INTERVISTE
Maurizio De Giovanni
Il commissario Ricciardi, protagonista dei tuoi quattro romanzi usciti per Fandango, è un personaggio che ha fatto immediatamente presa sui lettori. Ce lo puoi descrivere un attimo.
Il commissario Ricciardi, per come me lo sono immaginato io, è tutt'altro che bello: altezza media, bruno, capelli lisci sempre scompigliati, mani piccole e nervose. Non simpatico né brillante, al massimo sarcastico. L'unica nota particolare sono gli occhi, verdi e impenetrabili, ma nel complesso è un tipo schivo, riservato, tutt'altro che "piacione". Eppure, effettivamente sembra aver fatto breccia nel cuore dei lettori, che si compenetrano nel "fatto", un dono che forse sarebbe più corretto definire una condanna: Ricciardi vede i morti di morte violenta che ripetono ossessivamente la seconda metà del pensiero che la morte improvvisa ha tagliato. Si tratta in realtà di una metafora della compassione, l'impossibilità a voltare le spalle al dolore altrui: cosa che purtroppo noi facciamo spesso, fingendo di non vedere le ferite sociali che incontriamo a ogni passo nella vita.
L'ambientazione è quella degli anni Trenta in un'Italia sotto il regime fascista che, fatte le dovute differenze, non sembra tanto dissimile dall'attuale, sbaglio?
Non sbagli. La differenza stridente, evidente a ogni sguardo che conservi un minimo di onestà intellettuale, tra la vita reale e quella che si vuole far credere sia la nostra quotidianità; la crisi economica, la povertà e il dolore delle minoranze; l'intolleranza, la sottile insofferenza razziale; la ricerca autolesionista di slogan e parole forti sono elementi comuni tra le due epoche. In un certo senso credo che all'epoca attuale siano più vicini gli anni trenta che, ad esempio, gli anni sessanta. Sarebbe assurdo, però, non aver imparato niente dagli errori più sanguinosi che il nostro popolo ha fatto nella storia, coagulando un consenso che ci ha portato alla rovina.
L'elemento magico o soprannaturale entra nelle tue storie con una naturalezza elegante, un po' come la tua scrittura, a ricordarci che il visibile e l'invisibile, soprattutto in letteratura, sono parte dello stesso mondo; sono la vita in pratica. Il tuo rapporto con l'invisibile?
Sono convinto che chiamiamo magico e soprannaturale quello che non riusciamo ancora a spiegarci. La mia città prevede da sempre la convivenza della vita e della morte, del silenzio e delle urla; da sempre abbiamo un rapporto speciale con la morte. Ricordiamo che sin dal settecento il popolo "adottava" un teschio dalle fosse comuni della peste che fece 500.000 morti e ne faceva un antenato immaginario, al quale chiedere consiglio e buoni uffici per sopravvivere nella quotidiana lotta per il cibo. In quale altro posto poteva avvenire qualcosa del genere? Io non ho fatto altro, con Ricciardi, che mantenere la tradizione napoletana del rapporto con la morte, che è sempre una parte rilevante della vita.
Napoli, la tua città. Da tempo la narrativa non la descriveva con questi toni. Finalmente qualcuno che non parla solo di camorra o degrado (che per carità esistono e vanno combattuti ma rigirare il coltello nella piaga non aiuta a mio avviso). Il tuo rapporto con lei?
Della mia città io sono innamorato. E come in ogni rapporto d'amore, sono perfettamente cosciente delle imperfezioni e delle deformità, ma questo non riesce a cambiare la mia voglia di essere in lei e per lei, per cercare di migliorarla. Credo fortemente che sia necessario prendere coscienza dei grandi drammi che il mio popolo è costretto a vivere ogni giorno, le vessazioni, le violenze, le prevaricazioni; che le clientele e le sudditanze abbiano portato al sonno della ragione e al disimpegno politico delle classi dirigenti, che la cultura e la storia siano la chance principale che abbiamo per la rinascita. Camorra, degrado, certo; ma anche tremila anni di passato, tradizioni, artisti raffinati che il mondo intero ci invidia. Siamo una città di individui che non riescono ad avere la coscienza di popolo: il recupero dell'identità di napoletani è il primo passo per una coerente ricostruzione della coscienza e per scrollarci di dosso i mali endemici.
