DE FALSU CREDITU
Habib Toubib
Marock & maroll
Mini-Mimùm Fuchs, Pag.145 Euro 7,20
"Quid novi ex Africha?" Un libro insolito, anche se qui e là furbacchiòtto - Chimo, Melissa P. e compagnia cantante, per intenderci: la letteratura francofona delle ex colonie dell'Esagono ha di solito modelli, toni e stili che rammentano quella, grande e compassata, raciniana e "raisonnable" pure nello svacco, della metropoli (Baudelaire costringeva la sua materia lutulenta nell'implacabile metro alessandrino). E' facile rinvenire proustismi, trattamenti "genetici", commozioni gidiane, apoftegmi degni del Sartre più nauseato, qualche nevrosi durassiana o del Simenon "serio", e, più rari, paroliberi oulipisti e histoire d'O-regard - ma diffusissimi sono i riferimenti al sodo retaggio dei Renard, Flaubert, France, Zola, - anche al "piednoirisme" d'un Camus, all'impegno esotico d'un Malraux - o dei minori, quale Roblès. Essì, c'è qualche mole d'americanismo: ma filtrata dai Vian, Queneau, o dai novel-"polaristi".
Così, gli Autori berberi, o africani, o i rari indocinesi, son vittime o del mezzobustismo culturale che li imbalsama, o della "sindrome Mishima": l' Occidente cerca lo scrittore "esotico", e però si fa piacere quello che meglio adotta (e, al massimo, adatta) il canone tematico e formale del vecchio continente - ma non è, questa, l'intera storia dei rapporti tra "noi" e "loro", tanto più apprezzati ("quelli") tanto più ci somigliano o fan di tutto per somigliarci?
Invece, Habib Toubib ha scelto una diversa strada: volendogli per forza trovare un analogo in lingua francese, si potrebbe forse fare il nome di Roussell, al quale lo accomuna anche la competenza musicale - il Nostro infatti suona con virtù il classico piano e la "taratapìja", versione un'ottava più alta della "tapijòcha", sorta di mandolino a tre corde diffuso nell'Atlante, nel Mali e nella prima Africa nera. Ma questa similitudine sarebbe fourviante, se presa alla lettera: in realtà, più che somiglianze nell'impostazione della pagina, è l'intenzione autoriale che consuona. Toubib - marocchino di nascita, ma di madre francofona (canadese) e vissuto a lungo in Tunisia, Togo e Costa d'Avorio - rimette in gioco ogni luogo comune, ogni sottise, ogni idea ricevuta, ogni banalità possibile e immaginabile, africana e continentale, dei magrebini o dei neri sugli occidentali e viceversa, e con queste costruisce racconti (anche brevissimi, meno di mezza pagina) d'impeccabile rigore e ritmo (il rock del titolo) - siamo in area Silvio D'Arzo, con quelle frasi decasillabe che assieme intontiscono come il tutù-tutùn del treno sui binari, e però dànno lucore e forza anche al luogo più consunto e logràto. Un esempio è il racconto che dà titolo al volume, in cui si tratteggia il carattere d'un bianco mediterraneo (Spagnuolo? Francese? Grecanico? Italiano? Mah!) che raggiunge la città "maroquinas" ove soggiornò Borroughs. Anzi, il protagonista prende una camera nell'albergo abitato dallo scrittore nordamericano. E perdipiù chiede e ottiene la camera abitata dall'Autore. Qui, una volta solo, s'abbandona alla suggestione: si rolla una canna, beve del cognac d'importazione, scrive sul proprio taccuino dei brani di prosa, finalmente esce sul balcone - ma per accorgersi che su ognuna delle loggette dei sei piani dell'albergo, c'è un bianco stralunato quanto lui, che si fa uno spino e scrive appunti su un block notes. (*)
Fosse però solo questo, l'Autore forse non avrebbe avuto il successo che ha (oltre un milione di copie vendute, e ben due film in programma, uno da questa raccolta e il secondo dal romanzo d'esordio, e meno riuscito, Poussière et tirèr d'Afrique SVP (Edition 18Leçons-Polio). L'abilità di Toubib (come scenù quella di Aldo Nove) è di elicitare mediante la scrittura una carica di partecipazione emotiva che in quantità e qualità spazia dalle lagrime della massaia dinanzi alla telenovela, sino alla rifinita emotività del fruitore più scaltrito dal suo avvertimento, liberato da ogni incrostazione naturalistica e però soggetto al richiamo del foresto e dell'ismo verista o comunque "reality". E ciò, lo ripetiamo, attraverso l'impiego di materiali frusti - stereotipi i più corrivi, tipici che ricorrono al topico e viceversa, arte nell'epoca della sua riproducibilità meccanica, masscult e midcult - rivitalizzati da un'impeccabile regìa che non sai se post o camp. E che testimonia di come l'Africa sia perfettamente in grado, come testimoniano anche suoi Autori figurativi, di produrre cultura up to date.
