INTERVISTE
Miranda Miranda (seconda parte)
Ne 'Il mare sospeso', parlando di Napoli, hai parlato del Portogallo. Nel libro sul Portogallo parli di Napoli. Come se le due città si rispecchiassero l'una nell'altra. Che cos'hanno davvero in comune?
E' vero: col tempo, Napoli e il Portogallo sono diventati un gioco di specchi per me, in cui nell'una riconosco qualcosa dell'altro e viceversa. La prima volta che andai a Lisbona, mi divertii molto quando scoprii le somiglianze tra le due città, che poi, in generale, non si somigliano affatto. Sono entrambe in bilico su un'acqua, mare per Napoli e fiume Tejo (ma come simile al mare!) per Lisbona; le loro strade terrazzate, specie quelle in alto, sono percorse dal vento e alcune località portano lo stesso nome, Monsanto – Montesanto, rua da Saudade e rione Sanità, Santa Luzia e Santa Lucia... L'Alfama, il quartiere popolare di Lisbona, spesso è stato paragonato ai nostri Quartieri e, fatte le debitissime proporzioni, qualche somiglianza territoriale e antropologica c'è, anche se a Lisbona tutto è molto più piccolo e ripulito. Il portoghese è spesso straordinariamente simile al nostro dialetto e la struggente malinconia di molte nostre canzoni quanto somiglia alla saudade del fado.
Dici anche che per le strade di Lisbona ti sembra di camminare come da noi negli anni '50.
Sì, Lisbona è anche la Napoli degli anni '50, quell'atmosfera contenuta, schiva, concentrata sui doveri, sostanzialmente sana e decorosa, appartenente ad una certa borghesia. Ma detto questo, per me è il senso di appartenenza a contare più di tutto, ed io lo sento profondamente per entrambe le realtà, un'appartenenza amorevole e dolorosa per Napoli, un'appartenenza leggera e felice per il Portogallo.
A un certo punto, nella tua cronaca di viaggio, sembra di capire che il tuo senso di appartenenza abbia origine dalle tue letture.
E' vero: per questo Paese, tutto nacque all'inizio con un romanzo, Il cugino Basilio di Josè Maria de Eça de Queiroz. Un'atmosfera sempre più familiare, dalla luce del cielo agli ambienti, mi veniva incontro con forza sempre maggiore, via via che leggevo le altre sue opere; quando ne La città e le montagne arrivai al punto in cui si descrive la rustica bellezza della casa di Jacintho , sentii che quel luogo mi apparteneva, in una maniera strana, sconosciuta, ma fortissima: "Tutto risplendeva d'ordine e di nettezza. Le imposte delle finestre, chiuse, proteggevano dal sole che batteva in quel lato di Tormes, riscaldando i davanzali di pietra. Dal pavimento, spruzzato d'acqua, saliva nella penombra soave, una dolce frescura. I garofani odoravano." Già dal primo viaggio, però, non c'è stato più alcun filtro letterario fra me e il Portogallo: il sogno si fondeva felicemente con la realtà, era quello che avevo sempre cercato. Sto imparando il portoghese, la cui ignoranza mi sembrava un vuoto, una mancanza; ora sto traducendo un volume di poesie del giovane poeta che cito sul frontespizio de Il mare sospeso e forse le pubblicherà proprio "Con-fine". L'appartenenza passa sempre, comunque, attraverso le parole.
Dunque in questo la lettura è stata determinante. Parlando più in generale, ci vuoi dire quali sono le letture che ti hanno accompagnata nella formazione del tuo gusto?
Sono tante, se pensi che leggo da quarantotto anni (cominciai dopo il primo mese di scuola e non ho finito più). Allora: sicuramente alcuni libri dell'infanzia, primo fra tutti l'opera completa di Collodi, che mi fu regalata in occasione di un'indimenticabile Befana dei miei otto anni; le atmosfere serene e la sua bella lingua toscana mi affascinarono nelle traduzioni delle favole di madame d'Aulnoy, in Giannettino, Pinocchio, Pipì lo scimmiottino color di rosa, Le storie allegre. E poi vennero gli struggimenti di Hector Malot In famiglia e Senza famiglia e di Dickens in Davide Copperfield, l'eccitante spirito d'avventura di Dumas in Robin Hood e del Robinson Crusoe di De Foe (questo in edizione ridotta), insieme ai piccoli saggi di un' enciclopedia per ragazzi, illustrata a colori Vita Meravigliosa, in 14 volumi. Che viaggi.
