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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Percival Everett

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'Ferito' è il suo quarto romanzo come le è venuta l'idea di un romanzo con ambientazione "western"?



In realtà non saprei dire da dove è venuto questo libro o da dove vengono gli altri. Di certo, l'omicidio di Matthew Shepard è un punto di inizio.



Leggendo i suoi libri si ha la sensazione che sia un unico grande libro. Ci sono personaggi e situazioni che tornano, scene e cliché che si ripetono. Tra 'Ferito' e il precedente 'La cura dell'acqua' c'è un legame insospettabile (qualche nome in comune, stesso sceriffo) ma anche moltissimi opposti (freddo/caldo, amore/tradimento, duro/ferito).



Sì, è vero. Direi che quando ho scritto Ferito (negli Stati Uniti Wounded è uscito prima di The Water Cure anche se quest'ultimo è stato scritto nel 2003) stavo lavorando sullo stesso materiale de La Cura dell'acqua e quindi ci sono stati dei "ritornanti".



Dove ha scritto 'Ferito'?



Sì, Ferito l'ho scritto in un ranch che avevo fino a qualche tempo fa, dove mi occupavo di persona degli animali: cavalli e un mulo di nome Theolonious Monk



Qual è la Frontiera oggi?



La vera Frontiera, cioè il posto dove solo i duri possono vivere, è in realtà il mondo dei senza casa. La maggior parte di noi non sarebbe in grado di sopravvivere lì nemmeno un giorno.



Cosa ci vuole per un cavallo a volte troppo irrequieto a volte troppo sordo? Un addestratore nero?



I cavalli non fanno caso alla razza. Ai cavalli interessa solo se hanno di fronte un leone o no. Gli animali, tutti, richiedono pazienza.

(ndr. Qui Everett gioca molto con le parole – "A horse doesn't see race", "lion or not". È evidente che ha risposto al riferimento a Obama con un altro gioco capzioso.)



Nei suoi libri la violenza non è mai mitologizzata né romanticizzata. La violenza è un fatto, qualcosa di inalienabile che appartiene al contesto, all'ambiente. Qual è la sua idea di violenza? Chi è il destinatario di 'Ferito', se ce ne è uno?



La violenza è il triste risultato delle interazioni tra gli uomini. Purtroppo la violenza non ha nemmeno bisogno di essere prodotta, e gli uomini, contrariamente dagli animali, sembrano esserne attratti.



Qual è per lei il senso del titolo che ha dato al romanzo?



Credo che le ferite siano una verità necessaria. Non bisogna considerarle positive o negative, ma prenderle per quello che sono. Ci sono e basta. A volte dalle ferite si può guarire, altre volte rimangono ferite.



Esiste ancora, realmente, il concetto di diversità?



Sì, ma probabilmente solo come concetto.



Qual è il posto migliore dove nascondere i pregiudizi? E quale quello dove mostrarli?



Non c'è un buon posto dove nascondere i pregiudizi. Dovrebbero essere tutti alla luce del sole.



A proposito di nascondere qualcosa. 'Ferito' comincia con una caverna e proprio la caverna sarà il posto in cui John Hunt andrà per capire meglio se stesso e per salvare David da un assideramento. Lei ha paura delle caverne?



No, ne sono affascinato.



Se nessuno ha l'esclusiva dell'odio, chi ce l'ha dell'amore?



Tutti e nessuno.



In una frase, dove si ferma la propria vita: al punto o alla virgola?



Forse al punto e virgola...



Accettare significa?



Essere condannato a fare qualcosa.



L'odio ci ricorda mai chi siamo veramente?



Ogni cosa ci ricorda chi siamo.



Chi riconosce le proprie impronte sul terreno: chi guarda i segni lasciati o chi guarda quelli che deve ancora lasciare?



Le nostre vecchie impronte sono state lasciate da qualcun altro. E lo stesso si può dire per quelle che dobbiamo ancora lasciare.



'Ferito' sarà l'ultimo dei suoi romanzi Western?



Chi può mai dirlo. In fin dei conti non controlliamo il nostro destino letterario no?



Le hanno mai detto che somiglia a Sidney Poitier?



No, purtroppo.





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