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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Leonardo Tonini

Lo stilita

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Io sono lo stilita. Non uno stilita, ma lo stilita, l'erede dell'unico stilita incarnatosi svariate volte da Simeone a me. Io sono colui che ha riportato lo stilitismo in occidente e che cambierà le sorti di questo secolo. Questa è coscienza, non è un delirio di un pover'uomo andato fuori di testa: io sono e resto un pover'uomo, uno che sicuramente senza questa scoperta, cioè la scoperta di essere io lo stilita, sarebbe davvero rimasto un uomo incompleto e irrealizzato. Troppo facile metterla sul pazzo. Anzi, la mia follia è famosa, ci sono addirittura due scuole di pensiero riguardo a essa. C'è chi pensa che matto già lo ero e che è stata appunto la mia follia a portarmi dove sono adesso, e c'è chi invece dice che la follia mi è venuta proprio dallo stare dove sono adesso. Adesso e da 18 anni, perché tanto è lungo il tempo di questa mia permanenza sulla colonna. Seimila e cinquecentosettanta giorni, sì, duecentosedici mesi, con qualsiasi tempo, pioggia, neve, gelo, e caldo, afa, sole impietoso. Io ho voluto essere il punto fermo, il centro intorno al quale ruota il mondo. E non l'ho fatto di proposito, che sarei stato un bel pazzo davvero, solo a pensarlo, un megalomane. No, se io dico di essere lo stilita e il centro del mondo e un altro sacco di cose che a prima vista parrebbero fandonie, è perché ne ho preso coscienza con gli anni, so quel che dico. Più che dire che ho voluto, dovrei dire che sono stato voluto stilita. Non da un'entità superiore, che non esiste, ma dall'esserlo io stesso diventato, come è pensato colui che pensa, cioè è formato dal pensiero stesso che fa. Io da qui ci scendo da morto, e non vi nascondo che pure mi piacerebbe restarci anche da morto, qui sopra. Ma andiamo con ordine. Chi ero prima di scoprire di essere la reincarnazione del grande Simeone? Un pover'uomo, l'ho già detto. Ma del tipo molto comune dalle nostre parti; ero l'inconcludente. Sempre nervoso, sempre in balia dell'ansia. Quante cose ho iniziato? Non si possono contare. E quante ne ho portato a termine? Nemmeno una. Preso da una divorante smania, dall'insicurezza, dall'ambascia. Mi ci intestardivo col voler essere, non riuscivo e precipitavo nello sconforto. Tanto ero scoraggiato che a un certo punto ho creduto che la mia natura fosse quella di fallire sempre, di non concludere, di perdermi nei meandri caotici della vita. Facevo delle mie disgrazie un destino e non capivo, e volevo capire, e soffrivo per la mia incapacità di capire, soffrivo terribilmente. Certe volte ero tanto preso dallo sconforto che piangevo da solo, quando nessuno poteva vedermi e pensavo al suicidio; non potevo sopportare in questi momenti un'intera esistenza con quel dolore addosso. Ma non durava. Nemmeno il proposito di suicidarmi portavo a compimento. Il mattino dopo mi svegliavo e... e mi sentivo forte e sano, troppo per porre fine con un atto volontario a tutta quella forza che sentivo dentro. Una forza che non mi riusciva di incanalare in nessun progetto. Era una maledizione. Mi divorava fin da piccolo questa cosa. Ero un caratteriale, ipercinetico, nessuno è mai riuscito a tenermi troppo tempo nei ranghi. La mia forza era anche la causa del mio fallimento, a scuola, nei sentimenti, e con il lavoro. Io mi sentivo capace, mi sentivo intelligente, mi sentivo in grado di imparare e di affrontare i problemi che mi venivano posti, ma non avevo nessuna temperanza. A scuola ho sempre capito tutto, anzi mi annoiavo grandemente. I compiti ripetitivi mi dilaniavano, erano tutti ripetitivi, anche studiare mi era insopportabile. Mentre, al contrario, leggevo molto, in continuazione. Leggevo con grande velocità e memorizzavo tutto, forse la lettura di romanzi era l'unica cosa che mi tenesse fermo da giovane. Ma non subito, stavo bene quando avevo un libro nuovo fra le mani, allora dovevo camminare, sentivo impellente questo bisogno. Cercavo, camminando, di trovare posti lontani da altri esseri umani, vagolavo per la campagna con il mio libro chiuso in mano. Marciavo, chilometri su chilometri. Sognavo cosa poteva esserci scritto. Le mie caviglie avevano ali di vento. Ecco che quando trovavo un posto abbastanza isolato, un luogo ameno che mi ispirava, che colmava la mia anima (colmava e calmava), io mi fermavo. E leggevo. Mi sono fatto così una disordinata quanto vasta cultura. Una cultura che non serviva assolutamente a nulla, non a scuola dove mi veniva richiesto di imparare più o meno a memoria dei testi che riportavano altri testi, la noia eretta a sistema. E non mi serviva pure in nessun lavoro; la mia era una blanda formazione