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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Miranda Miranda (prima parte)

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Nel tuo libro 'Il mare sospeso' è evidente la presenza della città di Napoli come coprotagonista. Vorrei sapere qualcosa di più sul tuo legame con la città, che descrivi bella e opulenta, ma sofferente come una gran dama ferita.



Il mio legame con la città è forte: non saprei immaginarmi nata e vissuta in un altro luogo. Non sono cosmopolita in questo senso, né mi sento troppo cittadina del mondo, non posseggo questa disinvoltura. Mi riconosco nella città che mi ha messo nella bocca quest'accento, le parole di un dialetto che è per me la lingua dell'emotività e dell'ironia, il muovermi a passo svelto, l'adrenalina limpida e leggera e l'adrenalina sporca. Nel tempo, quest'appartenenza è diventata sempre più imponente dentro di me e con essa la volontà di renderla concreta, legandola alla mia scrittura.



Nel romanzo c'è un'ambivalenza nella protagonista, che a volte sembra attratta dalla possibilità di vivere in altri luoghi. Anche a te è capitato, qualche volta, di dover combattere con la tentazione di fuggire?



Ahimè, a vent'anni fuggii e basta, mi sembrò facile allora. Ho sperimentato quindi la fuga e tutte le sue conseguenze, compreso il fatto che, quando andai via, non avevo la minima consapevolezza di possedere, in un luogo indeterminato del mio istinto (ma io, allora tutta ragione, avrei negato l'esistenza di un istinto) un fortissimo, indistruttibile senso di appartenenza. Caso mai il combattimento c'è stato dopo, quando tutti i motivi appartenenti al senso comune vennero a scontrarsi con quest'istinto di appartenenza sempre più duro ed esigente. Alla fine capii che avrei dovuto dargli pieno riconoscimento e tornare indietro, dove si trovava il mio vero senso del vivere, la mia identità e l'occasione di poter scrivere in piena coscienza e in piena verità. Ho accettato la difficile appartenenza alla mia città e il processo si è finalmente concluso; adesso vivo una vita molto più precaria rispetto a quella che si può condurre in un piccolo posto del centro Italia, ma molto più appagante. Si è dissolto il senso di colpa latente che mi ha accompagnato per anni, quello del non esserci in una situazione che il destino ti ha assegnato, difficile quanto si vuole, ma tua.



La fuga è soltanto una delle soluzioni che si prospettano di fronte a un problema dai molteplici aspetti, che è il filo conduttore del romanzo. In sostanza si parla di come affrontare una forma parassitaria che sottrae linfa vitale, e che prende tre forme: la malattia, l'amore mal corrisposto e la camorra. Nel corso di tutto il libro c'è un dibattito fra tre tipi di soluzione: cedere, ribellarsi o fuggire. Mentre la malattia e i rapporti affettivi possono essere affrontati sul piano individuale, le cose si complicano quando si tratta di una piaga sociale come la camorra. Che cosa pensi riguardo alle possibilità di affrontare questo problema?



E' vero, ognuna di queste forme, a suo modo, toglie forza, energia, sicurezza, individuale come sociale. La dinamica del cercare tre tipi di soluzione, cedere, ribellarsi o fuggire è comune, da molto tempo, almeno da 150 anni, a molti napoletani e trama veramente il vivere quotidiano in questa città. Le possibilità di affrontare il problema della camorra, e in generale i problemi di Napoli, mi sembrano molto poche perché Napoli si trova in Italia. Quando ero adolescente e credevo almeno un po' nella capacità di trasformare le cose, si usava molto l'espressione "volontà politica": ecco, io non vedo e non ho mai visto nessuna volontà politica per risolvere o per lo meno per cominciare ad affrontare le questioni. Non dimentichiamo che, come faccio dire a un personaggio del romanzo, noi ci troviamo a vivere in un territorio, l'Italia, dove agiscono ben quattro organizzazioni criminali di portata mondiale, la camorra, la mafia, la sacra corona unita e la 'ndrangheta. Non esiste alcun paese al mondo che viva questa realtà. Quanta connivenza, quali collusioni, si sono spese durante tutti gli anni dall'unità in poi, tra potere politico e potere malavitoso? E quanto ha contato nella formazione e nello stabilizzarsi di una vera e propria mentalità? Il potere politico in Italia non ha mai combattuto sul serio la delinquenza, nel migliori dei casi ha fatto finta, occupato com'è sempre stato ad allearvisi e a trovarvi il proprio tornaconto e questo dall'inizio: cominciò Garibaldi a servirsi di Liborio Romano, che reclutava nella polizia uomini della camorra. La camorra, come in misura diversa le altre organizzazioni, è al parlamento come al governo, al Nord come al Sud, in una spirale di interessi politici ed economici da far paura.



