INTERVISTE
Romana Petri
In questo romanzo tu descrivi l'amore felice. Penso che sia la cosa più difficile. Sono tutti capaci, magari con diverso stile, a descrivere i tormenti e i lai degli amanti infelici. Ma l'amore felice è dirompente, nuovo, perfino scandaloso. E però fragilissimo rispetto al rischio di cadere nel melenso, nella deriva buonista, nell'ipocrisia del"pensiero positivo". Tu invece affronti l'argomento in modo audace e vincente. Come hai fatto?
È stata una mia personale sfida. Sono sempre stata convinta che ogni argomento possa diventare materia letteraria. Ma dell'amore infelice avevo già trattato a sufficienza in libri precedenti. Dovevo dunque affrontare "il nuovo", ma non impossibile argomento di un amore felice. Ho usato la materia che conosco meglio: l'epica. Dove c'è epica non può esservi melensaggine. Alcina e Spaltero, si amano in modo virile, da eroe a eroe, come i personaggi di Corneille. Non se lo sanno spiegare, ma sanno di essere dei prescelti. In fondo, poi, trattando la materia in forma "epica", mi sono accorta che qualsiasi felicità si veste comunque di tragico. Credo che il lettore stia sempre lì ad aspettare che accada qualcosa che li separi, e alla fine si stupisca addirittura di questa attesa. Come se mi fossi proposta di farlo dubitare fino alla fine, per poi fargli pensare che in fondo si è ritrovato a leggere una storia possibile. In ogni caso la loro felicità amorosa è contornata anche di grandi dolori esterni al loro grandissimo amore. Ma un amore equilibrato, ci tengo sempre a dirlo, altrimenti non sarebbe durato tanto. Si sono amati, proprio come dice il prete a Giulietta e Romeo quando li sposa: Amatevi con moderazione. Che poi vuol dire, conservate questo amore.
Il personaggio di Alcina è stupefacente, perché contiene tutta la complessità di una persona semplice. E'difficile entrare dentro a una persona semplice: semplice non in modo riduttivo, ché anzi Alcina ha una grande profondità di pensiero, ma se la vive in modo istintivo, non intellettualistico, e proprio qui sta il difficile. Anche l'uso del linguaggio è straordinario: è un linguaggio che sembra creato apposta, fatto su misura, e che comunica il senso di una assoluta genuinità. Vorrei sapere come nasce questo personaggio, disegnato così completamente dentro e fuori : si capisce che è diverso dalla persona che scrive, ma nello stesso tempo è descritto fin nei più minuti pensieri come se chi scrive parlasse di sé.
Alcina è una donna complicatissima, solo l'equilibrio di Spaltero riesce a darle qualche schiarita. Alcina è una donna tragica nel vero senso della parola, cioè, una donna alla quale i tristi eventi della vita hanno tolto la gioia di vivere. Ma proprio perché è tragica e non drammatica, può risorgere. La felicità che ha vissuto nella sua famiglia di origine le dà la possibilità di poterla rilanciare ancora una volta. Solo i depressi, che non ricordano le felicità del passato, non hanno mai la possibilità di ritrovarle. Come il personaggio di Toni. La depressione vista come una perdita di memoria del bene che abbiamo avuto. Quanto al linguaggio, io credo sia lo scrittore a doversi adeguare a quello dei suoi personaggi. Uno scrittore che li fa parlare tutti con il "suo" linguaggio diventa inverosimile. L'Umbria, poi, mi appartiene, metà del mio sangue è umbro. Ho mescolato dentro un gran calderone, fatto delle mie letture ma anche dei ricordi di vita di campagna. Mezze parole ascoltate e che mi sono rimaste dentro. E poi, perché negarlo, la creatività. Creare un linguaggio dà grande soddisfazione.
Alcina e Spaltero: sembrano davvero nomi epici, fuori del tempo. C'è qualche ragione particolare nella scelta di quei nomi?
Sono nomi antichi, in Umbria ancora si usano. Sono nomi che danno un'identità a una persona, come del resta anche Astorre, il padre di lei, e la madre Amarantina, il fratello Aliseo.
Tutti nomi che cominciano con la "A".
