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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Ivan Perilli

Popponasia

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L'economia, l'architettura, la cultura, lo sport, i costumi di Popponasia vertevano su una sola costante di base: il nervosismo. A Popponasia tutti dovevano essere nervosi, e non doveva necessariamente essercene un motivo. Tanto meno era chiaro perché fosse obbligatorio, ma chi se ne importa. Anche il nome, Popponasia, invitava allo scatto d'ira nel caso fosse pronunciato con l'accento sulla sillaba sbagliata. Popponasia, fastidiosamente lo ripetiamo, con l'accento su "na". L'acqua che sgorgava dai rubinetti proveniva dall'acquedotto cittadino e conteneva polveri di caffè dalle Montagne Nervose. Le sigarette erano vietate, a qualsiasi età. Il contrabbando era punito con la pena di morte e multe salatissime colpivano chi veniva trovato in possesso anche di un solo pacchetto, pure se vuoto. Di contro, allo scattare della maggiore età, l'ordinario neo diciottenne di Popponasia doveva recarsi dal suo medico di famiglia per la prima di una serie di iniezioni di nicotina, a cadenza semestrale, poi annuale, e poi biennale. Questo creava dipendenza ma, con il fumo di sigaretta vietato in tutta la città, le crisi d'astinenza erano eventi a cadenza oraria. Le password di Internet, quelle dei modem insomma, ci siamo capiti, venivano resettate ogni settantaquattro, novantuno o centoquarantatré minuti, e ogni volta era necessario dover chiamare il centralino del proprio gestore telefonico e chiedere di poter inserire una nuova password. Una legge contro lo sfruttamento del lavoro vieta categoricamente la possibilità di larghe assunzioni e frequenti turni di lavoro in impieghi alienanti come appunto quello del centralinista. La conseguenza era un alto tasso di disoccupazione e i centralini sistematicamente impossibilitati nel fronteggiare le regolari ma imprevedibili ondate di telefonate per le richieste di nuove password. La notte le campane delle chiese suonavano una volta a testa con orario variabile tra la mezzanotte e le cinque del mattino. Dalle cinque e un minuto in poi risultava difficile per tutti riprendere sonno, in ogni caso. Le pillole per il mal di testa erano centellinate: una al mese per ogni abitante, pena il divieto di accesso alle strutture ospedaliere, anche nei casi di emergenza. Dulcis in fundo, tutti i “contenitori di pargoli”, che questi fossero carrozzini, culle, passeggini, eccetera, erano forniti dell'accoppiata microfono ad alta fedeltà e amplificatori di sufficiente potenza direttamente entrambi avvitati all'abitacolo. Gli strilli dei poppanti quindi venivano amplificati, e di parecchio. Il farsi beccare in giro senza detti sistemi di amplificazione a norma comportava la confisca della prole e la restituzione del maltolto avveniva solo dietro il pagamento di una cospicua multa più, ovviamente, la dimostrazione di essersi messi in regola con l'amplificazione. Questa, insomma, era Popponasia, dalla culla fino alla tomba. Per una strana storia di voti comprati, io in questa ridente cittadina avevo l'ingrato compito di doverne essere il cattivone. Il mio ruolo non doveva assolutamente e tassativamente andare a sovrapporsi con lo statuto della cittadina di Popponasia, ma doveva affiancarcisi. Non dovevo far innervosire la gente, l'individuo, ma dovevo metter lui i bastoni tra le ruote nello scorrere della loro esistenza, a favore mio e a sfavore suo (così recitava il mio mandato). Insomma, estremizzando il discorso, dovevo sperare che tutti crepassero, e prima di me. Detto mandato era ovviamente segreto, altrimenti mi avrebbero fatto fuori in un tempo variabile tra i dieci e i venti minuti, linciato da decine di omuncoli incazzati grigi grigi. Poi guardate che mica è facile far fuori la gente senza darlo a vedere, anche se godendo di una invisibile ma effettiva impunità. Io comunque non potevo certo usare pistole. Qualcuno potevo pure cercare di avvelenarlo ma si sarebbe risaliti facilmente al mandante, per colpa dell'antipatica passione a Popponasia per le telecamere di sicurezza. Il mio mandato comunque parlava chiaro: un abitante di meno al giorno, cinque giorni su sette. Venti al mese, quindi. Duecentoquaranta all'anno, e non potevo prendere ferie prima di agosto. A braccetto con tale sciagura del mio ruolo, l'indole estremamente nervosa di quella detestabile cittadina lassù in collina, beh, non aiutava affatto, anzi. Dimenticavo, parlo al passato perché ora sono al sicuro, lontano, molto lontano, da Popponasia. Sono dovuto scappare dopo appena tre mesi, senza nemmeno il tempo di fare le valigie. Ma procediamo con calma, ora ho tutto il tempo di questo mondo, vivo in una località segreta e non ho davvero nulla da fare. Vi ricordate la storia dei voti comprati? Sapete quanti me ne servirono