Mi piace che, nel ricordare i libri che hanno costellato il tuo percorso di lettrice, tu dia risalto ai libri dell'infanzia. Non tutti lo fanno, ed è come se dessero per scontati i "trastulli" dell'infanzia e volessero ora occuparsi di "cose serie". Inoltre mi è sembrata illuminante una frase del tuo racconto di viaggio: 'è la felicità ricca, cristallina e sfrenata che avrei provato nell'infanzia se avessi potuto entrare dentro un mio giocattolo'. Tutto questo mi fa pensare che tu conservi un rapporto ricco e creativo con il tuo mondo infantile. Quando scrivi attingi anche a questa "riserva" interiore?
Verissimo: è stato una robusta risorsa, esistenziale e letteraria, da cui ho attinto a piene mani per vivere e per scrivere, per superare travagli e dolori, per riappropriarmi ogni volta della mia qualità umana. Io sono la mia infanzia: se ci fosse un'altra vita, rinascerei in quegli anni (sono del '56) in una grande casa napoletana popolata da zii, prozie, nonni, cugini, una rete impagabile di protezione e stimoli; molte voci come una sola, e ognuna dava qualcosa di sé. Il tutto combinato con le voci degli ambulanti sotto le finestre, quelle del pescivendolo o del fruttaiolo che portavano la spesa a casa come si usava una volta, le chiacchiere della cameriera e della lavandaia che veniva ogni primo lunedì del mese(fino ai primi anni Sessanta, a casa di mia nonna non esisteva lavatrice) e della sarta "a giornata", in una lingua piena, corposa e delicata, un dialetto che non esiste più. I ritmi di una casa tranquilla, rodati attraverso sfasci e guerre, ma attestati poi sull'epoca che era stata quella della giovinezza dei miei nonni, e cioè il primo '900. Non ci poteva essere modo migliore per me, che ho avuto i primi sei anni di felicità pressoché perfetta, per affacciarmi alla vita. Poi ho molto giocato: penso che non ci sia cosa più seria dei giochi dell'infanzia per imparare a decodificare il mondo intorno, per la costruzione del pensiero e dell'immaginazione: quante volte penso che scrivere sia come giocare! Una persona che abbia dimenticato il gioco non può vivere bene e neanche scrivere bene. Le maschere, che ci impone il mondo adulto, non servono che ad imprigionarci e renderci infelici.
Torniamo ai libri.
Quando cominciai a guardare una delle librerie di quella casa, quella più "leggera", sui cui scaffali si affollavano i gialli americani di Ellery Queen di mio zio insieme ai romanzi per signorine in francese e in italiano appartenenti a mia madre e alle sue sorelle; tutti i numeri di Selezione di Reader's Digest del nonno col ciclo completo di Brigida va alla guerra della prozia e qualche fumetto di Pecos Bill dimenticato da mio cugino, ebbi per la prima volta il senso del tempo e delle generazioni che si erano avvicendate e fuse armonicamente e, insieme, la cognizione della molteplicità della cultura. Da mia nonna ho ascoltato le fiabe di Basile che ella sapeva per tradizione orale, e dubito che conoscesse l'esistenza dello scrittore seicentesco: la Gatta Cenerentola e Petrosinella nel loro svolgersi io le ho ambientate, le "vedevo", nel mio giardino. Un universo ricchissimo, come vedi. Va da sé, quindi, che non potrei mai rinnegare le letture infantili, che considero anzi i pilastri della mia vita intellettuale perché, tra l'altro, mi hanno preparata alla biblioteca "colta" del mio bisnonno.
Anche lui amante della lettura?
Era un maniaco bibliofilo, aveva comprato tanti di quei libri nel corso della sua esistenza che i suoi eredi ne avevano ricavato tre librerie, quando se li spartirono Così attaccai tutta l'opera di Paolo Mantegazza; non capivo tutto a tredici anni, ma riuscii ad apprezzarne il ragionamento progressista e positivista, che in fondo andava a sposarsi con la fiducia nelle virtù progressive del mondo e col realismo di Collodi. Troppo tardi mio padre si accorse che Fisiologia dell'amore e Fisiologia del piacere non erano proprio adatti alla mia età e li fece sparire, ma io li avevo già letti. Altra lettura esaltante fu Via col vento, nell'edizione dei Pavoni Mondadori, che per la prima volta mi fece capire l'irrompere della storia nella vita delle singole persone e tutta la malinconia per un Sud perduto (se ricorda, c'è una traccia di questo nel mio romanzo). Mi rivolsi poi ad un'altra storia, quella del periodo di Luigi XIII nella ricostruzione di La Fosse, Vita segreta alla corte di Francia: altro libro fondamentale, che mi avviò ad uno studio storico alternativo a quello scolastico. Combinandosi con le letture precedenti delle favole del '600, mi regalò una passione che poi, approfondita fino a tutto il regno di Luigi XIV, mi è durata una vita. Il mio romanzo precedente, Per diverse acque, è nato da questo.