Raccontaci come nasce l'idea di questa tetralogia.
Mi piacerebbe poter dire che il progetto delle quattro stagioni sia nato dopo anni di riflessione e meditazione sulle possibilità narrative, che l'avvicendarsi dei mesi e dei colori delle stagioni sia stata un'idea contemporanea alla nascita di Ricciardi, ma non è così. Dopo il primo romanzo, pubblicato con una piccola casa editrice napoletana, ebbi molti complimenti per l'ambientazione insolita, fatta di vento e freddo; così provai a ricreare un'atmosfera di dolore e orrore in una stagione dolce come la nostra primavera. Fu Domenico Procacci della Fandango a intuire le potenzialità del personaggio e di un ciclo che lo portasse attraverso le quattro stagioni del 1931, così come poi è stato, e a volerlo pubblicare con le meravigliose copertine del grande Gianluigi Toccafondo: gliene sarò sempre grato.
Il seguito di questa serie lo pubblicherai con Einaudi. Ci puoi fare qualche anticipazione?
Anche stavolta, le storie saranno organizzate in una tetralogia. A scandire il tempo saranno non più le stagioni ma le festività principali, durante le quali avverranno le vicende che caratterizzeranno i singoli romanzi. Si comincia con il Natale, poi ci sarà la Pasqua, la Piedigrotta e infine la festa di san Gennaro. In realtà il ciclo stagionale si ripeterà, perché queste festività cadono appunto una per stagione, ma io avrò modo di raccontare, insieme alle storie dei personaggi, tutte le tradizioni e i contesti che col tempo si sono perduti e di cui si conserva memoria nella narrativa e nei documenti dell'epoca. Assicuro che ho trovato cose straordinariamente interessanti e sconosciute anche a me che vivo in questa città da quando sono nato.
Parliamo un attimo di te. Come hai scoperto la tua vena di scrittore, visto che il successo è arrivato "da grande"?
Non ci pensavo minimamente. Avevo (e per fortuna ho ancora) un lavoro abbastanza gratificante, due figli, una compagna e 47 anni; mi accontentavo di essere un lettore bulimico, senza pregiudizi di genere e fermamente convinto che lo scrittore fosse un essere baciato da un talento quasi soprannaturale. Poi, a seguito di alcune strane circostanze, mi sono ritrovato iscritto da alcuni amici a un concorso per giallisti indetto dalla Porsche Italia, nell'ambito del quale inventai Ricciardi. Da quel momento in poi tutto è venuto naturalmente, i romanzi, il successo, l'affezione del pubblico per il personaggio e quel mondo. Allora ho cominciato a scrivere anche altre cose, racconti sul calcio, testi teatrali, racconti sul soprannaturale, articoli per i giornali, e non mi sono più fermato. Finché ci sarà gente che vuole ascoltare le mie storie continuerò; altrimenti, credimi, non sarà un grande sforzo tornare alla mia vita precedente.
Domanda conclusiva sul noir. A quanto pare da alcuni anni si è rivitalizzato. Moda o davvero ci sono autori che hanno di nuovo qualcosa da dire, soprattutto a livello stilistico?
Credo fermamente che il romanzo nero italiano sia una grandissima novità in termini di letteratura nazionale. Ci sono moltissimi autori che attraverso il romanzo cosiddetto di genere propongono una lettura delle realtà urbane interessante e assolutamente innovativa, a fronte di una narrativa mainstream che mostra evidenti segnali di stanchezza. Penso a Bruno Morchio, a Valerio Varesi, a Enrico Pandiani, Al Custerlina, Giorgio Todde, che si affiancano ai celebrati e straordinari Dazieri, Carrisi, Biondillo, Carofliglio, Lucarelli, Camilleri, Faletti e De Cataldo. Per non parlare di Carlotto, Piazzese, i giovani Porazzi, Berselli, Morozzi, Rainer e potrei continuare per ore, ognuno con la sua voce, ognuno con un personalissimo approccio. Per quanto mi riguarda, sono davvero molto fiero di far parte di questa generazione di autori che stanno costringendo i lettori italiani e non solo a guardare anche all'interno del Paese, per trovare ottimi romanzi e nuove idee.