per essere eletto a cattivone di Popponasia? Dieci. Capiamoci, solo dieci voti. Voto segreto, direi quasi mai avvenuto per la stampa e roba varia, eppure... dieci voti, tutti comprati. Mi portano il caffè... sono molto gentili qui, in questa località protetta e segreta. Ma dicevo, la storia dei voti comprati... non ve la posso dire. Vi racconto altro, vi racconto di come a Popponasia una volta sono riuscito a far cadere un tale in un tombino. È stato facile, gli ho dato una bella spinta, il tombino era stato lasciato aperto e questo signorotto sulla cinquantina, con tanto di bombetta in testa e bastone da passeggio, non meritava davvero di vedere il domani. Lo sentivo nervosetto, mentre parlottava tra sé e sé e ma e ma per il dissesto del marciapiede in evidente stato di Lavori in Corso. Il mio intervento provvidenziale, al grido di “Faccia tosta, fatti un giro nella fogna, tostapane!” fu premiato da un profondo e lontano rumore di cinquantenne che si fa un tuffo al mare. Ho sempre preferito dare un nome a chi mandavo nell'aldilà, a Popponasia. Era un modo per compilare i miei moduli con un minimo di chiarezza, altrimenti insomma, mica potevo passare il tempo a riportare descrizioni di pantaloni, giacche e montatura degli occhiali. Quindi c'era Tostapane finito a fare i conti con la fogna, c'era Orso Russo colpito da un vaso dal quinto piano, c'era Vecchia Scarpa strangolata con i suoi stessi capelli (ma glieli avevo infilati io nella tapparella a casa, spacciandomi per l'idraulico). Tutto in fin dei conti poi rientrò nella norma e nella vita di tutti i giorni, anche per una persona come me e con un compito omicida così bislacco come il mio. Tutto... tutto finché un giorno... … mi dissero che le carte in tavola erano cambiate e, come in un gioco da tavolo che pareva essere diventato davvero troppo facile, ora c'era la carta jolly, la carta con la morte nera sopra, e la morte era per me, non per gli abitanti di Popponasia. … perché siamo sempre a Popponasia, non ci siamo mossi di un metro. Qualcuno quindi voleva divertirsi alle mie spalle e quel qualcuno doveva essere molto potente. Il mio compito era stato leggermente arricchito di un nuovo obiettivo: dovevo riconoscere l'unica persona che non avrei mai e poi mai dovuto ammazzare, pena il fallimento della mia missione e la mia esecuzione capitale senza possibilità d'appello. A questa persona (di cui in partenza non sapevo letteralmente nulla) avrei dovuto pronunciare la romantica frase “tu sei l'unica persona che non ucciderei mai”. Se tale frase invece fosse stata pronunciata alla persona sbagliata... avrei corso il rischio che tale persona spifferasse tutto alla polizia, con conseguentemente fallimento della missione. Insomma non dovevo mettere la otto in buca, ma trovarla e parlarle. In caso di successo, avrei ricevuto tredicesima e quattordicesima vita natural durante. Ma chi poteva essere tal persona? Mica stavo giocando a Indovina Chi? E il rischio dello sparare (solo metaforicamente) nel mucchio mi portava a cali di pressione dovuti al peso che il governo o chi per loro mi stava affibbiando. Per i primi giorni non ci feci caso. Chi se ne importava se non avessi trovato tale speciale persona? Certo, con ogni omicidio rischiavo di far fuori erroneamente il mio prediletto ma, visto che Popponasia non era proprio un buco, diciamo che il rischio era minimo. Ma il governo centrale decise di rompermi davvero le scatole e mi fissò un ultimatum. Sei mesi. Il fallimento della missione bis per decorrenza termini mi avrebbe portato a fare la stessa fine da wurstel cotto sul fuoco durante una sera d'estate. Ma come e dove, quindi? L'incarico andava ora affrontato e non eluso. Quel che davvero non mi andava a genio era che la municipalità di Popponasia, già di per sé odiosa fino al midollo, rendesse detestabile pure il mio incarico, che a sua volta non era altro che una minaccia per la popolazione stessa. Insomma avete capito, no? Ecco che mentre prendevo un mio caffè (ovviamente bruciacchiato, siamo a Popponasia) mi si para davanti una bella donna. Alta, bionda, sulla trentina. Una modella, un'attrice, non avrei saputo dire. Si siede e mi manda in tilt con un sorriso. Penso istintivamente "È lei! Quella che non posso uccidere!" ma poi apro gli occhi e mi ritrovo in ospedale, tutto dolorante e con una gamba ingessata e sospesa a mezz'aria. Mi è stato raccontato che mentre tiravo il primo dei due sorsi alla tazzina, il pavimento è sprofondato e mi sono rotto una gamba, oltre ad aver chiaramente perso i sensi. Ora, dal letto di ospedale non ho molto da fare... e nessun agente governativo si è fatto vivo. A margine, il cuscino è di una scomodità strabiliante, tutto pieno di nodi, con la federa messa storta. Niente, non ho altro da dire. Effettivamente ti ho solo fatto perder tempo.



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