letteraria, anche gli strumenti per dire di saperne davvero qualcosa mi mancavano. Non sono mai neppure arrivato all'università. Che cosa cercavo nei libri? Non la cultura, non la capacità di analizzare un testo, no, io cercavo il senso della vita, una spiegazione di me stesso in questo disordine perpetuo. Non lo trovavo. O meglio trovavo tantissimo, mi dilettavo anche con i libri di filosofia o di storia, erano uno spasso, e tutte le volte che apprendevo un concetto nuovo, ecco che sentivo un clic dentro di me, ecco che avevo fatto un altro gradino verso... verso niente. Accumulavo stupidamente concetti, frasi fatte, idee, punti di vista, ma il mio cuore era una selva. La mia vita, come se non bastasse la mia coscienza, era lì ogni giorno a dirmi: sei un fallito, lo sarai sempre, leggere migliaia di libri non ti servirà a niente. Mi sentivo inutile, non visto, vedevo gli altri andare avanti e me rimanere fermo pur con tutta la mia agitazione. Possibile che io non sappia far niente, mi dicevo. Possibile che io non sia capace di portare a termine nulla? Sì, perché in un primo momento io davo la colpa a eventi esterni a me, fatti, cause, incidenti, condizioni avverse, financo persone malevole, che mi erano ostili. Ma questa cosa mi passò ben presto. Ero io la causa del mio fallimento, solo io. Preso atto di questo, mi sentivo ancora più infelice. Non potendo accusare nessuno, accusavo me stesso, ma se tremendo era il delitto, ancora più tremendo era concepirsi come unico colpevole. Impazzivo di dolore. Perdevo giorni intorno al nulla, giorni che diventavano mesi e anni. È se i miei giorni erano vani, i miei anni erano orribili, la messe di dolore era sbalorditiva. Stavo scientificamente sprecando la mia vita, mi sentivo quanto mai infelice e la salvezza era vieppiù irraggiungibile. Non che non tentassi di vivere, non che non vivessi alla fine, piene di momenti erano le mie giornate. Anche affannose, nell'inesausta ricerca di una direzione. Ho viaggiato in molti paesi, ho avuto donne, ho iniziato una quantità di carriere. Sono stato, è giusto dirlo, anche felice, ma la coscienza della felicità, non la felicità vissuta che è incosciente, ma la felicità conosciuta, era sempre viziata da una ben più radicata coscienza infelice. Fino a quando? Qual è il frutto della mia condizione? Chi sono io per meritarmi questa felicità? Questa la mia malattia: ero ossessionato da me stesso, e perdevo di vista la semplicità della vita, la leggerezza, il godere come fine che riempie le giornate degli animali. Avrei voluto a volte essere d'aiuto a qualcuno, alleviare le sofferenze di un sofferente, ma anche questo mi riusciva a tratti e in modo incompleto. In un primo momento credevo di possedere solo io la ragione e sbandieravo il mio vangelo a destra e a sinistra. Poi mi sono detto che quello che dovevo fare era per lo più ascoltare e capire, ma c'era sempre in me la volontà di aiutare tutti e allora mi sono perso nel mare di richieste di aiuto dell'umanità. Portavo coperte ai barboni, raccoglievo fondi per cause sociali, distribuivo volantini, comperavo cibo per i cani del canile. Fino quasi a esaurirmi. Per poi constatare che i barboni rimanevano barboni, che i volantini non li leggeva nessuno, le cause sociali erano infinite e che i cani sono insaziabili. Non ne uscivo. A tempo mollavo tutto e non mi facevo più vedere, poi preso da sensi di colpa per il mio abbandono ritornavo con le scuse più implausibili, per vedere che ero sempre meno indispensabile e che i vecchi del mestiere non mi filavano più, non sapendo fino a quando sarei rimasto questa volta. Questo senso di estraneità arrivò a pervadere ogni lato della mia esistenza. Ogni luogo era terra straniera, vi erano momenti che persino parlare con gli amici era difficile, qualcosa dentro di me si sdoppiava, il primo me parlava e il secondo me guardava me stesso parlare. Il peggio però arrivava con le donne. Mi innamoravo, venivo ricambiato, si andava insieme, si stava bene, si litigava, ci si confrontava, si parlava, ho sempre trovato donne che mi attiravano fisicamente e mentalmente, donne di cui sempre ho avuto stima, con cui era bello stare insieme, parlare, fare l'amore, starsene in ozio. Non perfette, perché nessuno è perfetto, ma tanto migliori di me. Io ero pessimo, era il mio comportamento a renderlo palese. Presto mi ritrovavo a infastidire un'altra femmina, a circuirla e, quando andava bene (ché non sono Casanova!) a portarmela a letto. Ma è chiaro che un sentimentale come me non riusciva a far finire la cosa lì (ancora, non sono Casanova), e costruivo una relazione. Ovviamente non sono mai riuscito a portare avanti due storie contemporaneamente e mollavo la prima. Il meccanismo però era tremendamente insano. Non ero un semplice immaturo che