Infine, non sarà male indicare una lettura fisio-ideo-logica del romanzetto africo-calabro (l'Autore confessa nel racconto Mia faza, mia raza, una sua discendenza calabrese - un'àvola (ma nel caso sarebbe della Puglia) gli venne dal rapimento di pirati berberi d'una fanciulla di Borgia (prov. CZ)): esso può catalogarsi come l'istoria di un dialogo tra sordi ("noi" e "loro", ancora), ognuno chiuso e intrappolato nel proprio prefabbricato discorso, che è l'unico organo sensoriale che s'ha per inquadrare l'altro. Così, la parola non sarebbe che un'arte della vista: ma d'una visuale resa deforme attraverso gli occhi-occhiali del linguaggio. E il congegno che fa la vista al mondo è pure quello che la storce - kantianamente.
(*) fonte: Massimo Coppola.
Così, gli Autori berberi, o africani, o i rari indocinesi, son vittime o del mezzobustismo culturale che li imbalsama, o della "sindrome Mishima": l' Occidente cerca lo scrittore "esotico", e però si fa piacere quello che meglio adotta (e, al massimo, adatta) il canone tematico e formale del vecchio continente - ma non è, questa, l'intera storia dei rapporti tra "noi" e "loro", tanto più apprezzati ("quelli") tanto più ci somigliano o fan di tutto per somigliarci?
Invece, Habib Toubib ha scelto una diversa strada: volendogli per forza trovare un analogo in lingua francese, si potrebbe forse fare il nome di Roussell, al quale lo accomuna anche la competenza musicale - il Nostro infatti suona con virtù il classico piano e la "taratapìja", versione un'ottava più alta della "tapijòcha", sorta di mandolino a tre corde diffuso nell'Atlante, nel Mali e nella prima Africa nera. Ma questa similitudine sarebbe fourviante, se presa alla lettera: in realtà, più che somiglianze nell'impostazione della pagina, è l'intenzione autoriale che consuona. Toubib - marocchino di nascita, ma di madre francofona (canadese) e vissuto a lungo in Tunisia, Togo e Costa d'Avorio - rimette in gioco ogni luogo comune, ogni sottise, ogni idea ricevuta, ogni banalità possibile e immaginabile, africana e continentale, dei magrebini o dei neri sugli occidentali e viceversa, e con queste costruisce racconti (anche brevissimi, meno di mezza pagina) d'impeccabile rigore e ritmo (il rock del titolo) - siamo in area Silvio D'Arzo, con quelle frasi decasillabe che assieme intontiscono come il tutù-tutùn del treno sui binari, e però dànno lucore e forza anche al luogo più consunto e logràto. Un esempio è il racconto che dà titolo al volume, in cui si tratteggia il carattere d'un bianco mediterraneo (Spagnuolo? Francese? Grecanico? Italiano? Mah!) che raggiunge la città "maroquinas" ove soggiornò Borroughs. Anzi, il protagonista prende una camera nell'albergo abitato dallo scrittore nordamericano. E perdipiù chiede e ottiene la camera abitata dall'Autore. Qui, una volta solo, s'abbandona alla suggestione: si rolla una canna, beve del cognac d'importazione, scrive sul proprio taccuino dei brani di prosa, finalmente esce sul balcone - ma per accorgersi che su ognuna delle loggette dei sei piani dell'albergo, c'è un bianco stralunato quanto lui, che si fa uno spino e scrive appunti su un block notes. (*)
Fosse però solo questo, l'Autore forse non avrebbe avuto il successo che ha (oltre un milione di copie vendute, e ben due film in programma, uno da questa raccolta e il secondo dal romanzo d'esordio, e meno riuscito, Poussière et tirèr d'Afrique SVP (Edition 18Leçons-Polio). L'abilità di Toubib (come scenù quella di Aldo Nove) è di elicitare mediante la scrittura una carica di partecipazione emotiva che in quantità e qualità spazia dalle lagrime della massaia dinanzi alla telenovela, sino alla rifinita emotività del fruitore più scaltrito dal suo avvertimento, liberato da ogni incrostazione naturalistica e però soggetto al richiamo del foresto e dell'ismo verista o comunque "reality". E ciò, lo ripetiamo, attraverso l'impiego di materiali frusti - stereotipi i più corrivi, tipici che ricorrono al topico e viceversa, arte nell'epoca della sua riproducibilità meccanica, masscult e midcult - rivitalizzati da un'impeccabile regìa che non sai se post o camp. E che testimonia di come l'Africa sia perfettamente in grado, come testimoniano anche suoi Autori figurativi, di produrre cultura up to date.
Infine, non sarà male indicare una lettura fisio-ideo-logica del romanzetto africo-calabro (l'Autore confessa nel racconto Mia faza, mia raza, una sua discendenza calabrese - un'àvola (ma nel caso sarebbe della Puglia) gli venne dal rapimento di pirati berberi d'una fanciulla di Borgia (prov. CZ)): esso può catalogarsi come l'istoria di un dialogo tra sordi ("noi" e "loro", ancora), ognuno chiuso e intrappolato nel proprio prefabbricato discorso, che è l'unico organo sensoriale che s'ha per inquadrare l'altro. Così, la parola non sarebbe che un'arte della vista: ma d'una visuale resa deforme attraverso gli occhi-occhiali del linguaggio. E il congegno che fa la vista al mondo è pure quello che la storce - kantianamente.
(*) fonte: Massimo Coppola.
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