Il commissario Ricciardi, per come me lo sono immaginato io, è tutt'altro che bello: altezza media, bruno, capelli lisci sempre scompigliati, mani piccole e nervose. Non simpatico né brillante, al massimo sarcastico. L'unica nota particolare sono gli occhi, verdi e impenetrabili, ma nel complesso è un tipo schivo, riservato, tutt'altro che "piacione". Eppure, effettivamente sembra aver fatto breccia nel cuore dei lettori, che si compenetrano nel "fatto", un dono che forse sarebbe più corretto definire una condanna: Ricciardi vede i morti di morte violenta che ripetono ossessivamente la seconda metà del pensiero che la morte improvvisa ha tagliato. Si tratta in realtà di una metafora della compassione, l'impossibilità a voltare le spalle al dolore altrui: cosa che purtroppo noi facciamo spesso, fingendo di non vedere le ferite sociali che incontriamo a ogni passo nella vita.
L'ambientazione è quella degli anni Trenta in un'Italia sotto il regime fascista che, fatte le dovute differenze, non sembra tanto dissimile dall'attuale, sbaglio?
Non sbagli. La differenza stridente, evidente a ogni sguardo che conservi un minimo di onestà intellettuale, tra la vita reale e quella che si vuole far credere sia la nostra quotidianità; la crisi economica, la povertà e il dolore delle minoranze; l'intolleranza, la sottile insofferenza razziale; la ricerca autolesionista di slogan e parole forti sono elementi comuni tra le due epoche. In un certo senso credo che all'epoca attuale siano più vicini gli anni trenta che, ad esempio, gli anni sessanta. Sarebbe assurdo, però, non aver imparato niente dagli errori più sanguinosi che il nostro popolo ha fatto nella storia, coagulando un consenso che ci ha portato alla rovina.
L'elemento magico o soprannaturale entra nelle tue storie con una naturalezza elegante, un po' come la tua scrittura, a ricordarci che il visibile e l'invisibile, soprattutto in letteratura, sono parte dello stesso mondo; sono la vita in pratica. Il tuo rapporto con l'invisibile?
Sono convinto che chiamiamo magico e soprannaturale quello che non riusciamo ancora a spiegarci. La mia città prevede da sempre la convivenza della vita e della morte, del silenzio e delle urla; da sempre abbiamo un rapporto speciale con la morte. Ricordiamo che sin dal settecento il popolo "adottava" un teschio dalle fosse comuni della peste che fece 500.000 morti e ne faceva un antenato immaginario, al quale chiedere consiglio e buoni uffici per sopravvivere nella quotidiana lotta per il cibo. In quale altro posto poteva avvenire qualcosa del genere? Io non ho fatto altro, con Ricciardi, che mantenere la tradizione napoletana del rapporto con la morte, che è sempre una parte rilevante della vita.
Napoli, la tua città. Da tempo la narrativa non la descriveva con questi toni. Finalmente qualcuno che non parla solo di camorra o degrado (che per carità esistono e vanno combattuti ma rigirare il coltello nella piaga non aiuta a mio avviso). Il tuo rapporto con lei?
Della mia città io sono innamorato. E come in ogni rapporto d'amore, sono perfettamente cosciente delle imperfezioni e delle deformità, ma questo non riesce a cambiare la mia voglia di essere in lei e per lei, per cercare di migliorarla. Credo fortemente che sia necessario prendere coscienza dei grandi drammi che il mio popolo è costretto a vivere ogni giorno, le vessazioni, le violenze, le prevaricazioni; che le clientele e le sudditanze abbiano portato al sonno della ragione e al disimpegno politico delle classi dirigenti, che la cultura e la storia siano la chance principale che abbiamo per la rinascita. Camorra, degrado, certo; ma anche tremila anni di passato, tradizioni, artisti raffinati che il mondo intero ci invidia. Siamo una città di individui che non riescono ad avere la coscienza di popolo: il recupero dell'identità di napoletani è il primo passo per una coerente ricostruzione della coscienza e per scrollarci di dosso i mali endemici.