Perché ogni famiglia è il principio di qualcosa che poi continuerà. Infatti la figlia di Alcina si chiama Buena, come se il ciclo che si chiude con la famiglia di origine fosse anche il presupposto per continuare sullo stesso tono.
Alcina ama un uomo che ha dieci anni meno di lei. Perché quella differenza d'età? Forse perché Spaltero rappresenta la dimensione del futuro, rispetto a lei che si sente vecchia e parla con i morti?
La differenza d'età era indispensabile per una donna come Alcina. Che se ne sarebbe fatta di un uomo che avesse avuto tanti anni più di lei? Siamo abituati a considerare dieci anni di differenza con normalità quando è l'uomo ad essere più grande. E se cominciassimo a vedere le cose sotto un altro aspetto? Sarebbe ora. Alcina aveva bisogno della giovinezza, quella che in sé non era mai riuscita a vedere. Lei "diventa giovane" con Spaltero. Generalmente giovani non si diventa mai, lei invece ci riesce.
Uno dei protagonisti del romanzo è Vinciguerra, il cane che Alcina vuole a tutti i costi portare con sé nel suo viaggio in Argentina, sfidando la curiosità della gente e perfino il ridicolo. Perché questa determinazione? Forse Vinciguerra rappresenta un legame con il passato che lei non vuole abbandonare? Oppure è la sua parte istintiva, un po' selvaggia, che non è disposta ad addomesticare del tutto?
Vinciguerra è la Storia. In lui tutto è racchiuso, il sublime come il grottesco, il bene e il male, il bello e il brutto, lui è quello che continua a ripetersi da sempre, un grande calderone eternamente rimescolato.
La parte legata alle vicende politiche dell'Argentina mi è sembrata come un romanzo a sé. Che senso ha questa parte all'interno della storia di Alcina?
In questa scelta risiede tutto il pessimismo del libro. Senza questa parte, allora sì che il libro sarebbe stato oscenamente ottimista. Alcina e Spaltero emigrano dall'Italia dopo un duro fascismo, vanno in cerca di una vita nuova e la trovano. Ma poi si ritrovano davanti a un altro fascismo che li annichilirà come e più del primo per quello che farà alla loro unica figlia. Nel raccontare la terribile dittatura di Videla, ho voluto dire che la Storia non è altro che un eterno susseguirsi di catastrofi dalle quali l'uomo non impara mai molto perché ne è quasi sempre la causa. La Storia è sempre stata così, una catastrofe dietro l'altra, ma non catastrofi naturali, bensì umane: errori, violenze, brutture di cui l'uomo pare non stancarsi mai.
Non è la prima volta che tratti questi argomenti.
Ho già parlato di molti orrori nei miei romanzi: la resistenza italiana, la dittatura di Salazar in Portogallo, la Guerra Civile spagnola, e poi ho parlato di emigrazione più volte,e anche delle violenze familiari. Insomma, le valanghe di orrori non ci servono pare a molto per vivere in modo migliore, ma scrivere e leggere, credo servano, almeno per la minoranza che lo fa, anche a non dimenticare. La Storia sbaglia sempre, noi qualche volta ci salviamo con la forza e la manutenzione degli affetti.
Oltre ad essere scrittrice, dirigi una casa editrice. Come vivi questo doppio ruolo? Quali sono, in questi due campi, le gioie e i dolori?
Da editore ho imparato a essere più umile come scrittore. I libri sono oggetti rettangolari dall'animo rotondo, non si può mai dire dove vadano a finire. È quasi più facile prevedere il destino di un uomo che quello di un libro. Quindi bisogna accettare le gioie e i dolori che ne derivano, perché non è facile né essere scrittore né essere editore.
In queste tue attività c'è una particolare attenzione al Portogallo e all'America Latina. Com'è nato questo interesse?
Il Portogallo è la mia seconda patria da tanti anni, vivo tra Roma e Lisbona e sto bene così, se potessi ci infilerei anche una terza città: Rio de Janerio. Sono stata per anni un'insegnante di lingua e letteratura francese. Poi sono finita in Sudamerica, finita letterariamente, e il mare è talmente magno che si finisce col dover leggere moltissimo per non affogarci dentro. Mi sto ancora dando molto da fare e credo che ne avrò ancora per un bel po'. Ma non trascuro la letteratura spagnola e quella portoghese che mi piacciono molto. Del resto la mia casa editrice, Cavallo di Ferro, è nata come casa editrice specializzata in letteratura lusofona. Oggi invece, pubblichiamo di tutto, anche qualche italiano.