Dunque c'è stato un salto dalle letture infantili a quelle adulte. Niente di "adolescenziale"?
Nella libreria avita, trovai anche i romanzi Salani per signorine. Li avevano comprati zie e prozie quand'erano fanciulle e da anni ormai ne faccio collezione; sono il mio trait d'union col mondo dell'infanzia, mi distendono e continuo a leggerli, insomma mi hanno accompagnata per tutta la vita. Mi piace il mondo che rappresentano, dove tutti i valori sono al loro posto, la virtù e il bene vengono sempre premiati e il male sconfitto. Anche questo è sogno. Inoltre, specie nei romanzi francesi, le descrizioni accurate ed eleganti di geografie e di ambienti mi hanno insegnato molto.
E dopo?
Trovai anche tutti i libri di Matilde Serao e le sue descrizioni di Napoli, il suo sguardo pietoso, disincantato e potente sulla città, sui sentimenti e sulle passioni umane, sono stati una grande lezione. Altra folgorazione, l'opera completa di Edgar Allan Poe, regalatami da mio cugino che se ne era stancato e che non avrei mai trovato fra i libri del bisnonno. Capii che il mondo oscuro dell'inconscio può avere piena cittadinanza nei nostri pensieri e che può trasformare il reale; cosa che, molti anni dopo, compresi ancora meglio con La Ricerca... di Proust, uno dei libri che mi ha cambiato la vita, col mettermi di fronte al fatto che la realtà dell'onirico e del fantasioso può essere molto più forte del mondo irreale e brutale della realtà quotidiana. Tra i libri del bisnonno, trovai anche un romanzo russo dimenticato, Il burrone, di Gonciaroff, nella traduzione di Federigo Verdinois. La sua lingua bonaria, che risentiva della sintassi e dei modi di dire napoletani, mi rese familiare la vita patriarcale della Malinovca: amo tuttora, molto più degli altri romanzi di Gonciaroff, questo che mi aprì la strada sconfinata della letteratura russa. Non mi sembrò quindi difficile incontrare a quattordici anni Guerra e pace e poi di nuovo a diciotto quando, durante un'otite complicata da bronchite, decisi di affrontare anche i capitoli di guerra che prima avevo saltato. Fu un periodo felicissimo: isolata dalla temporanea sordità, autorizzata a letto dalla malattia, andai sulle nevi di Borodino, seguii ogni pensiero di Kutuzof, mi commossi sulla sua morte avvenuta solo dopo la sconfitta dei francesi. Complici la carta ingiallita dell'edizione Barion, l'odore di paglia vecchia che sprigionavano le pagine e che mi accompagnavano nei pomeriggi bui, popolati di preghiere e di pellegrini, della principessa Maria. Mamma mia, che momenti. Dopo, ho letto tutto il resto di Tolstoj e di Gonciaroff, di Turgenev e di Gogol, ma niente mi ridarà quelle emozioni. A diciotto anni, conobbi anche Bulgakov: ci andava di moda allora, perché da poco era uscito Il Maestro e Margherita nell'edizione Einaudi, sfidando la censura sovietica: diventò un altro mio libro della vita. Inizialmente, ebbi difficoltà a leggerlo per via della sua struttura così particolare e lo odiai con un'intensità che mi stupiva; mi feci un punto d'onore nel continuarlo, finì per incuriosirmi, alla festa di Satana scoppiò l'amore per sempre. Amai oltre ogni dire lo scantinato e la stufetta a legna del Maestro, Behemoth, Woland, le vie di Mosca, Ponzio Pilato e il suo cane, perfino la segretaria strabica e bugiarda della casa editrice. Ritengo Il Maestro e Margherita e Vita e opere di Tristram Shandy gentiluomo i romanzi dall'architettura più geniale; mi piace molto adesso ideare un'architettura per i miei libri: ho provato il doppio registro temporale in Per diverse acque, la cornice di romanzo e cinque racconti per Il mare sospeso. Anche