RACCONTI
Floriana Naso
Le tre età della donna
Non si riconosceva nell’immagine che dava di lei il quadro che aveva di fronte, quindi cercava se stessa attraverso i ricordi.
Che cos’era diventata? Come aveva fatto a mutare pelle nel rimpianto di un’essenza che non sarebbe più tornata?
Confrontando la donna della sua memoria con quella che vedeva dipinta, con una mano si nascondeva alla vista il viso avvizzito, mentre i capelli ricci e grigi le pendevano da un lato, abbandonati come lei in quel momento, al declino nell’attesa di fondersi con il terreno a cui tutto avevano lasciato.
Anche la schiena curvava verso l’Abisso a cui era destinata, incapace di sostenere il corpo magro, la cui pelle cadente era spenta e scura; le ricordava il lento, ma inesorabile, scorrere del tempo. Ne rimaneva poco, oramai, e lei non riusciva ad accettare la certezza della morte che incombeva spietata e silenziosa.
S’incantava a ricordare gli oziosi pomeriggi assolati, le sete multicolori e gli arazzi d’oro come i giochi dell’estate. I suoi riccioli fioriti, vividi nella memoria e rossi come fiamme indomabili, erano la cornice d’un viso pieno, bianco e liscio. Ora invece, ricadevano crespi e spenti, come la vita che piano piano le stava scivolando via.
Non aveva la forza di sfiorarsi il seno sformato, preferiva ricordarlo florido ed etereo. Roseo, come gli anni vivaci solo nei ricordi.
Che bellezza la gioventù! Anche per la velocità con la quale tutto scorre, per la bramosia che tutto brucia.
Le mancava quella sensazione, l’avidità del consumo. Ora invece, che da consumare non c’era più nulla, non le rimaneva che osservare l’inverno della propria esistenza da spettatrice, come se non le appartenesse davvero. Rivedeva se stessa attraverso un inconscio viaggio nella memoria, dove la realtà si arricchiva di tratti onirici.
Lì, si risentiva ancora fertile, come quando aveva smesso di essere ragazza ed era diventata grande, come Dio, come la primitiva Dea Madre: la Creatrice. Aveva regalato al mondo la continuazione di sé, l’evoluzione della sua stessa vita.
Vestita solo da veli color del cielo, si rivedeva dietro agli occhi chiusi, mentre stringeva in un abbraccio la propria creatura paffuta, dalla pelle diafana e luminosa, che le si aggrappava al petto bisognosa d’amore. Come un putto di Michelangelo, dormiva beata bramando calore e attenzioni, ancora incapace di provare tristezza e paura, piena d’ossigeno, di brezza fresca e profumata, di pagine bianche ancora da scrivere. Da chi avrebbe attinto la saggezza necessaria per farlo se non dalla lei, sua madre? Uno scambio perfetto: il bisogno di dare e la necessità di avere.
Persa in quella sensazione lasciò che il braccio sinistro, che fino a quel momento le copriva il viso, si arrendesse alla gravità e ricadesse lungo il fianco, proprio come aveva fatto il suo ventre, decadente e svuotato del potere di generare.
Dov’era finita la culla dell’universo? Quella in cui aveva dimorato la vita? Era davvero una donna senza più nulla da dare o piuttosto era stata fortunata per aver vissuto intensamente, per essere stata bambina, fanciulla, madre e ora, una donna completa, anche se al tramonto. Non è infatti la vecchiaia la condizione naturale e necessaria affinché avvenga quell’intensificazione delle proprie qualità, uniche e irripetibili, che costituiscono il senso autentico dell’esistenza?
«Invecchiare è una forma d’arte» le aveva detto qualcuno. Non era solo declino, malattia, fragilità, perdita, ma consapevolezza di esser custodi del tesoro dell’esistenza da tramandare.
La conoscenza, ecco qual era la chiave.
Allora cercò di immaginarlo, il tramonto e s’accorse che il cielo fiammeggia solo al crepuscolo. È lì che dà il meglio di sé, in quell’ultimo istante prima di scomparire. Doveva solo saper cogliere quel momento e catturarlo. Basta resistere all’ineluttabile finale. Basta disperazione, si convinse.
Per un attimo i colori ritornarono intensi e le parve di assaporare ancora il succo dei frutti appena colti. Tornò bella tra i voile variopinti. Angelica nelle geometrie impalpabili dei suoi affreschi di gioventù, dove erano gli ocra, i turchesi, i verdi smeraldi a incorniciare le gote rosate e rilassate in un sonno sereno.
Si erano alternati nella sua vita il caldo e il freddo, il sole e le nuvole e ora era pronta per accogliere il buio, immersa nel riflesso di ciò che era stata e che, ora lo aveva davvero capito, non aveva mai smesso d’essere.