saltava da una relazione all'altra, sarebbe stato troppo semplice. No, io mi lasciavo con la prima ragazza, anzi, facevo in modo che lei lasciasse me, perché sotto sotto sono sempre stato anche un codardo, ma il senso di colpa per il dolore causato e per averla fatta sporca creava in me un tale disagio che in poco tempo la relazione con la nuova ragazza si guastava finché... finché lei, e non io, interrompeva i rapporti con me. Quindi passavo da due a zero. Ma non subito! Prima tentavo inutilmente di riconquistare la prima, giurando e implorando che ero cambiato, e intanto tramavo per recuperare la seconda. E mi dannavo per questo mio modo di fare e non potevo farne a meno. Ero dominato dal caos con l’unica certezza nel cuore che la causa del mio come dell'altrui dolore ero io. Ripensando a com’ero, provo per me una grandissima pietà. Non avevo pietà per me stesso. La cosa migliore che mi ha dato il vivere questi 18 anni sulla colonna è stato proprio questo, una profonda pietà per me stesso e per quello che ero. Ero così infelice, così solo. Non avevo, e non ho neppure ora, nessuna stampella metafisica. Non che particolari esperienze o le mie letture mi abbiano fatto diventare ateo, mi sembra di essere sempre stato ateo. Un ateismo tranquillo, il mio; non ho mai creduto a simili fandonie e non riesco neppure a capire come qualcuno possa crederci. Capisco il motivo, capisco i meccanismi per cui si può credere a qualcosa di definitivo, di soprannaturale, di irremovibile e di assolutamente certo, anche se assurdo, un parto dell'immaginazione. Ma è una comprensione di testa, non sento niente in quel senso. Adesso davanti a me continua a venire gente, un po' da tutte le parti della Terra. Forse mi credono un santo se non addirittura qualcosa di più, ma io per lo meno sono reale, sono qui, esisto; ma credere in qualcosa che non si può né vedere né toccare, non lo sento intimamente possibile. O meglio, non è nemmeno questione di essere o non essere tangibile, quindi verificabile. Credo che sia una faccenda come quella della dipendenza da qualche sostanza. Io sono cresciuto, fin da giovane, in ambienti che in maniera più o meno evidente promuovevano l'uso di alcool e di droghe. La società stessa, col suo richiedere molto di più di ciò che può offrire, è, a mio avviso, strutturalmente creatrice di dipendenze. Tutto nella nostra società è erotizzato, spinto, drogato, e allo stesso tempo così frustrante che è giocoforza finire a cercare una sospensione o un aiuto in qualche sostanza. Molti che ho conosciuto sono finiti nella droga o sono diventati degli alcolizzati. Perché altri non l'anno fatto? Perché io, che pure ero un uomo disperato, non ho cercato rifugio nell'alcool o nella droga? Non mi è mai nemmeno venuta voglia di provare. Ho un amico che ha fatto di meglio. Fumava due pacchetti di sigarette al giorno, questo lo posso testimoniare, poi, mentre fumava, mi ha detto che non ci trovava più gusto, e che capiva che il suo era un vizio. Non il fumo era un vizio per lui, ma il fumare, andare in tabaccheria, aprire il pacchetto, far uscire con dei piccoli colpi una sigaretta, portarla alla bocca, prendere l'accendino, accendere la sigaretta coprendo la fiamma con una mano, aspirare ed espirare, e guardare il fumo uscire dalla bocca o dal naso. Questo era il suo vizio. Due giorni dopo mi disse era stato sul punto di entrare in una tabaccheria e di avere avuto la precisa sensazione di essere in preda a un automatismo. Stavo da un'altra parte con la testa, mi disse, dovevo andare da un'altra parte e allora perché avevo già la mano sulla maniglia della tabaccheria? Ho lasciato la presa e non sono più entrato. Da allora non ha più fumato. Ha cercato anzi di riprendere, una volta, ma davvero non capiva più che gusto ci trovava. Ecco, la religione per me è una cosa simile: non riesco a capire che gusto ci trovi la gente. Mi dico che è un modo per sopportare la vita e per accettare la morte, ma non è vero, assolutamente no. È invece l'ostinato tentativo di non guardare in faccia alla vita e di non accettare la morte. Ero assolutamente terrorizzato di morire, avevo tutti i sintomi, vivevo in uno stato di perpetuo panico, nel marasma, nella minaccia. Adesso non mi interessa più, ho accettato di dover morire molto tempo fa. Appena salito sulla colonna, mi sono trovato ben presto stremato, e mi sono detto, non andrò avanti a lungo, se continuo morirò. Era la mia paura a parlare. Ora sono qui da diciotto anni e sono ancora vivo; ho superato il mio demone. Adesso ne rido e so che se morissi ora, lo farei con la coscienza di aver fatto quello che dovevo fare, di aver dato un senso alla mia vita e di essere stato felice. Ma è meglio che cominci a spiegare come sono arrivato qui in cima e cosa ci faccio qui.

