INTERVISTE
Roberto Piumini
Con questo uomo, più che un'intervista, bisognerebbe impegnarsi in un dialogo platonico. Un Socrate. A proposito: Socrate incontrò l'anima, l'immaginazione, perché questa cominciò a parlargli con insistenza in forma demonica. Il tuo incontro con l'anima come è avvenuto?
Innanzitutto, socraticamente, per meglio proseguire, una smentita: non sono cantautore. Resta uno dei miei rimorsi d'esistenza più profondi non aver imparato la musica, e uno strumento: sono sicuro che avrei fatto qualcosa di buono, perché la voce ce l'ho, l'intonazione è sufficiente, e i versi pure. Perché poi, e qui rispondo alla domanda, il mio incontro con l'anima, più che nei pochi libri dell'infanzia (la mia famiglia non era letterata, e non esistevano allora biblioteche e abbondanze di libri per bambini: ma ricordo una Vita del Beato Domenico Savio vinta in una gara di Catechismo, che lessi rapito, e ancora più dall'illustrazione del pallido beato in levitazione: credo di tentare quella levitazione ancora oggi) avvenne con le parole "parlate" della radio, che ascoltavo, nel più caldo e generativo dei modi, nella cucina ancora profumata di cena, mentre mia madre sferruzzava. Io stesso, ascoltando, per tenere le mani occupate, tessevo file di "punto dritto", poi mia madre mi "girava il punto" e io ne facevo altre. Alla fine della serata e dell'ascolto radio (il venerdì era sublime, perché c'erano le commedie) tiravo il filo e disfacevo la trama.
Ancora socratica mi sembra in Piumini l'eterogeneità della sua produzione; il modo vario in cui si affronta sempre lo stesso tema. Un politeista tende a pensare che se anche ci fosse un solo luogo in cui arrivare non una sola via porterebbe a questo. Pensi che nel tuo lavoro è sotteso una certa sensibilità, un certo umore spirituale?
Sempre più mi convinco di non essere in realtà uno scrittore, ma un uomo di parola in senso più generale, una specie di predicatore poetico di parola: a questo portano infine la quantità e la diversità dei miei testi, le molte occasioni e situazioni in cui li ho fatti nascere (si pensi alla trentina abbondante di poemi scritti su materiali "locali", forniti da gruppi di bambini, ragazzi o adulti) le collaborazioni con altri "parlanti," pittori, musicisti, teatranti, scrittori... Quanto al tema, è in effetti sempre quello della creatività salvifica (o della libertà nella sua forma creativa): è questa l'amorosa ossessione. Talvolta, addirittura, scrivo solo per "far parlare la parola", per vivere/agire verbalmente. La spiritualità che mi appartiene e muove è quella, meno sacra che antropologica, della nominazione scambievole, dello spazio orale e corale: della preghiera non come richiesta a qualcuno di qualcosa, ma come racconto/canto del desiderio, come forma della promessa umana.
Siamo ancora in tema socratico: Piumini pedagogo. L'anima, l'immaginazione, si può insegnare?
La parola si può dare, probabilmente. Al tempo nostro, non più tanto nel senso politico/emancipatorio di "permettere alle persone di esprimersi" ma in quello di "dare il pane": fornire la materia/forma del pensiero, fecondare la possibilità della percezione di sé e del mondo, e quindi dell'espressione. Dare la parola, nel senso, contemporaneamente, di procurare luoghi di intimità parlata, scambievole (racconto, teatro, coro, conversazione) e questo è il compito politico, e di mostrarla in atto nell'autorità della bellezza, dell'efficacia, e questo è il compito poetico.
La volontà di "insegnare", di parlare di anima spesso si scontra con una resistenza notevole da parte del pubblico, specie in una cultura sempre più esangue. La più puntuale metafora dell'immaginazione è la discesa agli inferi, e non è un caso che tu racconti di bambini che muoiono, di nonni che muoiono, di morti che vivono, o inventi mondi al contrario che sembrano presi dagli inferi egizi. Oggi di morte non vuole sentire parlare nessuno: quanto ti è costato assumere questa posizione netta?
In realtà poco, perché non l'ho assunta in polemica contro la cultura, o per sfidare delle attese. Parlo di morte come verifica e specchio di una sensata e buona vita: verifica illuministica e laica, non religiosa. Lo scandalo delle mie storie non è desiderio di qualche trascendenza, ma di una sana immanenza umana. Quanto alla costanza del tema, se pure è vero che parlo anche di morte, parlo di moltissime altre cose, per esempio del corpo, e dello sguardo, della pittura (pur non essendo né esperto né particolarmente appassionato del pittorico) del mare, e dei capelli delle donne.
