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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Teodoro Lorenzo

Rien ne va plus

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Quella sera gli spettatori rimasero a bocca aperta di fronte all’epilogo  sbalorditivo della gara, probabilmente unico nella storia dell’atletica e delle competizioni sportive.
Sulle gradinate dello stadio  Franco Ossola di Varese, in assenza  di qualsiasi altra possibile spiegazione razionale, si sentì più volte pronunciare la parola pazzia.
Ma fu veramente un attacco di pazzia quello che disordinò improvvisamente la coscienza di Massimiliano Pepe ?
Aveva condotto la gara in testa, come al solito. Allo sparo dello starter era scattato come una molla dai blocchi di partenza deciso ad imporre il suo ritmo.
Sapeva che sul giro di pista, in provincia ed anche oltre, non aveva avversari che potevano impensierirlo. Non così negli ottocento metri, una sfinge ancora impenetrabile per lui non avendone capito la giusta chiave tattica, ma nei quattrocento sentiva di potersela giocare alla pari con chiunque. Lì non c’erano tattiche sulle quali ragionare, si alza il culo dai blocchi e si corre fino a quando si ha fiato nei  polmoni, anche se a vincere è sempre quello che continua a correre quando il fiato è finito da un pezzo.
Primo ai cento metri, primo ai duecento. Come un branco di cani ringhiosi dietro la lepre gli avversari  lo inseguivano schiumando e digrignando i denti.
Il vantaggio era aumentato, la sua schiena era sempre più lontana agli occhi dei cani.
Correva bene Massimiliano, unendo nel suo gesto eleganza e potenza. Il busto fermo, la testa dritta, le braccia ad accompagnare il  movimento delle gambe che risucchiavano metri  con un ritmo che non accennava a diminuire.
Ancora primo ai trecento metri, avviato ormai ad una facile vittoria. Il traguardo  era  già dentro le sue pupille,  pronto ad accogliere le braccia levate in alto.
Ma Massimiliano in quel momento cominciò a rallentare, le sue falcate accorciarono il  raggio per farsi sempre più corte, blande e svogliate. Come un giocattolo senza più carica consumò i suoi ultimi, stanchi, sussulti a pochi metri dal traguardo. Poi, incredibilmente,  si fermò del tutto.
Le mani degli spettatori, già pronte a chiudersi nell’applauso, rimasero sospese a mezz’aria.
L’urlo di esultanza dei compagni di squadra si strozzò in gola e dalle loro labbra uscì solo un flebile soffio di stupefatta incomprensione.
I cani intanto lo avevano superato di slancio andando in mucchio a contendersi il pezzo di carne più rosso sul filo del traguardo.
E Massimiliano restò solo. Tagliò la linea di arrivo camminando, camminando imboccò la via degli  spogliatoi.
Gli spettatori scrutarono le linee del suo volto per tentare di dare una risposta ai loro perché. Per scorgere eventualmente  i segni di quella follia.
 Non videro nulla di  strano su quel viso, anzi più di qualcuno si convinse di avervi  colto un sorriso compiaciuto, come di soddisfazione.
Si pensò al  soprassalto del campione desideroso di umiliare gli avversari. Non aveva tagliato il traguardo per primo ma tutti sapevano che il vincitore era uno solo , ed era lui. Ma un campione non umilia gli avversari anzi li rispetta perché  conosce i loro sacrifici; sono gli stessi che ha fatto lui.
Vennero allora immaginate altre spiegazioni, in verità ancora più fantasiose. Del resto l’episodio era stato talmente clamoroso da incoraggiare qualsiasi ipotesi.
A qualcuno venne in mente che si potesse trattare di una trovata pubblicitaria.
In tal modo Massimiliano Pepe, giovane atleta di belle speranze  non ancora assurto ai fasti della notorietà, avrebbe attirato su di sé  l’attenzione generale lasciando  per sempre il suo cono d’ombra per entrare nella luce dorata dei vip.