per il libro uscito in questi giorni, che è un reportage di viaggio, ho scelto l'impalcatura di un taccuino; mi viene tutto da quegli anni. La laurea in filosofia mi portò Il discorso sul metodo come libro da ricordare: un'altra stanza sotto la neve, un'altra stufetta a legna, ma questa volta in Olanda, ed è Descartes che studia, aspettando il disgelo e la ripresa della guerra dei Trent'anni. E si snoda un'altra architettura, quella del pensiero moderno: un metodo, per non essere più schiavi del pregiudizio, alla conquista di una nuova libertà. Esaltante. E dopo, dai trent'anni in poi, altre scoperte: La storia della mia vita di Casanova, che mi ha insegnato cos'è la leggerezza, magica qualità di vita e di scrittura, e José Maria Eça de Queiroz. Il cugino Basilio", La città e le montagne, La colpa di Don Amaro, L'antica casata Ramirez, La reliquia: questi i suoi libri che, più degli altri, mi hanno aperto le porte del Portogallo, facendomene innamorare "per procura" e poi da vicino e per sempre.
Così torniamo al Portogallo. Nel tuo reportage c'è una compagna di viaggio, Filomena, che è il prototipo dell'anti-viaggiatore. Sembra un personaggio creato apposta per mostrare tutto quello che si dovrebbe evitare per non rovinarsi il viaggio. Ho avuto il sospetto che fosse una trovata studiata a tavolino.
Filomena esiste veramente e talmente bene che ho dovuto anzi edulcorarla ed eliminare alcune sue particolarità operative e caratteriali, perché il lettore non potesse pensare: ma che esagerazione! ed il personaggio perdere di credibilità. La realtà me l'ha data così, già perfetta e compiuta nel suo genere. Ho sempre pensato che la realtà possa superare di gran lunga la fantasia e infatti quale scrittore potrebbe immaginare il suo latte macchiato? O architettare la storia del suo promotore finanziario, col seguito della scalcinata fidanzata Rosanna? La realtà scava attraverso le pieghe della vita e ce le restituisce: sta a noi farle diventare racconto letterario.
E' vero: col tempo, Napoli e il Portogallo sono diventati un gioco di specchi per me, in cui nell'una riconosco qualcosa dell'altro e viceversa. La prima volta che andai a Lisbona, mi divertii molto quando scoprii le somiglianze tra le due città, che poi, in generale, non si somigliano affatto. Sono entrambe in bilico su un'acqua, mare per Napoli e fiume Tejo (ma come simile al mare!) per Lisbona; le loro strade terrazzate, specie quelle in alto, sono percorse dal vento e alcune località portano lo stesso nome, Monsanto – Montesanto, rua da Saudade e rione Sanità, Santa Luzia e Santa Lucia... L'Alfama, il quartiere popolare di Lisbona, spesso è stato paragonato ai nostri Quartieri e, fatte le debitissime proporzioni, qualche somiglianza territoriale e antropologica c'è, anche se a Lisbona tutto è molto più piccolo e ripulito. Il portoghese è spesso straordinariamente simile al nostro dialetto e la struggente malinconia di molte nostre canzoni quanto somiglia alla saudade del fado.
Dici anche che per le strade di Lisbona ti sembra di camminare come da noi negli anni '50.
Sì, Lisbona è anche la Napoli degli anni '50, quell'atmosfera contenuta, schiva, concentrata sui doveri, sostanzialmente sana e decorosa, appartenente ad una certa borghesia. Ma detto questo, per me è il senso di appartenenza a contare più di tutto, ed io lo sento profondamente per entrambe le realtà, un'appartenenza amorevole e dolorosa per Napoli, un'appartenenza leggera e felice per il Portogallo.
A un certo punto, nella tua cronaca di viaggio, sembra di capire che il tuo senso di appartenenza abbia origine dalle tue letture.