È stata una mia personale sfida. Sono sempre stata convinta che ogni argomento possa diventare materia letteraria. Ma dell'amore infelice avevo già trattato a sufficienza in libri precedenti. Dovevo dunque affrontare "il nuovo", ma non impossibile argomento di un amore felice. Ho usato la materia che conosco meglio: l'epica. Dove c'è epica non può esservi melensaggine. Alcina e Spaltero, si amano in modo virile, da eroe a eroe, come i personaggi di Corneille. Non se lo sanno spiegare, ma sanno di essere dei prescelti. In fondo, poi, trattando la materia in forma "epica", mi sono accorta che qualsiasi felicità si veste comunque di tragico. Credo che il lettore stia sempre lì ad aspettare che accada qualcosa che li separi, e alla fine si stupisca addirittura di questa attesa. Come se mi fossi proposta di farlo dubitare fino alla fine, per poi fargli pensare che in fondo si è ritrovato a leggere una storia possibile. In ogni caso la loro felicità amorosa è contornata anche di grandi dolori esterni al loro grandissimo amore. Ma un amore equilibrato, ci tengo sempre a dirlo, altrimenti non sarebbe durato tanto. Si sono amati, proprio come dice il prete a Giulietta e Romeo quando li sposa: Amatevi con moderazione. Che poi vuol dire, conservate questo amore.
Il personaggio di Alcina è stupefacente, perché contiene tutta la complessità di una persona semplice. E'difficile entrare dentro a una persona semplice: semplice non in modo riduttivo, ché anzi Alcina ha una grande profondità di pensiero, ma se la vive in modo istintivo, non intellettualistico, e proprio qui sta il difficile. Anche l'uso del linguaggio è straordinario: è un linguaggio che sembra creato apposta, fatto su misura, e che comunica il senso di una assoluta genuinità. Vorrei sapere come nasce questo personaggio, disegnato così completamente dentro e fuori : si capisce che è diverso dalla persona che scrive, ma nello stesso tempo è descritto fin nei più minuti pensieri come se chi scrive parlasse di sé.
Alcina è una donna complicatissima, solo l'equilibrio di Spaltero riesce a darle qualche schiarita. Alcina è una donna tragica nel vero senso della parola, cioè, una donna alla quale i tristi eventi della vita hanno tolto la gioia di vivere. Ma proprio perché è tragica e non drammatica, può risorgere. La felicità che ha vissuto nella sua famiglia di origine le dà la possibilità di poterla rilanciare ancora una volta. Solo i depressi, che non ricordano le felicità del passato, non hanno mai la possibilità di ritrovarle. Come il personaggio di Toni. La depressione vista come una perdita di memoria del bene che abbiamo avuto. Quanto al linguaggio, io credo sia lo scrittore a doversi adeguare a quello dei suoi personaggi. Uno scrittore che li fa parlare tutti con il "suo" linguaggio diventa inverosimile. L'Umbria, poi, mi appartiene, metà del mio sangue è umbro. Ho mescolato dentro un gran calderone, fatto delle mie letture ma anche dei ricordi di vita di campagna. Mezze parole ascoltate e che mi sono rimaste dentro. E poi, perché negarlo, la creatività. Creare un linguaggio dà grande soddisfazione.
Alcina e Spaltero: sembrano davvero nomi epici, fuori del tempo. C'è qualche ragione particolare nella scelta di quei nomi?
Sono nomi antichi, in Umbria ancora si usano. Sono nomi che danno un'identità a una persona, come del resta anche Astorre, il padre di lei, e la madre Amarantina, il fratello Aliseo.
Tutti nomi che cominciano con la "A".
Perché ogni famiglia è il principio di qualcosa che poi continuerà. Infatti la figlia di Alcina si chiama Buena, come se il ciclo che si chiude con la famiglia di origine fosse anche il presupposto per continuare sullo stesso tono.
