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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Serena Penni

Ospiti

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Hai ragione, dovremmo rimettere in ordine il salotto: tra un’ora saranno qui. Abbiamo fatto bene a invitare un po’ di persone. Certo, la casa non è più quella di un tempo, ma cosa vuol dire. Si adatteranno. Sì, dobbiamo togliere la roba da terra e sistemarla nell’armadio. Se solo tu la piantassi di guardarmi così. Non te l’ho mai detto, ma i tuoi occhi mi mettono soggezione. Dovrei parlare con Peter. È strano pensare che lo conosco solo da un anno. L’ho incontrato un pomeriggio d’inverno, quando ho portato Erik al luna park. Io ero vestita troppo leggera. Non mi sono mai abituata al clima di questo paese; di giorno fa caldo, anche in dicembre, tanto che il Natale mi è sempre sembrato finto, ma la sera, a tradimento, sale dal terreno un’umidità che ti si attacca alle ossa. Peter ha visto che tremavo e, parlandomi nella mia lingua, mi ha offerto la sua giacca.
Sono le sei. È ora di iniziare a preparare qualcosa da mangiare, magari delle tartine al salmone, un’insalata russa.
Essere abbordata da Peter mi ha messo a disagio. Un giostraio: che aveva da spartire con me? Ma mi ha offerto una birra, e il suo giubbotto mi ha tenuta al caldo. Non mi piaceva ritrovarmi in un luogo del genere, ma i compagni di classe di Erik ci avevano trascinati in quel posto. D’altra parte, ormai ci eravamo trasferiti nel quartiere e dovevo adattarmi.
Mentre stringevo troppo forte la mia lattina di birra ghiacciata guardando Erik che giocava sulle auto-scontro e sui tappeti elastici, avvolta da un odore pungente di legna bruciata e dalle canzoncine dei cartoni animati che mi frastornavano, ho cominciato a piangere. Peter allora mi ha abbracciata e siamo rimasti in silenzio a guardare il cielo scuro illuminato dai lampioni e le nuvole rosse all’orizzonte.
Non c’è più tempo per cucinare, dobbiamo ordinare. Accendo il computer. Se tu la smettessi di fissarmi in quel modo, mi aiuterebbe, lo sai? I fogli del libro che da mesi stai cercando di iniziare sono appoggiati sul tavolo da pranzo. Non ci sono che poche frasi scritte a penna.
Quando sei stato fatto fuori, abbiamo dovuto cambiare casa, automobile, modo di vivere. Sono tornata povera, come quand’ero bambina. Quella però era una povertà diversa, senza desideri, senza rimpianti; mi lavavo con l’acqua tiepida, mangiavo quasi sempre una zuppa di cavolo e patate molto speziata ed era tutto normale. Mia nonna mi sembrava già vecchia, eppure quando è morta aveva solo sette anni più di me adesso. Passavo quasi tutto il giorno con lei; la rivedo mentre guarda fuori dalla finestra con aria assorta, accarezza una gatta dal pelo candido e mi ripete che ai tempi del comunismo si stava meglio. Io annuivo, ma non sapevo nemmeno cosa fosse, il comunismo.
Io e te ci siamo conosciuti in un ospedale, questo avrebbe dovuto mettermi in guardia, ma ero cieca al destino, sorda ai segnali e facilmente impressionabile. La nostra vita è stata per un pezzo un turbinio di eventi, di feste, di cene eleganti, di vacanze sugli yacht. Ora tu con il tuo sguardo severo mi accusi di averti sposato per quello che possedevi. Ma nella mia testa tu e il tuo denaro eravate la stessa cosa. Eri un traghettatore verso un mondo senza dolore. Eri tu stesso quel mondo; eri un angelo che si prendeva cura di me, mi accudiva, mi proteggeva.
È stato Peter, pochi giorni dopo il nostro incontro al luna park, a suggerirmi di mettere mano al tuo conto corrente. Gli avevo confessato che non riuscivo più a vivere nella miseria. Aveva detto, sempre nella nostra lingua – ora mi pareva divenuta aspra e spigolosa – che il mio stato d’animo era normale. Tu non ti saresti mai accorto di nulla, preso com’eri dalla tua malinconia. Mi avrebbe aiutato lui in futuro a riguadagnare quei soldi; conosceva delle persone, aveva degli amici.
