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Il Paradiso degli Orchi
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INTERVISTE

Riccardo Bertoncelli

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Nonostante lei stesso dica che il progetto 'Se una notte d'inverno un musicista' è nato quasi per caso, si coglie il desiderio vero e proprio di narrare e di confrontarsi con (prendo dalla sua introduzione) le emozioni che trasmettono i giorni più brevi dell'anno.



Be', sì, l'introduzione è sincera e non speciosa. Io credo molto nel caso, quando uso quella parola non è per sminuire; in un angolo della mia mente c'era questo progetto e a un certo punto è saltato fuori. Ho bellissimi ricordi di scrittura tra Natale e l'Epifania, fra l'altro, specie ai tempi di Paesaggi immaginari - un libro a cui tengo molto.



Ritengo il capitolo più bello quello dedicato a Joni Mitchell. Io che la seguo da anni ricordo i suoi giudizi 'pesanti' sugli esordi della cantante canadese. Poi si è ricreduto ed ora che non incide più confessa di adorarla. Allora è vero che nell'amore non si arriva mai in tempo...



Non ricordo di avere proprio odiato Joni Mitchell, però ho scritto così tanto che probabilmente chi legge ricorda meglio. Diciamo che certi suoi melismi giovanili (e, ahimé, senili) li ho sempre trovati pretenziosi e fuori posto. Ma poi c'è tutto il resto: e fra l'altro i testi, che da ragazzo conoscevo superficialmente e da grande invece ho studiato più a fondo, con risultati meravigliosi, di puro (appunto) innamoramento. Il fatto è che a volte per amore si diventa più severi: Mingus, faccio un esempio, è un disco che all'epoca giudicai con troppa malevolenza.



Lo so che la domanda può sembrare trita e banale, ma degli anni sessanta, soprattutto musicali, pieni di speranze ed utopie, cosa è rimasto? Furono davvero formidabili o è giusto considerarli un decennio come altri?



Furono formidabili, anche se sono diventati un luogo comune. Un giardino profumato di speranze e illusioni, tra il bigottume dei 50 e la paranoia dei 70. Certo nel giudizio per quelli della mia generazione (1952) c'è anche il caso specifico: nel 1967 feci 15 anni, nel 1969 diciassette. La storia rock mi ha fatto dei regali immensi.



Mi colpì una sua definizione – si era ormai negli ottanta – della musica dei Dire Straits: socialdemocratica. Avrebbe un senso oggi etichettare la musica prendendo a prestito termini dalla politica?



Forse sarebbe meglio prendere a prestito termini musicali per spiegare la politica, chissà. Quel "socialdemocratico" però sta per "tiepido": per me che sono un Ariete è un insulto feroce.



Lei non è mai stato tenero con la musica italiana. Se spulciamo le sue vecchie cose, mi par di ricordare che solo il primo Sorrenti, vagamente figlioccio del Tim Buckley, lo appassionò. Erano i primi settanta. Eppure nei sessanta c'è stato un gruppo di autori che nel tempo ha mostrato una certa propensione all'immortalità: penso a Tenco, Bindi, Paoli, e soprattutto Endrigo.



Quando ho scritto di rock la prima volta (Sorrenti è stato immortalato su Pop Story) ho considerato solo quell'ambito, gracile, della scena italiana. I cantautori non c'entravano, non potevano, erano un altro mondo. Mi interessavano eccome ma li consideravo una mia debolezza, diciamo così: Endrigo, Bindi, Tenco ma anche Lauzi, e più avanti Conte, Guccini, perfino un certo DeGregori che trovavo in origine troppo cervellotico, e naturalmente Fossati. Erano anni di guerra per bande, lo ricordo spesso, in cui se stavi da una parte (il rock) non potevi stare dall'altra (la canzone). Bisognava scegliere. Da grande sono cambiati i tempi, sono sparite le bande: e l'orizzonte per fortuna si è ampliato. Posso aggiungere un nome francese che all'epoca amavo quasi vergognandomene (e non ci ho mai scritto su)? Gilbert Bécaud. Che gigante!



Più tenero con la musica italiana ora lo è davvero. Scommettiamo insieme sull'immortalità di Ivano Fossati?



Volentieri, eccome. Ma deve essere d'accordo anche Ivano, che ogni tanto si perde in certi suoi buchi neri.



Recentemente mi sono posto una domanda: ma la musica indipendente quanto vale? Ma ha anche senso porsi una domanda del genere? Ma i dischi che invadono le classifiche possono essere valutati serenamente al di là della spinta pubblicitaria? Gli eroi del rock, in un'epoca come questa, quanto sono credibili e spendibili? Jim Morrison era più 'vergine' di Robbie Williams? E Daniel Johnston quanto è più 'alternativo' di Ligabue?



Ho l'impressione che una volta si diventava marginali per caso e per scelta del mercato, nella musica come nel cinema; e a volte alternativa non significava nemmeno marginalità. Oggi "artista di culto" si nasce e si studia per diventarlo. E chi scrive ha spesso la sindrome di voler trovare il nome "figo" a tutti i costi, quello che conoscono in pochi, pochissimi eletti. Molto buffo e molto triste. "Solispismo" lo chiamava Lester Bangs. Io dico che sono calciatori che vogliono giocare solo con il tacco, più irritanti che maestri. (Daniel Johnston, visto che si fa l'esempio, è uno dei pochi nomi che ancora riesce ad aizzare il feroce thug che c'è in me e che si è pensionato da anni)



Volevo farle una domanda tipo: cosa porterebbe su un'isola deserta. Ma so già la sua risposta: Zappa e Hendrix. Allora gliene faccio un'altra: mi spari un nome che segnerà questi anni tristi e bui.



I Radiohead, sono i più bravi di tutti. E Damon Albarn. Ma sull'isola deserta porterei anche Dylan e Leonard Cohen (e Ray Davies mi farebbe bella compagnia quando lo spirito è su).



Cosa ne pensa di queste riviste o siti di settore che ogni tanto se ne escono fuori con 'pietre miliari' musicali o album seminali? Sembra che il mondo sia (stato) pieno di capolavori...



Già "seminale" è una parola da codice penale, aggiungiamo che detesto i revisionisti che scombinano le carte della storia alla ricerca di improbabili capolavori di ieri – in aggiunta a quelli di oggi, che molto molto spesso sono delle patacche. Il fatto è che dagli anni 90 in poi la scena si è frammentata a tal punto che riesce impossibile trovare giudizi condivisi oltre i pochi affiliati di questa o quella setta. Il rock è diventato uno Stato più tribale dell'Afghanistan, ecco cosa.



Il titolo del suo libriccino è ovviamente calviniano. Noi siamo una rivista di letteratura e quindi ci piacerebbe sapere quali sono le sue letture. Ancora meglio: cos'ha sul 'famigerato'(Emanuele Trevi una volta lo chiamo' 'imprevedibile') comodino?



Io i libri non li leggo, li morsico nevroticamente – e poi leggo troppi quotidiani e leggo troppo per lavoro da avere voglia di avere un libro sul comodino. Faccio più volentieri attività fisica, per bilanciare mens e corpus come volevano i saggi latini. Ad ogni modo, mi capitano scelte curiose e imprevedibili: libri di matematica divulgativa o di storia contemporanea, Antipedagogie del piacere: Sade e Fourier di Paolo Mottana o l'intervista –biografia di Vassalli di Giovanni Tesio. Stamattina esco a cercare il Manuale del cacciatore di libri introvabili di Simone Berni per Bibliohaus.





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