E' vero: per questo Paese, tutto nacque all'inizio con un romanzo, Il cugino Basilio di Josè Maria de Eça de Queiroz. Un'atmosfera sempre più familiare, dalla luce del cielo agli ambienti, mi veniva incontro con forza sempre maggiore, via via che leggevo le altre sue opere; quando ne La città e le montagne arrivai al punto in cui si descrive la rustica bellezza della casa di Jacintho , sentii che quel luogo mi apparteneva, in una maniera strana, sconosciuta, ma fortissima: "Tutto risplendeva d'ordine e di nettezza. Le imposte delle finestre, chiuse, proteggevano dal sole che batteva in quel lato di Tormes, riscaldando i davanzali di pietra. Dal pavimento, spruzzato d'acqua, saliva nella penombra soave, una dolce frescura. I garofani odoravano." Già dal primo viaggio, però, non c'è stato più alcun filtro letterario fra me e il Portogallo: il sogno si fondeva felicemente con la realtà, era quello che avevo sempre cercato. Sto imparando il portoghese, la cui ignoranza mi sembrava un vuoto, una mancanza; ora sto traducendo un volume di poesie del giovane poeta che cito sul frontespizio de Il mare sospeso e forse le pubblicherà proprio "Con-fine". L'appartenenza passa sempre, comunque, attraverso le parole.
Dunque in questo la lettura è stata determinante. Parlando più in generale, ci vuoi dire quali sono le letture che ti hanno accompagnata nella formazione del tuo gusto?
Sono tante, se pensi che leggo da quarantotto anni (cominciai dopo il primo mese di scuola e non ho finito più). Allora: sicuramente alcuni libri dell'infanzia, primo fra tutti l'opera completa di Collodi, che mi fu regalata in occasione di un'indimenticabile Befana dei miei otto anni; le atmosfere serene e la sua bella lingua toscana mi affascinarono nelle traduzioni delle favole di madame d'Aulnoy, in Giannettino, Pinocchio, Pipì lo scimmiottino color di rosa, Le storie allegre. E poi vennero gli struggimenti di Hector Malot In famiglia e Senza famiglia e di Dickens in Davide Copperfield, l'eccitante spirito d'avventura di Dumas in Robin Hood e del Robinson Crusoe di De Foe (questo in edizione ridotta), insieme ai piccoli saggi di un' enciclopedia per ragazzi, illustrata a colori Vita Meravigliosa, in 14 volumi. Che viaggi.
Mi piace che, nel ricordare i libri che hanno costellato il tuo percorso di lettrice, tu dia risalto ai libri dell'infanzia. Non tutti lo fanno, ed è come se dessero per scontati i "trastulli" dell'infanzia e volessero ora occuparsi di "cose serie". Inoltre mi è sembrata illuminante una frase del tuo racconto di viaggio: 'è la felicità ricca, cristallina e sfrenata che avrei provato nell'infanzia se avessi potuto entrare dentro un mio giocattolo'. Tutto questo mi fa pensare che tu conservi un rapporto ricco e creativo con il tuo mondo infantile. Quando scrivi attingi anche a questa "riserva" interiore?
Verissimo: è stato una robusta risorsa, esistenziale e letteraria, da cui ho attinto a piene mani per vivere e per scrivere, per superare travagli e dolori, per riappropriarmi ogni volta della mia qualità umana. Io sono la mia infanzia: se ci fosse un'altra vita, rinascerei in quegli anni (sono del '56) in una grande casa napoletana popolata da zii, prozie, nonni, cugini, una rete impagabile di protezione e stimoli; molte voci come una sola, e ognuna dava qualcosa di sé. Il tutto combinato con le voci degli ambulanti sotto le finestre, quelle del pescivendolo o del fruttaiolo che portavano la spesa a casa come si usava una volta, le chiacchiere della cameriera e della lavandaia che veniva ogni primo lunedì del mese(fino ai primi anni Sessanta, a casa di mia nonna non esisteva lavatrice) e della sarta "a giornata", in una lingua piena, corposa e delicata, un dialetto che non esiste più. I ritmi di una casa tranquilla, rodati attraverso sfasci e guerre, ma attestati poi sull'epoca che era stata quella della giovinezza dei miei nonni, e cioè il primo '900. Non ci poteva essere modo migliore per me, che ho avuto i primi sei anni di felicità pressoché perfetta, per affacciarmi alla vita. Poi ho molto giocato: penso che non ci sia cosa più seria dei giochi dell'infanzia per imparare a decodificare il mondo intorno, per la costruzione del pensiero e dell'immaginazione: quante volte penso che scrivere sia come giocare! Una persona che abbia dimenticato il gioco non può vivere bene e neanche scrivere bene. Le maschere, che ci impone il mondo adulto, non servono che ad imprigionarci e renderci infelici.