Il regno della morte è un regno privo di immagini. In uno dei tuoi racconti più belli (Lo stralisco) il protagonista è un pittore il culmine della cui maturità umana coincide con la rinuncia a dipingere. In tutte le tue storie c'è una tendenza radicale a creare immagini perfettamente concettuali, come nelle utopie rinascimentali. Qual è il tuo rapporto con le arti visive? In che modo le usi, o non le usi, nel tuo lavoro?
Una vera stranezza: mi è accaduto, e mi accade, sia nei testi per piccoli che per grandi, di scrivere molto di pittura e di pittori, pur senza essere particolarmente informato e appassionato di pittura. Non ho studi particolari al proposito,e non frequento mostre e musei, esperienza che anzi trovo quasi angosciante. Tuttavia, fra le arti possibili (la musica, purtroppo, fa ancor meno parte della mia cultura formativa ed espressiva) la pittura è quella di cui meglio riesco a immaginare dinamiche, condizioni, nevrosi, contesti umani: ne scrivo, probabilmente, per parlare della scrittura, evitando la vertigine che ne conseguirebbe.
Immagini concettuali e, ancora, l'utopie rinascimentali di congelare in una sola figura simbolica tutto il sapere. Tutti i tuoi racconti contengono insegnamenti; molti insegnamenti. I tuoi racconti hanno una dimensione tribale, di racconto orale (di qui l'uso forsennato della misura metrica e della ricchezza metaforica, penso): li si ascolta per apprendere. Come raggiungi questo spessore "sapienziale"? Alla base della tua scrittura c'è un grosso lavoro riflessivo o sei un "incursore"?
Un incursore, sicuramente: un pirata addirittura. In realtà, nonostante lo spessore sapienziale che dici, scrivo per pura inquietudine linguistica, per dare spazio al linguaggio che preme, che s'ingorga. La generosità, se c'è, è solo questa.
La sapienza in fondo è un cumulo di banalità dette in maniera contorta. "Contorta" è quello che fa bene al cuore. Quanto è importante essere astuti come il tuo Tou-Ema, bugiardi e ingannevoli (fingitori) come il poeta di Pessoa?
Se lo sapessi, o dicessi di saperlo, sarei astuto anch'io, o bugiardo e fingitore.
Mi hai detto una bugia?
Senz'altro sì, e certo più di una. Il poeta che parla in prosa, di sé o d'altro, è sempre mendace: ma per sapere, lui stesso, dove e come ha mentito dovrebbe riscrivere tutto in poesia.
Infine: a cosa stai lavorando?
A molte cose insieme, come sempre. Troppe, probabilmente. Racconti brevi per ragazzi, poesie, testi per teatro musicale e cori, forse un romanzo, insieme a una preziosa collaboratrice.
Innanzitutto, socraticamente, per meglio proseguire, una smentita: non sono cantautore. Resta uno dei miei rimorsi d'esistenza più profondi non aver imparato la musica, e uno strumento: sono sicuro che avrei fatto qualcosa di buono, perché la voce ce l'ho, l'intonazione è sufficiente, e i versi pure. Perché poi, e qui rispondo alla domanda, il mio incontro con l'anima, più che nei pochi libri dell'infanzia (la mia famiglia non era letterata, e non esistevano allora biblioteche e abbondanze di libri per bambini: ma ricordo una Vita del Beato Domenico Savio vinta in una gara di Catechismo, che lessi rapito, e ancora più dall'illustrazione del pallido beato in levitazione: credo di tentare quella levitazione ancora oggi) avvenne con le parole "parlate" della radio, che ascoltavo, nel più caldo e generativo dei modi, nella cucina ancora profumata di cena, mentre mia madre sferruzzava. Io stesso, ascoltando, per tenere le mani occupate, tessevo file di "punto dritto", poi mia madre mi "girava il punto" e io ne facevo altre. Alla fine della serata e dell'ascolto radio (il venerdì era sublime, perché c'erano le commedie) tiravo il filo e disfacevo la trama.
Ancora socratica mi sembra in Piumini l'eterogeneità della sua produzione; il modo vario in cui si affronta sempre lo stesso tema. Un politeista tende a pensare che se anche ci fosse un solo luogo in cui arrivare non una sola via porterebbe a questo. Pensi che nel tuo lavoro è sotteso una certa sensibilità, un certo umore spirituale?
Sempre più mi convinco di non essere in realtà uno scrittore, ma un uomo di parola in senso più generale, una specie di predicatore poetico di parola: a questo portano infine la quantità e la diversità dei miei testi, le molte occasioni e situazioni in cui li ho fatti nascere (si pensi alla trentina abbondante di poemi scritti su materiali "locali", forniti da gruppi di bambini, ragazzi o adulti) le collaborazioni con altri "parlanti," pittori, musicisti, teatranti, scrittori... Quanto al tema, è in effetti sempre quello della creatività salvifica (o della libertà nella sua forma creativa): è questa l'amorosa ossessione. Talvolta, addirittura, scrivo solo per "far parlare la parola", per vivere/agire verbalmente. La spiritualità che mi appartiene e muove è quella, meno sacra che antropologica, della nominazione scambievole, dello spazio orale e corale: della preghiera non come richiesta a qualcuno di qualcosa, ma come racconto/canto del desiderio, come forma della promessa umana.