Tutto avvenne per caso. Il caso, come ho da tempo capito, è il frutto del mio carattere. L'irrequietezza mi ha portato in Sira, sui resti della basilica del grande Simeone, il genio che per primo ha inventato la postura eretta sulla colonna, l'uomo più famoso del quinto secolo. L'uomo che, molto prima dell'invenzione della radio, ha lanciato un messaggio nel tempo raccolto da me quindici secoli dopo. Di anni lui sulla colonna se ne è fatti 37, un'enormità. Quanto andrò avanti io? Se guardo agli anni che mi restano mi sembra un tempo troppo grande, ma anche immaginare il tempo che io sono stato qui 18 anni fa, era assurdo. Se poi mi guardo indietro, mi sorprendo che sia effettivamente trascorso tanto tempo. Mi sembra il mese scorso che sono stato in Sira tra le rovine della basilica di Simeone, ai piedi di ciò che resta della sua colonna. Ebbene, per farla breve, per gioco sono salito su di un roccolo di colonna, non quella di Simeone, ma di un’altra comunissima colonna coeva alla basilica, costruita alla morte del Santo. Ci sono salito per gioco, tanto per fare qualcosa e lì il mio spirito ricevette un colpo tremendo. Ero a meno di un metro da terra, con un semplice salto sarei stato di nuovo al suolo, ma non ci riuscivo. Cosa mi stava succedendo? Presi quasi paura per questa sensazione così forte e mi sforzai per scendere dal mio roccolo di colonna. Scesi. A terra mi sentivo defraudato e provai il desiderio di risalire subito. Mi allontanai da quel posto e ripresi la visita alla basilica. Non capivo e non volevo capire. Volli allontanarmi dalla colonna e poi dalla basilica. Proseguii il viaggio e tornai a casa nella mia solita disordinata e smaniosa vita. Ma qualcosa di me era rimasto sulla colonna. Ci riflettevo: il trauma era stato così forte che non scemava col tempo. Andai in biblioteca e cominciai una mia personale ricerca sullo stilitismo. Di libri ce n'erano, non avrei nemmeno creduto così tanti. Sapevo di questi uomini che passavano anni sulle colonne, li inquadravo come fenomeni di un cristianesimo primitivo, li associavo agli anacoreti nel deserto, gli asceti, tutte cose soppiantate con la diffusione dei cenobi e della regola di Benedetto, mi dicevo. La realtà era più complessa. Dopo Simeone, detto il grande, o il vecchio, cinque altre figure di emuli del primo inventore hanno lasciato tracce del loro passaggio su questa terra. Daniele, Simeone il giovane, Alipio, Luca e Lazzaro. Di molti altri è rimasto solo il nome o anche meno, sono chiamati talvolta dalle fonti semplicemente come lo stilita di... e non si mette altro. Tutti vissuti in oriente, figli, ma anche genitori se vogliamo, di un cristianesimo tipicamente orientale, meno raziocinante e più... come dire... esistenzialista, passatemi il termine. Le sei figure maggiori hanno lasciato traccia di sé, dicevo, e non poco, non solo sono arrivati fino a noi i nomi e le biografie, i miracoli e le gesta, ma anche delle vere e proprie interviste, delle testimonianze dirette. Materiale storico, insomma, non solo agiografico. Ecco, io quello cercavo: un po' di verità. Forse la storia è solo interpretazione, però, di certo una cosa era inoppugnabile: la grande eredità culturale. Un sacco di gente aveva scritto libri sugli stiliti e sullo stilitismo, c'erano film, musiche, poemi. Io ho cercato di sapere tutto, ho visto il film di Buñuel per esempio, o il poeta di Tennyson. Persiani, medi, etiopi e una moltitudine di arabi lo conoscevano, mentre la sua fama aveva raggiunto i nomadi sciti. Insegnò loro il suo amore per la fatica e la saggezza, diceva il canone di Simeone, il testo che forse mi è rimasto più impresso. Insomma, potrei scriverci un trattato, ma non sono qui per questo. Mentre procedevo con la ricerca, la mia vita sprofondava nel caos. Fallimenti seguivano a fallimenti, ero arrivato al grado zero della soddisfazione umana. Chi era più infelice di me? Mi ritrovavo a trent'anni senza una compagna, senza un lavoro, preso da una continua ambascia che diventava insonnia la notte. Il mio fisico, indubbiamente molto forte, lo si vede anche dai 18 anni passati qui sulla colonna, resisteva, ma questo era causa di ulteriore pena. Non ero un fortunato? Ero sano, deambulavo, mangiavo e il mio pensiero era autonomo: come potevo essere così inutile? Che diritto avevo, a fronte di tutti i sofferenti, gli ammalati, i poveri e i portatori di handicap, di essere così sano? Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere. Io mi sentivo fra questi.  La mia sofferenza era mentale, ora lo so, ma il diabolico di una sofferenza mentale è che non si fa prendere sul serio, specie da chi ne soffre più che dagli altri. Il suicidio era un'eventualità che continuava a rimbalzare nella mia anima, però, dicevo, è una canagliata il suicidio, è vero che non avevo rispetto di me, ma non fino al punto di togliermi di mezzo. Anzi, pensavo, una via di fuga ci dovrà pur essere. Andai quindi da un medico, da uno psicologo. Ci andai solo quando raggiunsi il limite, solo quando mi vidi veramente malato, cioè finito, quando mi ritrovai per un intero pomeriggio sdraiato sul divano, senza fare nulla, senza provare nulla e pensando continuamente alla morte; questo era davvero contro la mia natura. Lo psicologo, un tipo barbuto con degli occhietti piccoli e sorridenti, mi ascoltava paziente. Io parlavo e lui mi ascoltava con i suoi occhi piccoli e strafottenti. Alla fine, mi disse: ma lei, che cosa vuole davvero fare? Rimasi sconcertato, credo che impallidii. Io voglio salire su una colonna, dissi, e scoppiai in lacrime. Quando mi calmai, presi il fazzoletto che mi tendeva il dottore. Mi ricomposi e incontrai lo sguardo dello psicologo barbuto, uno sguardo fatto da quei suoi maledetti occhi porcini che oggettivamente ridevano di me. Ma ridevano divertiti. Mi disse: non è la cosa più strana che ho sentito, salga su di una colonna se è questo