Forse la ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe essere un'occasione.



Mi sarebbe piaciuto finalmente che fosse colta come occasione per operare una revisione profonda della nostra storia, recuperando il Risorgimento integralmente e mettendo in luce quanti e quali guasti esso abbia portato al Sud, trattato come territorio di conquista, senza rispetto e senza alcuna solidarietà. Già solo quest'atto di buona volontà mi avrebbe spinto a sperare ma, mediocre e conformista come molta parte della realtà che viviamo oggi, la ricorrenza dei 150 anni si è risolta nella solita, brutta e retoricissima melassa di glorificazione obbligatoria (quanto ci sia ancora di trionfalismo becero e inutile nella nostra cultura e nel mondo politico, sarebbe un altro interessante, nonché assai deprimente, argomento).



Nel guardare al futuro c'è qualche ragione di ottimismo?



Dopo il passaggio di Bassolino e del suo illusorio quanto demagogico "risorgimento napoletano", non trovo più spazio dentro di me per essere ottimista in qualche modo. Alla fine, anche l'operazione bassoliniana è affogata nella monnezza del malgoverno e degli opportunismi politici e, alla fine, è servita unicamente a traghettare a Napoli, come sindaco, un altro inquietante personaggio del sottobosco democristiano, la Iervolino, che dopo aver fatto parte di un partito cattolico sempre contro tutte le conquiste civili delle donne, dal divorzio all'aborto (tra l'altro, come ministro della pubblica istruzione negli anni '80, la Iervolino fece ridicolmente proibire nelle scuole il fumetto di Lupo Alberto che faceva propaganda al preservativo nella campagna anti Aids), diventa esponente del maggiore partito della sinistra. Ricordo che nelle strade di Napoli le donne dell'associazione Emily, fondata dalla compagna di Bassolino, facevano propaganda elettorale per lei agganciando le passanti con la frase"Una donna come sindaco, signora", sfruttando pure la tematica femminista. Quanto equivoco. Insomma, il rinascimento, come quello vero, è passato in soffio, ma la Iervolino è rimasta per ben dieci anni, ripresentandosi per giunta dopo che già aveva fallito miseramente il suo primo mandato, durante il quale già si poteva scorgere il disastro che è poi avvenuto nel secondo. E tutto questo col consenso del novanta per cento degli intellettuali napoletani, scrittori, artisti, scultori, galleristi, giornalisti, che firmarono addirittura un appello (comparso su tutte le testate maggiori della città) perché l'incapace si ripresentasse alle elezioni per sindaco una seconda volta. Nessuno aveva fatto caso all'immondizia che già si era accumulata di nuovo nelle vie, ai morti di camorra sui marciapiedi di Scampia come del centro, alla morsa del pizzo che faceva chiudere negozi e attività, perché tutti inseguivano i progetti culturali finanziati dal comune. E ci siamo dovuti tenere l'arrogante inetta, che ha fatto la donna di paglia per tutto questo tempo.



Adesso c'è De Magistris. Cambierà qualcosa?



Stavolta ho tirato un sospiro di sollievo, ma è perché mi aspetto qualcosa di buono? No, semplicemente mi basta il fatto che non abbia vinto il candidato che presentava nella sua lista personaggi o parenti di personaggi della malavita. Mi attesto a questo, è tutto ciò che si possa ottenere oggi. Dopo tanta rovina, non si può chiedere di fidarsi ancora. La città è sempre stata presente nei miei libri, ma questa volta, per tutte le ragioni che ho detto, ho voluto darle un rilievo diverso e più imponente.



Nel tuo libro ci sono continui riferimenti alla musica, anzi direi che il romanzo è tutto impregnato di musica, dall'inizio alla fine. Sembra che questa forma d'arte influisca in qualche modo sulla tua creatività. Che rapporto c'è fra musica e letteratura? E qual è il ruolo delle arti visive?