Dovremmo mettere il prosecco in frigorifero, altrimenti quando arriveranno gli ospiti sarà troppo caldo.
Fare l’amore con Peter mi piaceva ma mi faceva anche schifo. Sapeva di vino, di sudore e di cattiveria. È stato lui a suggerirmi di comprare tutto ciò che volevo. È stato lui a suggerirmi di ritoccarmi gli zigomi. È stato lui, ancora lui, a dirmi di rifarmi il seno. Ogni volta che ti rubavo qualcosa, Peter, con garbo, pretendeva una parte anche per sé.
Sono stata una vigliacca. Avevamo un conto in comune, su cui ormai c’erano pochi soldi, ma tu hai sempre cercato di non farmi mancare nulla. Sul tuo conto personale c’era il denaro che ti aveva lasciato tuo padre, e che ci eravamo ripromessi di non toccare perché sarebbe dovuto servire per Erik, se mai ce ne fosse stato bisogno.
Mi avete ingannato, tutti. Peter, certo, con quelle mani troppo fredde per essere un uomo, la lingua troppo sciolta e i suoi modi sbrigativi. Ma anche tu. Ti sei costruito attorno una barriera fatta di lusso, di euforia. Non mi hai mai permesso di vedere chi eri. Avrei potuto scoprirlo quando tutto è crollato, ma allora ti sei nascosto nel silenzio, nell’apatia. Poi c’è il tuo maledetto libro, fatto solo di cancellature.
Mi hai sempre lasciata sola. Prima perché dovevi lavorare, dopo, perché dovevi scrivere. All’inizio non me ne accorgevo, abbagliata com’ero dai riflessi del castello incantato nel quale vivevamo. Me ne sono resa conto quando, insieme alla povertà, è arrivata per me la solitudine. Come avrei potuto non aggrapparmi a Peter, mentre sprofondavo nello squallore di un luna park di periferia? Per terra, cartacce e foglie secche. Sopra la mia testa, un cielo estraneo. Davanti a me solo bambini senza speranza.
Dopo tanti mesi abbiamo deciso di invitare qualche amico, ma gli amici di un tempo non verranno, lo sai tu e lo so anche io. Da un pezzo ormai il loro imbarazzo si è trasformato in assenza. Forse è per questo, perché mi affanno per una serata che non ci sarà, che continui a fissarmi come se fossi una pazza. Smettila, ti supplico. Dovrei chiederti scusa, hai ragione, ma non trovo le parole e, come te, rimango in silenzio.
Poco fa ho provato a chiamare Peter, ma non mi risponde. La matematica non è un’opinione, purtroppo. Le mie tette rifatte, il viso ritoccato, le borse eleganti non mi sono servite a nulla. Rimpiango la povertà della mia infanzia perché non avevo mai conosciuto la ricchezza. No, non è vero, la rimpiango perché ero molto meno sola di oggi. Quando, stamattina presto, ti hanno chiamato dalla banca per chiederti di passare, che c’era un problema, tu non hai capito; eri scocciato, non preoccupato. Per me invece è stato subito tutto chiarissimo. E sono affogata nella vergogna.
Adesso mi fai pena, lì, immobile, impotente. Non guardi, non giudichi più niente e nessuno. Mi accorgo solo ora di averti amato, e che quello che ho fatto, l’ho fatto per amore. I codici di sblocco del tuo home banking erano facili da indovinare. La tua data di nascita, la data del nostro matrimonio. Avresti dovuto essere più scaltro e salvarci entrambi.
Oggi mi sono stupita io stessa di essere tanto forte, e che tu fossi tanto debole. Ti ho colpito cogliendoti di sorpresa, e sei svenuto. Poi ti ho colpito una seconda volta, una terza e una quarta. Ti si è aperta sulla faccia una ferita che ti ha attraversato la guancia. In banca ti stanno ancora aspettando. Dovremmo togliere tutto questo sangue dal pavimento e dal divano. Tra poco i nonni ci riporteranno Erik. O forse verranno domani, non so. Se solo Peter mi parlasse. Se solo tu mi guardassi un’ultima volta. Se solo le tue frasi spezzate raccontassero qualcosa di noi, allora sì, potrei anche non seguirti nel nulla in cui ti ho gettato. Ma ormai non mi resta altro da fare che mescolare il mio sangue col tuo, sperando che il dolore sia lieve, e che i ricordi svaniscano alla svelta. 



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