Raccontaci come nasce l'idea di questa tetralogia.
Mi piacerebbe poter dire che il progetto delle quattro stagioni sia nato dopo anni di riflessione e meditazione sulle possibilità narrative, che l'avvicendarsi dei mesi e dei colori delle stagioni sia stata un'idea contemporanea alla nascita di Ricciardi, ma non è così. Dopo il primo romanzo, pubblicato con una piccola casa editrice napoletana, ebbi molti complimenti per l'ambientazione insolita, fatta di vento e freddo; così provai a ricreare un'atmosfera di dolore e orrore in una stagione dolce come la nostra primavera. Fu Domenico Procacci della Fandango a intuire le potenzialità del personaggio e di un ciclo che lo portasse attraverso le quattro stagioni del 1931, così come poi è stato, e a volerlo pubblicare con le meravigliose copertine del grande Gianluigi Toccafondo: gliene sarò sempre grato.
Il seguito di questa serie lo pubblicherai con Einaudi. Ci puoi fare qualche anticipazione?
Anche stavolta, le storie saranno organizzate in una tetralogia. A scandire il tempo saranno non più le stagioni ma le festività principali, durante le quali avverranno le vicende che caratterizzeranno i singoli romanzi. Si comincia con il Natale, poi ci sarà la Pasqua, la Piedigrotta e infine la festa di san Gennaro. In realtà il ciclo stagionale si ripeterà, perché queste festività cadono appunto una per stagione, ma io avrò modo di raccontare, insieme alle storie dei personaggi, tutte le tradizioni e i contesti che col tempo si sono perduti e di cui si conserva memoria nella narrativa e nei documenti dell'epoca. Assicuro che ho trovato cose straordinariamente interessanti e sconosciute anche a me che vivo in questa città da quando sono nato.
Parliamo un attimo di te. Come hai scoperto la tua vena di scrittore, visto che il successo è arrivato "da grande"?
Non ci pensavo minimamente. Avevo (e per fortuna ho ancora) un lavoro abbastanza gratificante, due figli, una compagna e 47 anni; mi accontentavo di essere un lettore bulimico, senza pregiudizi di genere e fermamente convinto che lo scrittore fosse un essere baciato da un talento quasi soprannaturale. Poi, a seguito di alcune strane circostanze, mi sono ritrovato iscritto da alcuni amici a un concorso per giallisti indetto dalla Porsche Italia, nell'ambito del quale inventai Ricciardi. Da quel momento in poi tutto è venuto naturalmente, i romanzi, il successo, l'affezione del pubblico per il personaggio e quel mondo. Allora ho cominciato a scrivere anche altre cose, racconti sul calcio, testi teatrali, racconti sul soprannaturale, articoli per i giornali, e non mi sono più fermato. Finché ci sarà gente che vuole ascoltare le mie storie continuerò; altrimenti, credimi, non sarà un grande sforzo tornare alla mia vita precedente.
Domanda conclusiva sul noir. A quanto pare da alcuni anni si è rivitalizzato. Moda o davvero ci sono autori che hanno di nuovo qualcosa da dire, soprattutto a livello stilistico?
Credo fermamente che il romanzo nero italiano sia una grandissima novità in termini di letteratura nazionale. Ci sono moltissimi autori che attraverso il romanzo cosiddetto di genere propongono una lettura delle realtà urbane interessante e assolutamente innovativa, a fronte di una narrativa mainstream che mostra evidenti segnali di stanchezza. Penso a Bruno Morchio, a Valerio Varesi, a Enrico Pandiani, Al Custerlina, Giorgio Todde, che si affiancano ai celebrati e straordinari Dazieri, Carrisi, Biondillo, Carofliglio, Lucarelli, Camilleri, Faletti e De Cataldo. Per non parlare di Carlotto, Piazzese, i giovani Porazzi, Berselli, Morozzi, Rainer e potrei continuare per ore, ognuno con la sua voce, ognuno con un personalissimo approccio. Per quanto mi riguarda, sono davvero molto fiero di far parte di questa generazione di autori che stanno costringendo i lettori italiani e non solo a guardare anche all'interno del Paese, per trovare ottimi romanzi e nuove idee.
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