Così facendo Massimiliano contribuiva  a rendere verosimile ogni idea, anche la più strampalata.
Alle domande degli intervistatori locali, alle richieste di radio e televisioni  private opponeva un astioso  silenzio. Il che se non altro smentiva almeno una delle ipotesi prospettate , vale a dire quella della trovata pubblicitaria . Perché non si capiva come mai, proprio adesso che aveva trovato la macchina fotografica,  si negasse ai suoi flash.
Il silenzio di Massimiliano lasciava però intuire che dentro la sua mente quella sera doveva essersi verificato qualcosa di grave e definitivo.
Qualcosa che doveva aver toccato intimamente la sua coscienza se egli sentiva così forte l’esigenza di nasconderlo agli altri, di tenerlo lontano dalla pelosa curiosità della gente.
E più si rifiutava di parlare, chiudendosi in se stesso, più aumentavano le richieste di interviste.
Più si negava e più lo andavano a cercare. Per giustificare questa sua ostinata ritrosia scomodarono le sue origini siciliane.
In lui si incarnavano, si disse, i tipici tratti del temperamento isolano : testardo, ombroso , restio ad aprire il riccio spinoso della propria intimità.
Anche a prescindere dalle banali generalizzazioni, dalle quali  Massimiliano rifuggiva come peste, tutto quello che era stato detto e scritto su di lui e sulla gara di quella sera  era moneta falsa, non valeva niente.
Della Sicilia  aveva vaghi ricordi. Aveva ventun anni e si era allontanato dalla sua terra che ne aveva dodici, catapultato dall’altra parte dell’Italia per una serie di circostanze  nelle quali la sua volontà non aveva giocato alcun ruolo.
Della Sicilia ricordava le donne, i vecchi e i topi. Le donne, sempre vestite di nero, nero anche il foulard legato sotto il mento: stavano sedute su basse sedie di paglia davanti alla porta di casa e guardavano il cielo. Gli uomini, visi di cuoio rigati da solchi profondi, salivano a dorso di mulo viuzze sassose.
I topi si arrampicavano sui mucchi ammorbanti di rifiuti che il ritardo cronico del camion della nettezza urbana rendeva ogni giorni più velenosi. Da lì sopra, grassi e gonfi a furia di cibarsi di quella sugna, spadroneggiavano indisturbati e né gatti né uomini avevano  il coraggio di avvicinarsi.
Più vivi gli apparivano i  ricordi della sua infanzia.
I fucili ricavati da un pezzo di legno, con il calcio sagomato e due chiodi  piazzati di sotto a mo’ di impugnatura e caricatore per  la guerra con gli amici. Pam pam morto Salvatore. No, non è vero non mi hai visto. Non sono morto, ero nascosto. Le scorribande nei frutteti passando sotto il filo spinato per rubare fichi e mandorle. La caccia alle lucertole e la litania del rito funebre ritmando i bastoni su quella verde immobilità; non sono stato io non è stata la Madonna è stato il diavolo con le sue corna. Infine le corse a piedi nudi da Sant’Anna fino all’obelisco della Chiesa di Montesalvo, novecentosettanta metri col sole negli occhi ed il cuore che si spaccava  nel petto.
Ma in  quei ricordi la Sicilia c’entrava poco. Erano giochi che riempivano città e contrade di tutto il sud. Enna poi, la città dove era nato, non era sicuro che si trovasse  proprio in Sicilia.
L’oleografia classica  impone il sole e il mare, fiori e aranci, il profumo di zagare e di bergamotti.
Ad Enna non c’è il mare, arroccata com’è su un colle nel centro dell’isola, non c’è neanche il sole perché piove spesso, d’inverno fa freddo ed in autunno compare la nebbia. Ad Enna non si coltivano arance o limoni ma nocciole, ortaggi e pistacchi, non si respira il profumo di zagare o bergamotti ma alita dappertutto  un greve fiato di zolfo. Qualcuno può pensare che Enna sia in Sicilia?