che vuole, nessuno glielo vieta. Aveva ragione, una maledetta ragione. Me ne andai di corsa, balbettando un saluto e non tornai più. Avevo quello che cercavo, una speranza. Bene, sapevo quello che dovevo fare. Tutta la mia razionalità gridava allo scandalo, era la cosa più idiota che potessi immaginare, la più assurda. Salire su di una colonna e passare per mentecatto, resistere forse due giorni e aggiungere un altro bel fallimento alla mia collezione. Ma tutte queste considerazioni non impedivano a una flebile ma inflessibile vocina di parlare: fallo! Ero confuso, da dove avrei cominciato? L'impresa, all'apparenza niente di eccezionale, parve subito più grande di me. Credete che sia facile trovare una colonna e salirci su per tutto il tempo che si vuole? E poi io avevo anche una vita da cui liberarmi, una vita che odiavo, ma fatta di un sacco di cose. Non si ha idea di quanto grande sia il bagaglio che ci portiamo dietro fino a quando decidiamo di salire su una colonna per sempre. Un'infinità di vincoli mentali, di abitudini, di … tante cose. E poi c'era il problema del contesto. Io non avevo, e non ho, stampelle metafisiche, non potevo quindi nemmeno usufruire della protezione di una chiesa. Parlo dei frati. Brava gente, ma un poco asociale, quando non disadattata. Che farebbero i frati se non fossero frati? Io sono stato in un convento per le mie ricerche, non sono gente normale, i frati. Vivono in un loro mondo, con i loro ritmi molto ben scanditi durante tutta la giornata, e questo probabilmente regala una certa pace, non li ho frequentati abbastanza per capire fino a che punto fossero sereni o, in fondo, ricadessero nel vizio mondano dell'invidia e della competizione. Fatto è che vivono in una società parallela. Ma il bello di questa società parallela è che essa li protegge dai loro comportamenti bizzarri, accettandoli. Vuoi per umana carità, vuoi per divina accondiscendenza, frate Lombardo, questo il nome di un vecchio di origini argentine, veniva puntualmente trovato addormentato e perfettamente sbronzo nella cantina del convento. Ma non era l'unica bizzarria. Su sei frati che abitavano un convento che ne avrebbe potuti ospitare duecento, Michele era il gay più effeminato che avessi mai visto. Uno, di cui non ricordo il nome, da anni viveva chiuso nella sua cella, che poi era una stanza, spoglia, ma con bagno e tv. Bisognava lasciare il cibo davanti alla porta. Quando si tornava, tutto era spazzolato. La figura più emblematica, però, era il priore. Un piccolo sessantenne, sanguigno, magro e sempre attraversato da un grande nervosismo che lo squassava tutto, da capo a piedi, tanto che lo si vedeva procedere a scatti, come se di continuo trattenesse un'energia più grande di lui. Quello che non riusciva a trattenere era la parola, o meglio, il turpiloquio, specie quello a sfondo blasfemo. Nei lunghi corridoi del grande monastero, immersi nel silenzio per mancanza di abitanti, si sentivano solo i suoi passi svelti e le sue risuonanti bestemmie. Urlava con tutto il fiato che aveva, una specie di sfogo. Quando ci riusciva, cercava di trattenersi, gridava: Dio portaci la pace! Oppure, Madonna santissima! Gesù Cristo in croce! Ma con una tale ira che nessuno aveva dubbi sul reale significato delle sue interiezioni. Esile e piccino, aveva voce stentorea, pareva uno di quei cagnetti minuscoli che sorprendono per il volume spaventoso dei loro abbai. Era interamente dominato dalle sue passioni e gridava ogni qualvolta ne sentiva il bisogno, cioè sempre, ché tutto gli era molesto e non sopportava niente. Nei corridoi gridava perché essi gli parevano troppo lunghi per la sua insaziabile fretta. Nella biblioteca addirittura strillava rosari di bestemmie incatenate quando non gli riusciva di trovare un libro. Spaventava a morte le vecchine della prima messa appena il nodo dell'amitto gli si imbrigliava, una poderosa imprecazione partiva dalla sagrestia e rimbombava per tutta la navata, come un organo. E quando non bestemmiava, profferiva di continuo brani dalle sacre scritture, un soliloquio biascicato, a bassa voce, un interminabile monologo interiore, un sermone perpetuo di cui nessuno ci capiva un accidente, se non cogliendo qualche versetto biblico, una volta Ezechiele, un'altra il Genesi, le Ecclesiaste, Isaia, le Lamentazioni...  A tutti pareva che recitasse di continuo la bibbia, per intero. E a ogni minima interruzione per causa esterna... partiva blasfemo il boato. Insomma, i sei frati erano sei alienati, però non erano dei reietti, dei forzati dell'esclusione, anzi, la gente saliva fino al convento per avere una parola da loro, per avere una benedizione, per ascoltare messa, per avere un po' di conforto, speranza. Se non erano considerati dei malati, lo dovevano solo all'abito che portavano, al fatto di essere frati. Il bello poi è che tutti erano a conoscenza delle bizzarrie dei sei uomini, e tutti sapevano che un frate è per lo meno una persona strana, ma forse proprio questa stranezza li avvicinava a qualcosa di diverso, d'ultramondano. La psichiatria ha tolto alla categoria degli strambi la valenza sociale, ma d'altra parte, starsene chiusi in una stanza senza mai vedere nessuno per anni, vuol dire sopportare una quantità di dolore che, alla fine, si è scelto di sopportare. Ora io però avevo altro da fare che star dietro ai frati: cercare la colonna dovevo. Era fondamentale trovare quella giusta. In Italia ci sono un sacco di colonne, nelle ville, nelle zone archeologiche, e ci sono pure quelle, misteriosissime, abbandonate nei campi. Forse traccia di antichi trasporti lasciati a mezzo, penso. Orbene, la mia ricerca cominciò con un colpo di fortuna. Un piccolo libretto dei primi del Novecento che parlava appunto di queste colonne sperse per la penisola. Mi divertii a leggerlo. L'Italia è un paese enorme, molto più grande di quel che appare sulla carta; è un Paese