E' la musica l'arte che amo al pari della letteratura e con la quale interagisco di più nel narrare. Preferisco, tra tutte, la musica antica e barocca, Monteverdi e Lully su tutti. La Pietà dei Turchini, che rappresenta per me una delle ragioni per cui vale la pena di vivere a Napoli, organizza ogni anno un fervido programma di queste musiche: ascoltarle dal vivo è una delle mie gioie più grandi e non di rado ne ricevo idee e suggestioni di scrittura, quando non proprio vere "partiture di parole", che ricevono il ritmo da arie e ballate. La musica, quest'arte strana, dalle parole che sono segni criptici su un pentagramma e che si liberano nell'aria in forma di suoni, non finirà mai di meravigliarmi. Le arti visive mi suggestionano poco, non so perché. Non che non mi piacciano, ma sono meno presenti nella mia scrittura. Il cinema mi ispira di più, anche se nemmeno lontanamente esercita su di me lo stesso fascino della musica; i primi film, quelli muti, esercitano su di me una forte seduzione e, a volte, mi regalano sensazioni da mettere sulla carta; mi piacciono i film francesi contemporanei, di cui apprezzo il ritmo, la leggerezza dei dialoghi e degli ambienti e che tengo sullo sfondo del mio narrare, come i fumetti. Li ho letti molto da piccola, proseguo adesso con Dylan Dog di cui apprezzo il segno, la dinamica gestuale, le storie al confine con l'assurdo.



Eppure anche la fotografia ha nel romanzo una presenza tutt'altro che casuale. Trovo geniale l'uso delle foto in bianco e nero per proporre una riflessione sul tempo e sul confronto fra epoche diverse. Mi domando se questa ispirazione ti sia venuta in seguito a uno stimolo preciso.



Le foto in bianco e nero. Hanno accompagnato anch'esse la mia infanzia, quando la fotografia era una cosa importante e serviva a immortalare cose altrettanto importanti. Per me la foto in bianco e nero ha sempre rappresentato una riflessione sul tempo e su epoche diverse ed è cominciata molto presto; quand'ero piccola, spesso mio padre tirava fuori dal suo cassetto chiuso a chiave un album contenente le fotografie di guerra di mio nonno e lo sfogliava, commentandole. Mio nonno aveva partecipato alla guerra del '15-'18 come artigliere, ma gli fu dato anche il compito di fare foto documentative: trincee coperte dalla neve, pezzi di artiglieria pesante, attendamenti, gruppi di commilitoni, egli stesso e i suoi fratelli in divisa, nella foto che lasciò alla sua fidanzata, mia nonna, emergevano dal tempo. Fu uno dei ragazzi di Caporetto, mio nonno, e ci lasciò la mano destra ma le sue foto, compresa la radiografia della mano disarticolata, una fotografia anch'essa in fondo, mi hanno sempre dato un senso di partecipazione eroica, di un'epica fatta di coraggio e senso del dovere. "Per la Patria!" ripeteva mio padre. E quelle foto erano importantissime, rappresentavano la sacralità del vivere, la memoria più alta di mio nonno di cui il figlio, mio padre, manteneva vivo il ricordo a noi che non l'avevamo conosciuto. Con quelle foto. Ecco qual è stato lo stimolo antico che è finito per sfociare in questo romanzo. Col tempo, dopo aver ereditato l'album, ho cominciato a collezionare foto d'epoca; posseggo alcuni dagherrotipi e foto Alinari, ma sono le fotografie che hanno come soggetto i matrimoni quelle che mi interessano di più.



E' straordinaria la vitalità che sei riuscita ad imprimere a personaggi colti dall'obiettivo in un singolo attimo della loro vita. Ne hai fatto dei piccoli gioielli indipendenti dalla storia, eppure perfettamente incastonati nel romanzo.



In ogni foto esiste una storia, basta volerla scoprire, attivando magari – come dice Dylan Dog - il nostro quinto senso e mezzo. Il bell'ufficiale austriaco, la ritoccatrice, la sposa ribelle, il tenore e la donna incinta esistono davvero e fanno parte della mia collezione. Ho guardato i loro occhi, le loro espressioni e ho cercato di farmi raccontare la loro storia di quel momento, sospesa nel tempo. Contrastando quelli che dicono che la trama non è più importante nel romanzo moderno, mi è venuta in mente l'idea, che è stata una sfida, di riprodurre invece in un romanzo le tante trame di cui si compongono le nostre esistenze perché, se la letteratura è vita, della vita deve raccontare. E così, come ho già detto, ho pensato ad un romanzo che contenesse in sé anche cinque racconti e che tutto rimandasse ad un corpus unico. Mi hanno aiutato, appunto, questi personaggi della mia collezione, i fantasmi che hanno vissuto con me, sugli scaffali del mio studio, per due anni. Sono stata contenta di aver dato loro un altro po' di vita.





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