Torniamo ai libri.
Quando cominciai a guardare una delle librerie di quella casa, quella più "leggera", sui cui scaffali si affollavano i gialli americani di Ellery Queen di mio zio insieme ai romanzi per signorine in francese e in italiano appartenenti a mia madre e alle sue sorelle; tutti i numeri di Selezione di Reader's Digest del nonno col ciclo completo di Brigida va alla guerra della prozia e qualche fumetto di Pecos Bill dimenticato da mio cugino, ebbi per la prima volta il senso del tempo e delle generazioni che si erano avvicendate e fuse armonicamente e, insieme, la cognizione della molteplicità della cultura. Da mia nonna ho ascoltato le fiabe di Basile che ella sapeva per tradizione orale, e dubito che conoscesse l'esistenza dello scrittore seicentesco: la Gatta Cenerentola e Petrosinella nel loro svolgersi io le ho ambientate, le "vedevo", nel mio giardino. Un universo ricchissimo, come vedi. Va da sé, quindi, che non potrei mai rinnegare le letture infantili, che considero anzi i pilastri della mia vita intellettuale perché, tra l'altro, mi hanno preparata alla biblioteca "colta" del mio bisnonno.
Anche lui amante della lettura?
Era un maniaco bibliofilo, aveva comprato tanti di quei libri nel corso della sua esistenza che i suoi eredi ne avevano ricavato tre librerie, quando se li spartirono Così attaccai tutta l'opera di Paolo Mantegazza; non capivo tutto a tredici anni, ma riuscii ad apprezzarne il ragionamento progressista e positivista, che in fondo andava a sposarsi con la fiducia nelle virtù progressive del mondo e col realismo di Collodi. Troppo tardi mio padre si accorse che Fisiologia dell'amore e Fisiologia del piacere non erano proprio adatti alla mia età e li fece sparire, ma io li avevo già letti. Altra lettura esaltante fu Via col vento, nell'edizione dei Pavoni Mondadori, che per la prima volta mi fece capire l'irrompere della storia nella vita delle singole persone e tutta la malinconia per un Sud perduto (se ricorda, c'è una traccia di questo nel mio romanzo). Mi rivolsi poi ad un'altra storia, quella del periodo di Luigi XIII nella ricostruzione di La Fosse, Vita segreta alla corte di Francia: altro libro fondamentale, che mi avviò ad uno studio storico alternativo a quello scolastico. Combinandosi con le letture precedenti delle favole del '600, mi regalò una passione che poi, approfondita fino a tutto il regno di Luigi XIV, mi è durata una vita. Il mio romanzo precedente, Per diverse acque, è nato da questo.
Dunque c'è stato un salto dalle letture infantili a quelle adulte. Niente di "adolescenziale"?
Nella libreria avita, trovai anche i romanzi Salani per signorine. Li avevano comprati zie e prozie quand'erano fanciulle e da anni ormai ne faccio collezione; sono il mio trait d'union col mondo dell'infanzia, mi distendono e continuo a leggerli, insomma mi hanno accompagnata per tutta la vita. Mi piace il mondo che rappresentano, dove tutti i valori sono al loro posto, la virtù e il bene vengono sempre premiati e il male sconfitto. Anche questo è sogno. Inoltre, specie nei romanzi francesi, le descrizioni accurate ed eleganti di geografie e di ambienti mi hanno insegnato molto.
E dopo?