Siamo ancora in tema socratico: Piumini pedagogo. L'anima, l'immaginazione, si può insegnare?
La parola si può dare, probabilmente. Al tempo nostro, non più tanto nel senso politico/emancipatorio di "permettere alle persone di esprimersi" ma in quello di "dare il pane": fornire la materia/forma del pensiero, fecondare la possibilità della percezione di sé e del mondo, e quindi dell'espressione. Dare la parola, nel senso, contemporaneamente, di procurare luoghi di intimità parlata, scambievole (racconto, teatro, coro, conversazione) e questo è il compito politico, e di mostrarla in atto nell'autorità della bellezza, dell'efficacia, e questo è il compito poetico.
La volontà di "insegnare", di parlare di anima spesso si scontra con una resistenza notevole da parte del pubblico, specie in una cultura sempre più esangue. La più puntuale metafora dell'immaginazione è la discesa agli inferi, e non è un caso che tu racconti di bambini che muoiono, di nonni che muoiono, di morti che vivono, o inventi mondi al contrario che sembrano presi dagli inferi egizi. Oggi di morte non vuole sentire parlare nessuno: quanto ti è costato assumere questa posizione netta?
In realtà poco, perché non l'ho assunta in polemica contro la cultura, o per sfidare delle attese. Parlo di morte come verifica e specchio di una sensata e buona vita: verifica illuministica e laica, non religiosa. Lo scandalo delle mie storie non è desiderio di qualche trascendenza, ma di una sana immanenza umana. Quanto alla costanza del tema, se pure è vero che parlo anche di morte, parlo di moltissime altre cose, per esempio del corpo, e dello sguardo, della pittura (pur non essendo né esperto né particolarmente appassionato del pittorico) del mare, e dei capelli delle donne.
Il regno della morte è un regno privo di immagini. In uno dei tuoi racconti più belli (Lo stralisco) il protagonista è un pittore il culmine della cui maturità umana coincide con la rinuncia a dipingere. In tutte le tue storie c'è una tendenza radicale a creare immagini perfettamente concettuali, come nelle utopie rinascimentali. Qual è il tuo rapporto con le arti visive? In che modo le usi, o non le usi, nel tuo lavoro?
Una vera stranezza: mi è accaduto, e mi accade, sia nei testi per piccoli che per grandi, di scrivere molto di pittura e di pittori, pur senza essere particolarmente informato e appassionato di pittura. Non ho studi particolari al proposito,e non frequento mostre e musei, esperienza che anzi trovo quasi angosciante. Tuttavia, fra le arti possibili (la musica, purtroppo, fa ancor meno parte della mia cultura formativa ed espressiva) la pittura è quella di cui meglio riesco a immaginare dinamiche, condizioni, nevrosi, contesti umani: ne scrivo, probabilmente, per parlare della scrittura, evitando la vertigine che ne conseguirebbe.
Immagini concettuali e, ancora, l'utopie rinascimentali di congelare in una sola figura simbolica tutto il sapere. Tutti i tuoi racconti contengono insegnamenti; molti insegnamenti. I tuoi racconti hanno una dimensione tribale, di racconto orale (di qui l'uso forsennato della misura metrica e della ricchezza metaforica, penso): li si ascolta per apprendere. Come raggiungi questo spessore "sapienziale"? Alla base della tua scrittura c'è un grosso lavoro riflessivo o sei un "incursore"?
Un incursore, sicuramente: un pirata addirittura. In realtà, nonostante lo spessore sapienziale che dici, scrivo per pura inquietudine linguistica, per dare spazio al linguaggio che preme, che s'ingorga. La generosità, se c'è, è solo questa.
La sapienza in fondo è un cumulo di banalità dette in maniera contorta. "Contorta" è quello che fa bene al cuore. Quanto è importante essere astuti come il tuo Tou-Ema, bugiardi e ingannevoli (fingitori) come il poeta di Pessoa?
Se lo sapessi, o dicessi di saperlo, sarei astuto anch'io, o bugiardo e fingitore.
Mi hai detto una bugia?
Senz'altro sì, e certo più di una. Il poeta che parla in prosa, di sé o d'altro, è sempre mendace: ma per sapere, lui stesso, dove e come ha mentito dovrebbe riscrivere tutto in poesia.
Infine: a cosa stai lavorando?
A molte cose insieme, come sempre. Troppe, probabilmente. Racconti brevi per ragazzi, poesie, testi per teatro musicale e cori, forse un romanzo, insieme a una preziosa collaboratrice.
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