissando il niente racchiuso.
Il giorno dopo, i guardiani dicono che la visione è incredibile. Il cancello serrato, la gabbia vuota, il ferro intatto.
Inciampano su un uomo malconcio e con gli occhiali, sdraiato sulla rena, e scrutano le cicatrici profonde ai suoi polsi.
Li conosco i tipi come questo, esclama il basso, sicuro.
Il basso allora parla della materia, e dice che ormai non piace a nessuno, che anche il corpo ora è solo un ingombro; che le parole, sì, piacciono, quando sembra che non chiedano niente, perché non si vedono. E poi tutti però ad attendere prove, dimostrazioni, cause di ciò che succede e subito dopo ad afferrare e fare ordine, a distinguere e accumunare, a decidere ciò che è migliore e ciò che è peggiore. L’alto annuisce in silenzio come davanti a una grande saggezza, mentre muove lontano il pensiero che sia soltanto il parlare di un essere solo con un dolore muto e una moglie bellissima che un giorno in un incidente ha perso le mani.
Quasi fosse stato accusato, il magro grida che presto di certo perderanno il lavoro. Però non smette di fissare l’uomo, pensa che un po’ gli somiglia, che anche lui nasconde una immensa mestizia che fa dolci ed eleganti i suoi modi di povero.
Per punizione, ordina il direttore, Sarete voi a trovare la bestia. Avrete indietro il vostro posto e io la mia pelliccia. Quella tigre ormai non serve più a molto. Non c’è un domatore che riesca a capire dove è collocato in lei il male.
VII
Quando non studia i viventi, le pietre e le parole che la gente dà e si prende (studiare è l’unico piacere che gli rimane, e non è che lo faccia per l’amore della quantità o della distinzione di sé e delle cose – non ha più voglia di far vedere a qualcuno quel che ha imparato –, giacché sa che non migliorerà mai, non crescerà mai, che non esiste la proprietà), l’uomo va per faccende inutili da nessuno richieste, insegue le bestie, formiche e canti di uccelli sconosciuti, e gli pare di riuscire finalmente a non avere pensieri di male per gli altri, guarda le cose come chi sta per lasciarle ed esserne abbandonato. Mangia ciò che trova nel bosco o tra i resti dei mercati che chiudono. Non sa servirsi del fuoco per cucinare e non riceve cibo perché non ha nulla da dare in cambio, neppure un po’ di riconoscenza a divinità buone che non esistono.
Gli sembra chiaro ogni essere e capace di tenere il male presso di sé; pensa anche, non senza vergogna, che il bene e il male sono la medesima cosa, e che è questa l’unica innocenza possibile. Lui ha guardato nel fondo del pozzo coperto dall’edera e ha trovato nostalgia – un sentimento che non ha a che fare però con le fantasie né con la giovinezza – di qualcosa che è stato perduto senza che mai fosse preso, come una superficie lontana.
Sa che un viandante varcherà la soglia della casa con passo pesante di acqua, dopo aver cercato un nascondiglio tra gli alberi; la sua debolezza gli impedirà di avere timori.
In un angolo ci saranno la tigre e il bambino sulla sua schiena. Nel buio brilleranno gli occhi dell’animale; ma il viandante, che viene da un mondo altro, ora che la pioggia è finita tutta dentro i campi e nei fiumi e nel centro dei mari, sentirà soltanto la luce bianca delle stelle unirsi al caldo oscuro della terra.
E farà un sogno.
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