ATTUALITA'
Stefano Torossi
Pantegana Jones (alla ricerca della villa perduta)
La lussureggiante vegetazione, da cui si alzano misteriosi fruscii, ricopre di un manto impenetrabile le sponde del fiume, incombe un caldo afoso, la corrente è trafitta dai cormorani a pesca di piranha. Ma… un momento! Lontane si intravedono le arcate di Ponte Milvio. Va bene, allora giù la maschera: non siamo ai tropici, i piranha sono le anguille del Tevere (altrimenti dette ciriole), i fruscii sono quelli delle pantegane; e soprattutto noi, che non siamo Salgari, rinunciamo subito a spararci un fake, come invece pare facesse spesso l’amato scrittore della nostra infanzia.
In realtà ci eravamo avventurati sulla riva destra, all’altezza del Foro Italico, dove, fra il Lungotevere e il fiume, a mezza costa, corre Via Capoprati, un viottolo con annessa pista ciclabile, perché ci era giunta notizia del ritrovamento assolutamente casuale, durante gli scavi dell’Enel, di una villa romana del primo secolo dotata di ricchi pavimenti marmorei.
Ci siamo fermati a curiosare sul bordo dello scavo, fra lo sfrecciare di ciclisti frementi di impeto sportivo e dell’orgoglio di appartenere alla minoranza virtuosa della popolazione.
È un fatto: da qualche tempo il ciclista urbano (da non confondersi con i pochi esemplari sopravvissuti di quello rurale, di solito raccoglitori extracomunitari) si distingue per la quantità di accessori costosissimi con cui si addobba e per la esagerata considerazione di sé stesso, spesso degenerante in protervia, che gli deriva dal fatto di vedersi come un animale ecologico e non inquinante.
Niente di artistico da scoprire in trincea; solo mozziconi di muri cariati e polvere. I marmi forse ricoperti o già trasferiti. Naturalmente non ha importanza: quello che conta è accorgerci che nella nostra imprevedibile città non passa giorno senza che da sottoterra spunti una traccia del passato, magari, proprio come in questo caso, nel mezzo di un set da Tarzan (de noantri).
BRIC à brac, The jumble of growth (che vuol dire “il guazzabuglio della crescita”). 17 luglio alla GNAM.
Il pomeriggio è ancora bello (poi pioverà), la scalinata della GNAM è quasi un teatro: accogliente e amichevole, con, di tanto in tanto, dagli altoparlanti, un’esplosione di ottimo bebop. Confusi su come affrontare la situazione, decidiamo di attaccare prudenzialmente con le citazioni dal materiale stampa fornitoci, da cui si ricava che “la mostra esplora la complessità dell’espressione artistica nel processo delle trasformazioni economiche, sociali e culturali globali innescato dal boom delle economie di mercato emergenti.” Che poi sono: Brasile, Russia, India, Cina. Ecco perché il BRIC del titolo è tutto maiuscolo. È un acronimo!
Allora trattasi di una mostra d’avanguardia. A noi sembra piuttosto una faccenda retrò (e qui ci permettiamo un gioco di parole un po’ becero, ma visto che loro giocano sul BRIC, allora noi giochiamo sul brac, pardon, sul retrò e ve lo sosteniamo con le immagini qui riprodotte).
Ci riceve sul sagrato della GNAM un imponente leone di bronzo, parte del branco che staziona da un bel po’ di tempo sui gradini; anche se la bestia è lì da prima della mostra, è retrò o no? Nei saloni ci viene incontro, o dovremmo dire ci indietreggia addosso questo elefante tigrato, con zanne e proboscide regolamentari sul davanti (osservare l’immagine con attenzione), ma sul didietro, quello che ci troviamo di fronte è una ringhiante testa di tigre che gli spunta dal sedere. Anche questo è retrò, diremmo (sempre per rimanere sul becero).
Invece, colpo di scena! Un altro animaluccio in mostra, stavolta una bella pantegana, la fuoruscita ce l’ha sul muso: una trombetta da cui si sprigiona un fascio di luce.
È possibile che la nostra sia una ormai irreversibile fase senile di distacco dalla realtà: fatto sta che non ci abbiamo capito niente.