che contiene molti Paesi, resti delle numerose civiltà passate e che a ben guardare ancora esistono, dalla Sicilia all'Alto Adige. Il nostro è un paese di ottomila comuni, alcuni grandi come province, altri più piccoli di una piccola frazione. Esistono, questo l'ho scoperto in quell'enorme territorio che è il centro Italia (solo superato dagli sterminati spazi del Sud), i vocaboli, che sono frazioni di frazioni. Le città poi si dividono in sestieri, quartieri, terzieri, rioni; la campagna ha dappertutto i resti del vano tentativo di comprenderla: piane, colli, fossi, fosse, tartari, case del diavolo; è una geografia umana prima che topografica. Ville romane, acquedotti, accampamenti, roccaforti, pievi, e ancora necropoli etrusche, tombe longobarde, basiliche, torri, pietre spaccate dalla spada di Orlando, mura lasciate a mezzo, dolmen e menhir, resti di antichi impatti meteoritici, spelonche, paesi abbandonati per fame, monumenti ad aerei caduti nell'ultima guerra, enormi cascine divorate dalla vegetazione, fabbriche in rovina, ferrovie dismesse, ville secentesche, giardini di mostri di pietra, fontane che suonano e, quindi, colonne isolate. Se nel Parsifal lo spazio diventa tempo, in Italia è l'esatto opposto, è il tempo che si è trasformato in spazio. Io non ero ricco, né di famiglia e né di mio che con il mio carattere sconclusionato era già tanto se sopravvivevo. Però sopravvivere, economicamente, è proprio del nostro tempo affannato, costoso e precario, è tutto un progettare, se non sei miliardario, un fare calcoli, un muoversi per interesse. A questo ci ha portato il delirio chiamato oggi. Mentre invece la vita è altro, è sprogettare, decostruire, ridiscendere verso la nostra infanzia abortita, riprendere il contatto con i nostri visceri, con la nostra personale fisiologia, sentire il tempo che ci attraversa e stupirsi dell'esistente. Io questo l'ho capito stando qui sulla colonna, ma allora nemmeno lo immaginavo; tremavo al pensiero di fallire, di rivelare a tutti che gran fallito io ero. E pure facevo di tutto per fallire, e non me ne rendevo conto. Solo dopo la grande decisione, cioè prendere atto che solo mi importava di realizzare la mia natura, che ogni mossa che compivo era per la causa, riuscii a dare un nome alla mia inquietudine che tanto mi aveva fatto soffrire e a materializzarla in un sogno. Non siamo forse fatti della sostanza di cui sono fatti i sogni? Ma tutte queste parole strane si spiegheranno da sole andando avanti con la storia. Perché ho detto che non ero ricco? Ero forse un povero? Ero forse denutrito? In realtà avevo troppo, troppe cose a cui ero troppo abituato, legato, invischiato, e temevo sopra tutto di perderle, di rimanere senza, come avrei potuto rinunciare al mio cellulare? Al televisore, alla macchina, al computer, al letto comodo, alla poltrona, al tavolo sul quale mangiare, al forno a microonde? In realtà, e la verità apparve come un lampo nella mia testa, ero troppo ricco, troppo. Ma non era il momento di filosofare, avevo sicuramente abbastanza per comprare uno zaino e mettermi in viaggio per la penisola. E fu una discesa verso la povertà, e mai fui più felice di spendere e poi vedere che spendevo sempre meno. Ero partito dal nord con un treno veloce, costoso, non che ne avessi bisogno, ma avevo fretta di incominciare la mia ricerca e credevo che quello fosse il metodo più efficiente. Ma mentre sfrecciavo e mi lasciavo indietro la pianura e attraversavo gli Appennini, mi resi conto che di colonne non ne avrei viste dal finestrino del treno. Arrivai ad Arezzo, la mia prima tappa, e da lì poi discesi in circa un mese di viaggio fino in Sicilia. Dopo il gran treno, presi treni sempre più locali, pullman di linea, fino ad arrivare all'unico vero mezzo concepibile per girare l'Italia: il cavallo di San Francesco, le gambe. All'inizio chiedevo passaggi e ne trovavo poca di gente disposta a caricarmi. Mio padre negli anni Settanta aveva girato mezza Europa con l'autostop, ma oggi la gente nemmeno più si fida raccogliere qualcuno che cammina sul ciglio con uno zaino in spalla. Quando smisi davvero di allungare il pollice a ogni macchina che passava, la gente si fermava da sola, mi chiedeva se avessi bisogno di un passaggio. Anche il mio zaino si alleggeriva, tante cose, che credevo indispensabili al momento di partire, si erano rivelate inutili orpelli. Tutto era un inutile orpello, tutto è inutile! Il mio viaggio era sì fisico, di movimento verso il sud, ma avveniva anche su un piano psicologico; man mano che camminavo, che conoscevo gente, che parlavo e ascoltavo accenti e dialetti diversi, ritmi esistenziali diversi, che mi vedevo ogni giorno non solamente vivo, ma sempre più in salute, sempre meno inquieto, mi addentravo in zone inesplorate della mia coscienza. Chi avrebbe sospettato che dentro di me ci fosse una tale capacità di adattamento, una tale forza? Ma i limiti del mio essere erano ancora di là da venire, molto al di là. Fu così che alla fine di quel fortunatissimo viaggio, di quel gran tour attraverso mia incredulità alla ricerca di me stesso, mentre beatamente vedevo crollare tutte le mie paure: trovai quello che cercavo, grandi rocchi basaltici, lisci e in buono stato. Era ciò che restava di un antico trasporto verso Piazza Armerina partente da Pietraperzia. Toccando i possenti rocchi dimenticati in un campo di alte stoppie, compresi che ero arrivato. Stetti più di un'ora in quel campo, godendo la felicità della mia realizzazione. Poi, ricordo tutto come se fosse oggi, tornai in paese che ormai erano le due del pomeriggio e avevo una gran fame, entrai in un’osteria e pranzai come un signore, comprai delle bottiglie di vino, del formaggio, del pane e un cavatappi e ritornai nel campo. Mi ubriacai fino a sera, mangiai il formaggio e ripresi a bere il resto del vino finché, all'apparire delle prime stelle, mi addormentai.