In ogni caso  la sua terra l’aveva perduta troppo presto. E se esiste veramente un’essenza siciliana non aveva fatto in tempo ad assorbirla.
Sua madre, con gli occhi velati di lacrime, gli aveva preparato la valigia che avrebbe disfatto alla pensione Due Giardini  di Varese. Ed era poco più di un bambino.
Così aveva deciso suo padre su suggerimento del Professore. Il Professore in città era un personaggio noto, tutti lo chiamavano così ma all’anagrafe risultava Calogero Arcadipane.
Ex insegnante di educazione fisica, istruttore di atletica,era ritornato ad Enna dopo una vita trascorsa  al nord.
Per questo suo viaggiare, per l’istruzione che aveva ricevuto, per il suo fare calmo e misurato, intorno a lui era andata costruendosi una certa fama di saggio.
Aveva visto Massimiliano correre a rotta di collo in una di quelle gare con gli amici sul solito tragitto Sant’Anna-Montesalvo. Una volta si era perfino piazzato sotto l’obelisco  per cronometrare il tempo.
Il Professore abitava a Valverde, come la famiglia Pepe.  Quindi fece poca strada quel giorno quando si presentò a suo padre per fargli più o meno questo discorso : “ Signor Pepe , vostro figlio tiene muscoli saldi e polmoni capienti. Io al nord ho ancora tante conoscenze. Mandatelo lì, fatelo provare nello sport. Non vi costa nulla. Se è bravo, come io credo, gli daranno da mangiare e da dormire. Lo faranno studiare  E può darsi che un giorno vostro figlio possa diventare anche un campione.”
E suo padre aveva acconsentito, non certo per la storia del campione, perché quella  nemmeno l’aveva sentita, ma per il fatto che lì, al nord, si sarebbero presi l’impegno di mantenerlo.
Lui faceva il minatore; zolfo, salgemma, kainite. Tutto il giorno dentro le vene della terra a rubarle il sangue. E una bocca in meno da sfamare, un corpo in meno da vestire non era poco per la  sua famiglia. E comunque per Massimiliano avrebbe pur sempre rappresentato una possibilità rispetto al niente che potevano offrirgli lui ed Enna.
Quella era stata la volontà del padre. Cioè legge, parole scolpite nella pietra, quindi definitive e irrevocabili.
E nel caso di Massimiliano Pepe nel momento stesso in cui erano state proferite avevano deciso di una vita, dando il primo colpo di pollice alla creta ancora molle della sua storia.
Così da nove anni la creta di Massimiliano Pepe si stava comprimendo e raffreddando nella bruma di Varese.
I dirigenti della squadra erano contenti di lui, introverso ma sempre ubbidiente e rispettoso.
Volevano che andasse a scuola e lui ci andava. Volevano che corresse e lui correva. All’autorità paterna Massimiliano aveva sostituito quella dei dirigenti. Era cambiata solo la mano che modellava la creta ma il risultato era lo stesso.
Di intimamente suo si teneva stretto solo un segreto. Lo condivideva con un paio di compagni ma stava ben attento a non tradirsi e quindi si muoveva con molta cautela per evitare che qualche  dirigente lo venisse a scoprire.
Ogni tanto, diciamo una volta al mese, si recava al casinò, quello di Sanremo, più spesso quello di Saint Vincent.
Giocava piccole poste e d’altronde non si sarebbe potuto permettere di più visto il magro rimborso spese che gli passava  la società.
Puntava sul rosso e sul nero, sulle dozzine, ogni tanto su qualche cavallo. Era un giocatore improvvisato, non si curava né di tabelle né di statistiche. Non aveva le fisime dei giocatori incalliti: sempre lo stesso tavolo o lo stesso croupier, il numero magico, il colore delle fiches, l’amuleto portafortuna. Del resto non era lì per diventare ricco. Gli interessava solo il gioco, solo quello lo affascinava. Anzi il tavolo verde e le fiches avrebbero potuto anche non esserci. Il centro delle sue attenzioni era la ruota.