Quindi è giocoforza ritornare a citare, stavolta la pagina di Cristiana Collu, direttrice del museo: “L’arte si prende il rischio di situarsi tra bellezza e terrore, come diceva Albert Camus. È vero, anche se poi lui si è suicidato, ma non è questo il destino che ci attende se continuiamo a pensare di essere altro da questo pianeta?” Mah.
In realtà ci eravamo avventurati sulla riva destra, all’altezza del Foro Italico, dove, fra il Lungotevere e il fiume, a mezza costa, corre Via Capoprati, un viottolo con annessa pista ciclabile, perché ci era giunta notizia del ritrovamento assolutamente casuale, durante gli scavi dell’Enel, di una villa romana del primo secolo dotata di ricchi pavimenti marmorei.
Ci siamo fermati a curiosare sul bordo dello scavo, fra lo sfrecciare di ciclisti frementi di impeto sportivo e dell’orgoglio di appartenere alla minoranza virtuosa della popolazione.
È un fatto: da qualche tempo il ciclista urbano (da non confondersi con i pochi esemplari sopravvissuti di quello rurale, di solito raccoglitori extracomunitari) si distingue per la quantità di accessori costosissimi con cui si addobba e per la esagerata considerazione di sé stesso, spesso degenerante in protervia, che gli deriva dal fatto di vedersi come un animale ecologico e non inquinante.
Niente di artistico da scoprire in trincea; solo mozziconi di muri cariati e polvere. I marmi forse ricoperti o già trasferiti. Naturalmente non ha importanza: quello che conta è accorgerci che nella nostra imprevedibile città non passa giorno senza che da sottoterra spunti una traccia del passato, magari, proprio come in questo caso, nel mezzo di un set da Tarzan (de noantri).
BRIC à brac, The jumble of growth (che vuol dire “il guazzabuglio della crescita”). 17 luglio alla GNAM.
Il pomeriggio è ancora bello (poi pioverà), la scalinata della GNAM è quasi un teatro: accogliente e amichevole, con, di tanto in tanto, dagli altoparlanti, un’esplosione di ottimo bebop. Confusi su come affrontare la situazione, decidiamo di attaccare prudenzialmente con le citazioni dal materiale stampa fornitoci, da cui si ricava che “la mostra esplora la complessità dell’espressione artistica nel processo delle trasformazioni economiche, sociali e culturali globali innescato dal boom delle economie di mercato emergenti.” Che poi sono: Brasile, Russia, India, Cina. Ecco perché il BRIC del titolo è tutto maiuscolo. È un acronimo!
Allora trattasi di una mostra d’avanguardia. A noi sembra piuttosto una faccenda retrò (e qui ci permettiamo un gioco di parole un po’ becero, ma visto che loro giocano sul BRIC, allora noi giochiamo sul brac, pardon, sul retrò e ve lo sosteniamo con le immagini qui riprodotte).
Ci riceve sul sagrato della GNAM un imponente leone di bronzo, parte del branco che staziona da un bel po’ di tempo sui gradini; anche se la bestia è lì da prima della mostra, è retrò o no? Nei saloni ci viene incontro, o dovremmo dire ci indietreggia addosso questo elefante tigrato, con zanne e proboscide regolamentari sul davanti (osservare l’immagine con attenzione), ma sul didietro, quello che ci troviamo di fronte è una ringhiante testa di tigre che gli spunta dal sedere. Anche questo è retrò, diremmo (sempre per rimanere sul becero).
Invece, colpo di scena! Un altro animaluccio in mostra, stavolta una bella pantegana, la fuoruscita ce l’ha sul muso: una trombetta da cui si sprigiona un fascio di luce.
È possibile che la nostra sia una ormai irreversibile fase senile di distacco dalla realtà: fatto sta che non ci abbiamo capito niente.
Quindi è giocoforza ritornare a citare, stavolta la pagina di Cristiana Collu, direttrice del museo: “L’arte si prende il rischio di situarsi tra bellezza e terrore, come diceva Albert Camus. È vero, anche se poi lui si è suicidato, ma non è questo il destino che ci attende se continuiamo a pensare di essere altro da questo pianeta?” Mah.
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