 Umido fu il mio risveglio. Umida l'erba, l'edera e il muschio che semi occultava la colonna nell'erba, umido il cielo azzurro e distante, umide perfino le ultime stelle, umida la mia faccia e intirizzito io. Era tempo di mettere in piedi la colonna e salirci, ma per far questo dovevo sapere a chi appartenesse, comprare il terreno e organizzare la cosa. Durò tre anni, tre anni che mi ci vollero per salire. Tre abbastanza frustranti anni, pieni di lungaggini, peregrinazioni e il tremendo lavoro di liberarsi delle proprie abitudini, specie mentali. Parlai del mio progetto un po' a tutti; avevo un'inesausta volontà di sapere che ne pensassero gli altri. Dapprima mi ci volle un po’ per far capire quali fossero le mie intenzioni, poi ricevetti sonore risate e sfottò, ma infine arrivarono i consigli. Nella mia vita si era aperta una speranza e questo muoveva dentro di me grandi giacimenti di energie a me prima sconosciuti. Noi viviamo nella frustrazione di non essere, ma appunto il voler essere ci spinge a prendere spazio su noi stessi. Così il bambino smanioso di conoscere che vuol essere adulto, così l'avido che vuol essere ricco, così lo scienziato che vuole scoprire; è la sete di comprendere che ci divora tutti quanti, perché è la conoscenza la nostra salvezza. Quando non troviamo più in noi la speranza di salire, ecco che tutto perde di significato, si annulla nell'opaco latte dell'indifferenza, e moriamo. Solo ai vecchi, ma ai vecchi che hanno vissuto, è concessa la contemplazione del mondo e dell'eredità che lasciano al mondo, ma guai all'anziano che scopre di aver sprecato la sua vita e di non aver realizzato le sue potenzialità, un'amarissima pena lo attende!  Serve un gran passato per sopportare l'idea che è necessario andarsene da questo universo. Il mio caso era di non sapere ciò che volevo, speranza ne avevo, voglia di conoscenza pure, ma disordinatamente, confusamente, inutilmente. Chissà perché, ancora oggi mi chiedo, proprio a me, di tanti che passarono al monastero di San Simeone, come me turisti, proprio a me è capitato di essere il suo erede. Non c'è risposta, ma credo che le risposte ci siano già tutte al mondo, e da sempre, cercano solo una domanda le risposte, e la verità appare come un lampo. Mattina era il giorno del mio risveglio dopo la notte all'addiaccio e mattina quando salii con una piccolissima folla di protofedeli scettici, amici dubbiosi e un giornalista della Gazzetta di Trani. La nostra è un'età normalista, dove la norma ha preso il sopravvento. Tutto è apparenza: chi è fuori dal linguaggio comune è un pazzo o un reietto, un criminale, un cretino. Epoche cosiddette buie si rivelano, alla sinistra e artificiale luce della nostra era, come infinitamente più tolleranti. Basta un minimo sbaglio, o anche un sincero moto di originalità e si è bruciati, marchiati a fuoco, esclusi dal consorzio umano. La figuraccia è dietro l'angolo. Uno può benissimo salire su una colonna, purché il contesto sia approvato dal senso comune. Se, per esempio, volessi stabilire un nuovo record, se la mia fosse una forma di protesta, una denuncia, una pratica sportiva, un evento artistico, una pratica religiosa, allora sì che si potrebbe accettare il fatto di salire su di una colonna. Salire su di una colonna da soli, senza movente, senza aver d'intorno la spiegazione, una spiegazione, ecco che la cosa diviene incomprensibile, e niente al mondo è più odiato di ciò che è incomprensibile. Se c'è una spiegazione, uno può prendere una posizione, essere d'accordo, non esserlo, condividere, esecrare, tollerare, odiare, ma la mancanza di senso, il nuovo, è assolutamente da eliminare. Il mio era chiaramente un suicidio sociale. C'era un libro una volta, quando ancora leggevo libri, che parlava di un tipo che lasciava la macchina in una delle tante traverse anonime di una via di Marsiglia, poi, uscendo da dove era andato, a una festa credo, non trovava più la via. Aveva perso la macchina. La cerca per ore, senza risultato, alla fine si risolve di andare dalla polizia per denunciare il furto. Sapeva bene che il furto non c'era stato, non solo perché la macchina non era questo gran che, ma lo sapeva intimamente, aveva perso la via dove aveva parcheggiato, era stato così terribilmente fesso da perdere l'auto in quel labirinto di strade tutte uguali. Per evitare il “suicidio sociale” aveva denunciato un banalissimo furto. Mi hanno rubato l'auto, è molto meglio di: ho perso l'auto; sarebbe stata la resa di fronte alla società in cui nessuno mai perde la macchina. Sono convinto che siano in molti che perdono