Trovai anche tutti i libri di Matilde Serao e le sue descrizioni di Napoli, il suo sguardo pietoso, disincantato e potente sulla città, sui sentimenti e sulle passioni umane, sono stati una grande lezione. Altra folgorazione, l'opera completa di Edgar Allan Poe, regalatami da mio cugino che se ne era stancato e che non avrei mai trovato fra i libri del bisnonno. Capii che il mondo oscuro dell'inconscio può avere piena cittadinanza nei nostri pensieri e che può trasformare il reale; cosa che, molti anni dopo, compresi ancora meglio con La Ricerca... di Proust, uno dei libri che mi ha cambiato la vita, col mettermi di fronte al fatto che la realtà dell'onirico e del fantasioso può essere molto più forte del mondo irreale e brutale della realtà quotidiana. Tra i libri del bisnonno, trovai anche un romanzo russo dimenticato, Il burrone, di Gonciaroff, nella traduzione di Federigo Verdinois. La sua lingua bonaria, che risentiva della sintassi e dei modi di dire napoletani, mi rese familiare la vita patriarcale della Malinovca: amo tuttora, molto più degli altri romanzi di Gonciaroff, questo che mi aprì la strada sconfinata della letteratura russa. Non mi sembrò quindi difficile incontrare a quattordici anni Guerra e pace e poi di nuovo a diciotto quando, durante un'otite complicata da bronchite, decisi di affrontare anche i capitoli di guerra che prima avevo saltato. Fu un periodo felicissimo: isolata dalla temporanea sordità, autorizzata a letto dalla malattia, andai sulle nevi di Borodino, seguii ogni pensiero di Kutuzof, mi commossi sulla sua morte avvenuta solo dopo la sconfitta dei francesi. Complici la carta ingiallita dell'edizione Barion, l'odore di paglia vecchia che sprigionavano le pagine e che mi accompagnavano nei pomeriggi bui, popolati di preghiere e di pellegrini, della principessa Maria. Mamma mia, che momenti. Dopo, ho letto tutto il resto di Tolstoj e di Gonciaroff, di Turgenev e di Gogol, ma niente mi ridarà quelle emozioni. A diciotto anni, conobbi anche Bulgakov: ci andava di moda allora, perché da poco era uscito Il Maestro e Margherita nell'edizione Einaudi, sfidando la censura sovietica: diventò un altro mio libro della vita. Inizialmente, ebbi difficoltà a leggerlo per via della sua struttura così particolare e lo odiai con un'intensità che mi stupiva; mi feci un punto d'onore nel continuarlo, finì per incuriosirmi, alla festa di Satana scoppiò l'amore per sempre. Amai oltre ogni dire lo scantinato e la stufetta a legna del Maestro, Behemoth, Woland, le vie di Mosca, Ponzio Pilato e il suo cane, perfino la segretaria strabica e bugiarda della casa editrice. Ritengo Il Maestro e Margherita e Vita e opere di Tristram Shandy gentiluomo i romanzi dall'architettura più geniale; mi piace molto adesso ideare un'architettura per i miei libri: ho provato il doppio registro temporale in Per diverse acque, la cornice di romanzo e cinque racconti per Il mare sospeso. Anche per il libro uscito in questi giorni, che è un reportage di viaggio, ho scelto l'impalcatura di un taccuino; mi viene tutto da quegli anni. La laurea in filosofia mi portò Il discorso sul metodo come libro da ricordare: un'altra stanza sotto la neve, un'altra stufetta a legna, ma questa volta in Olanda, ed è Descartes che studia, aspettando il disgelo e la ripresa della guerra dei Trent'anni. E si snoda un'altra architettura, quella del pensiero moderno: un metodo, per non essere più schiavi del pregiudizio, alla conquista di una nuova libertà. Esaltante. E dopo, dai trent'anni in poi, altre scoperte: La storia della mia vita di Casanova, che mi ha insegnato cos'è la leggerezza, magica qualità di vita e di scrittura, e José Maria Eça de Queiroz. Il cugino Basilio", La città e le montagne, La colpa di Don Amaro, L'antica casata Ramirez, La reliquia: questi i suoi libri che, più degli altri, mi hanno aperto le porte del Portogallo, facendomene innamorare "per procura" e poi da vicino e per sempre.
Così torniamo al Portogallo. Nel tuo reportage c'è una compagna di viaggio, Filomena, che è il prototipo dell'anti-viaggiatore. Sembra un personaggio creato apposta per mostrare tutto quello che si dovrebbe evitare per non rovinarsi il viaggio. Ho avuto il sospetto che fosse una trovata studiata a tavolino.
Filomena esiste veramente e talmente bene che ho dovuto anzi edulcorarla ed eliminare alcune sue particolarità operative e caratteriali, perché il lettore non potesse pensare: ma che esagerazione! ed il personaggio perdere di credibilità. La realtà me l'ha data così, già perfetta e compiuta nel suo genere. Ho sempre pensato che la realtà possa superare di gran lunga la fantasia e infatti quale scrittore potrebbe immaginare il suo latte macchiato? O architettare la storia del suo promotore finanziario, col seguito della scalcinata fidanzata Rosanna? La realtà scava attraverso le pieghe della vita e ce le restituisce: sta a noi farle diventare racconto letterario.
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