Che cos’era diventata? Come aveva fatto a mutare pelle nel rimpianto di un’essenza che non sarebbe più tornata?
Confrontando la donna della sua memoria con quella che vedeva dipinta, con una mano si nascondeva alla vista il viso avvizzito, mentre i capelli ricci e grigi le pendevano da un lato, abbandonati come lei in quel momento, al declino nell’attesa di fondersi con il terreno a cui tutto avevano lasciato.
Anche la schiena curvava verso l’Abisso a cui era destinata, incapace di sostenere il corpo magro, la cui pelle cadente era spenta e scura; le ricordava il lento, ma inesorabile, scorrere del tempo. Ne rimaneva poco, oramai, e lei non riusciva ad accettare la certezza della morte che incombeva spietata e silenziosa.
S’incantava a ricordare gli oziosi pomeriggi assolati, le sete multicolori e gli arazzi d’oro come i giochi dell’estate. I suoi riccioli fioriti, vividi nella memoria e rossi come fiamme indomabili, erano la cornice d’un viso pieno, bianco e liscio. Ora invece, ricadevano crespi e spenti, come la vita che piano piano le stava scivolando via.
Non aveva la forza di sfiorarsi il seno sformato, preferiva ricordarlo florido ed etereo. Roseo, come gli anni vivaci solo nei ricordi.
Che bellezza la gioventù! Anche per la velocità con la quale tutto scorre, per la bramosia che tutto brucia.
Le mancava quella sensazione, l’avidità del consumo. Ora invece, che da consumare non c’era più nulla, non le rimaneva che osservare l’inverno della propria esistenza da spettatrice, come se non le appartenesse davvero. Rivedeva se stessa attraverso un inconscio viaggio nella memoria, dove la realtà si arricchiva di tratti onirici.
Lì, si risentiva ancora fertile, come quando aveva smesso di essere ragazza ed era diventata grande, come Dio, come la primitiva Dea Madre: la Creatrice. Aveva regalato al mondo la continuazione di sé, l’evoluzione della sua stessa vita.
Vestita solo da veli color del cielo, si rivedeva dietro agli occhi chiusi, mentre stringeva in un abbraccio la propria creatura paffuta, dalla pelle diafana e luminosa, che le si aggrappava al petto bisognosa d’amore. Come un putto di Michelangelo, dormiva beata bramando calore e attenzioni, ancora incapace di provare tristezza e paura, piena d’ossigeno, di brezza fresca e profumata, di pagine bianche ancora da scrivere. Da chi avrebbe attinto la saggezza necessaria per farlo se non dalla lei, sua madre? Uno scambio perfetto: il bisogno di dare e la necessità di avere.
Persa in quella sensazione lasciò che il braccio sinistro, che fino a quel momento le copriva il viso, si arrendesse alla gravità e ricadesse lungo il fianco, proprio come aveva fatto il suo ventre, decadente e svuotato del potere di generare.
Dov’era finita la culla dell’universo? Quella in cui aveva dimorato la vita? Era davvero una donna senza più nulla da dare o piuttosto era stata fortunata per aver vissuto intensamente, per essere stata bambina, fanciulla, madre e ora, una donna completa, anche se al tramonto. Non è infatti la vecchiaia la condizione naturale e necessaria affinché avvenga quell’intensificazione delle proprie qualità, uniche e irripetibili, che costituiscono il senso autentico dell’esistenza?
«Invecchiare è una forma d’arte» le aveva detto qualcuno. Non era solo declino, malattia, fragilità, perdita, ma consapevolezza di esser custodi del tesoro dell’esistenza da tramandare.
La conoscenza, ecco qual era la chiave.
Allora cercò di immaginarlo, il tramonto e s’accorse che il cielo fiammeggia solo al crepuscolo. È lì che dà il meglio di sé, in quell’ultimo istante prima di scomparire. Doveva solo saper cogliere quel momento e catturarlo. Basta resistere all’ineluttabile finale. Basta disperazione, si convinse.
Per un attimo i colori ritornarono intensi e le parve di assaporare ancora il succo dei frutti appena colti. Tornò bella tra i voile variopinti. Angelica nelle geometrie impalpabili dei suoi affreschi di gioventù, dove erano gli ocra, i turchesi, i verdi smeraldi a incorniciare le gote rosate e rilassate in un sonno sereno.
Si erano alternati nella sua vita il caldo e il freddo, il sole e le nuvole e ora era pronta per accogliere il buio, immersa nel riflesso di ciò che era stata e che, ora lo aveva davvero capito, non aveva mai smesso d’essere.
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