la macchina quando la parcheggiano, alcuni perdono ore per ritrovarla, altri la perdono per sempre. Le città sono fatte apposta per questo, non avrebbero altrimenti senso le strade tutte uguali, ma la società è fatta della nostra idea di essa, e la nostra idea è: non puoi perdere un bene così prezioso in questa maniera, non puoi essere fesso fino a questo punto. Diciotto anni fa, salivo su di una colonna, deciso a rimanerci fino alla morte. Io stesso non ero troppo convinto della faccenda. Molto probabilmente, ripensandoci, credo che volessi davvero il suicidio sociale, forse come alternativa al suicidio vero poiché sono troppo pusillanime per esso. Però, esiste una sensibile differenza tra un suicidio vero e uno sociale: dopo aver compiuto il suicidio sociale, ci si scopre vivi né più e né meno di prima. Una cosa straordinaria questa, tanto straordinaria che ci fa rimanere male, ci delude. Tutta la devastante paura contro cui abbiamo tenuto per anni una lotta impari, è come sparita, dissolta. Non ne rimane traccia. E scopriamo che ci eravamo inventati tutto, che a nessuno frega poi tanto di quello che facciamo, che non siamo il centro del mondo. Perché uno ha un bel dire che non gliene importa nulla di quello che gli altri pensano di lui; non è così. Il potere del giudizio degli altri su di noi determina la percezione di noi stessi, ci forma, ed è maledettamente conformante. Ora, quando uno ha un po' di personalità va in cerca del suo pubblico, se lo crea, se necessario, ma io diciotto anni fa ero ben lontano dall'avere un tale carattere. E poi, questa immagine di un uomo così fatta non è che un mito, la tribuna dalla quale ci esibiamo la sorreggono gli altri. È stato il popolo tedesco a fare di un imbianchino un dittatore. La verità è che l'uomo si differenzia dagli animali soprattutto per la viscida gelatina di menzogne che lo avvolge. E ora io sono qui, in perenne bilico sul vuoto; se mi lascio andare precipito. Sei metri sono una bella altezza. C’è il vuoto davanti a me, il vuoto dietro di me, su ogni lato c’è il vuoto. Il tempo da che sono qui è un vuoto, come il tempo che mi resta da vivere. Anche la mia stanchezza è un vuoto, la gente che viene alla colonna a pregare, a chiedere una parola, un miracolo, anche loro sono un vuoto. Un vuoto pieno soltanto di gravità. La mia è una sfida alla gravità di tutte le cose, di tutte le cose che vorrebbero trascinarmi giù, farmi scendere o schiantare a terra. Contro tutto questo, la mia unica arma è l’equilibrio. E l’equilibrio altro non è che esercizio fisico. Continua correzione millimetrica, diuturna, inesausta. Una forza mi trascina in avanti, una indietro, una sul lato destro, una sul fianco sinistro e tutte verso il basso. Da solo non avrei la forza di salvarmi da alcuna di queste forze. Ma posso contrastare il baratro che mi attira davanti, con l’invisibile precipizio che ho alle spalle, la mano che mi trascina a destra, con quella che mi trascina a sinistra. Sei metri e trentaquattro centimetri mi separano dalla morte. Non ho paura di essa, anzi aspetto il giorno in cui tutto questo immane sforzo finirà e io precipiterò nell’abisso senza toccare terra, solo il mio cadavere toccherà terra, non io, le cose alle cose, i cadaveri alla terra, ma non io, io non sarò più. È la tensione verticale che mi tiene qua. Il mio disordine esistenziale, la mia confusione, la mia paura era l’incapacità di seguire la mia tensione verticale, quella che mi dice di essere migliore, di migliorami. Tu devi migliorarti. Una millimetrica correzione, il muscolo della coscia s’irrigidisce, un altro muscolo si rilassa. Sembro immobile agli altri che mi guardano da terra, ma tutto si muove. Tutto si muove e allo stesso tempo io sono l’unica cosa ferma, appeso alla mia tensione verticale, unica cosa immutabile in questi diciotto anni, qui sulla terra, in cima a una colonna di sei metri e trentaquattro centimetri. Mantieni la tua posizione e creerai un universo. Io sto qui. La stessa forza che ho confusamente sentito la prima volta che in Siria sono salito su quel basamento di colonna mi tiene qui, la stessa forza; è l'andatura bipede, l'incredibile sforzo fatto dalla scimmia per camminare eretta. Ora sono qui, ora sono stato qui, per 18 anni, appena salito tremavo come una foglia, ero quasi paralizzato dalla paura di cadere, sentivo la mia vita straordinariamente in pericolo, avevo ancora la scala dietro di me, tremavo, avrei urlato di paura. Ma qualcosa mi diceva: non credere alla tua paura. E non ci ho creduto.



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