Vedeva il gesto preciso del croupier che affidava la pallina bianca alla lucentezza del legno. Un gesto semplice e misterioso nello stesso tempo nel quale rivedeva il gesto del contadino che lancia i suoi semi alla terra o quella del sacerdote che dà inizio alla  liturgia.
Poi seguiva la pallina bianca tracciare le sue orbite sulla ruota, ampie all’inizio , poi via via più corte fino a precipitare, scarica di energia, tra le caselle del fondo ed emettere il suo verdetto.
In quel breve scorrere di tempo Massimiliano si riempiva di immagini.
Osservava la tesa concentrazione dei giocatori, gli occhi di ognuno puntati su quella pallina, come se il loro sguardo, fisso su quelle orbite, ne potesse modificare la direzione; come se lo sforzo mentale di ciascuno potesse guidare quella corsa.
Anche la conca  della ruota attirava i suoi pensieri. Quel cerchio di caselle era l’arena dentro cui si scontravano i destini della gente, era la giostra che raccoglieva al suo passaggio desideri e speranze riconsegnando alla fine del suo vorticare euforia  per pochi  e frustrazione per tutti gli altri.
Quando si staccava dal tavolo per tornare a Varese la magia svaniva.
Aveva bisogno di essere presente perché il circuito si riattivasse, aveva bisogno di vedere la ruota per ricevere quelle scosse. Mai avrebbe immaginato di vederla girare una volta nella sua testa.
Successe tutto all’improvviso, un lampo di luce, uno scatto di interruttore. Successe esattamente quella sera, una sera che non si era presentata con segni eclatanti ma che si era incamminata sui soliti, comodi binari dell’abitudine. Nulla  lasciava presagire il deragliamento.
Ma in gara le cose andarono diversamente.
Scattato in testa allo sparo dello starter si ritrovò davanti a tutti, da solo. Tutto troppo facile. Non doveva preoccuparsi degli avversari, non aveva da tenere alta la concentrazione e forse fu in quel rilassamento di nervi che andò ad appoggiarsi, trovando comodo ricovero, l’immagine della ruota. Ma questa volta era immensa e senza caselle perché si trattava della pista dove stava correndo.
E lui che da solo percorreva correndo la sua traiettoria circolare, bianco nella divisa da gara, non era forse la pallina?
In un istante riportò alla mente il gesto del croupier ma dentro quel gilè colorato gli sembrò di riconoscere le sembianze di suo padre. Era lui che lanciava la pallina nella ruota.
Poi apparvero i dirigenti, ed anche loro lanciavano una  pallina.
Gli venne da chiedersi quante persone l’avevano preso in mano da quando  era nato, per quanti era stato semplicemente una pallina.
Per questo si fermò quella sera. Per tutti quei pensieri che esplosero nella sua mente e gli irrigidirono muscoli e tendini.
Doveva riprendersi la sua vita. Troppe persone erano stati i suoi croupier. Adesso era finita. Rien ne va plus. Sarebbe stato lui d’ora in poi a guidare il gioco, lui e nessun altro l’arbitro delle sue scelte.
Per questo si fermò. Lo fece per affermare la sua presenza, per urlare la sua volontà. Lo fece per siglare un confine, per indicare a se stesso e agli altri un prima e un dopo.
E quando, camminando, oltrepassò il traguardo Massimiliano Pepe, è vero, sorrise soddisfatto. L’aveva colto una sensazione di compiacimento e di pienezza, come di un lavoro fatto bene, come di un dovere finalmente compiuto.
Per la prima volta nella sua vita non aveva fatto quello che gli altri si aspettavano da lui, si era ribellato, aveva detto no, aveva deciso.
Era stata finalmente la sua mano a lavorare la creta. Era solo il primo colpo ma i successivi  sarebbero stati unicamente  suoi. Non sarebbe stato mai più  una pallina bianca.



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