Alcina ama un uomo che ha dieci anni meno di lei. Perché quella differenza d'età? Forse perché Spaltero rappresenta la dimensione del futuro, rispetto a lei che si sente vecchia e parla con i morti?
La differenza d'età era indispensabile per una donna come Alcina. Che se ne sarebbe fatta di un uomo che avesse avuto tanti anni più di lei? Siamo abituati a considerare dieci anni di differenza con normalità quando è l'uomo ad essere più grande. E se cominciassimo a vedere le cose sotto un altro aspetto? Sarebbe ora. Alcina aveva bisogno della giovinezza, quella che in sé non era mai riuscita a vedere. Lei "diventa giovane" con Spaltero. Generalmente giovani non si diventa mai, lei invece ci riesce.
Uno dei protagonisti del romanzo è Vinciguerra, il cane che Alcina vuole a tutti i costi portare con sé nel suo viaggio in Argentina, sfidando la curiosità della gente e perfino il ridicolo. Perché questa determinazione? Forse Vinciguerra rappresenta un legame con il passato che lei non vuole abbandonare? Oppure è la sua parte istintiva, un po' selvaggia, che non è disposta ad addomesticare del tutto?
Vinciguerra è la Storia. In lui tutto è racchiuso, il sublime come il grottesco, il bene e il male, il bello e il brutto, lui è quello che continua a ripetersi da sempre, un grande calderone eternamente rimescolato.
La parte legata alle vicende politiche dell'Argentina mi è sembrata come un romanzo a sé. Che senso ha questa parte all'interno della storia di Alcina?
In questa scelta risiede tutto il pessimismo del libro. Senza questa parte, allora sì che il libro sarebbe stato oscenamente ottimista. Alcina e Spaltero emigrano dall'Italia dopo un duro fascismo, vanno in cerca di una vita nuova e la trovano. Ma poi si ritrovano davanti a un altro fascismo che li annichilirà come e più del primo per quello che farà alla loro unica figlia. Nel raccontare la terribile dittatura di Videla, ho voluto dire che la Storia non è altro che un eterno susseguirsi di catastrofi dalle quali l'uomo non impara mai molto perché ne è quasi sempre la causa. La Storia è sempre stata così, una catastrofe dietro l'altra, ma non catastrofi naturali, bensì umane: errori, violenze, brutture di cui l'uomo pare non stancarsi mai.
Non è la prima volta che tratti questi argomenti.
Ho già parlato di molti orrori nei miei romanzi: la resistenza italiana, la dittatura di Salazar in Portogallo, la Guerra Civile spagnola, e poi ho parlato di emigrazione più volte,e anche delle violenze familiari. Insomma, le valanghe di orrori non ci servono pare a molto per vivere in modo migliore, ma scrivere e leggere, credo servano, almeno per la minoranza che lo fa, anche a non dimenticare. La Storia sbaglia sempre, noi qualche volta ci salviamo con la forza e la manutenzione degli affetti.
Oltre ad essere scrittrice, dirigi una casa editrice. Come vivi questo doppio ruolo? Quali sono, in questi due campi, le gioie e i dolori?
Da editore ho imparato a essere più umile come scrittore. I libri sono oggetti rettangolari dall'animo rotondo, non si può mai dire dove vadano a finire. È quasi più facile prevedere il destino di un uomo che quello di un libro. Quindi bisogna accettare le gioie e i dolori che ne derivano, perché non è facile né essere scrittore né essere editore.
In queste tue attività c'è una particolare attenzione al Portogallo e all'America Latina. Com'è nato questo interesse?
Il Portogallo è la mia seconda patria da tanti anni, vivo tra Roma e Lisbona e sto bene così, se potessi ci infilerei anche una terza città: Rio de Janerio. Sono stata per anni un'insegnante di lingua e letteratura francese. Poi sono finita in Sudamerica, finita letterariamente, e il mare è talmente magno che si finisce col dover leggere moltissimo per non affogarci dentro. Mi sto ancora dando molto da fare e credo che ne avrò ancora per un bel po'. Ma non trascuro la letteratura spagnola e quella portoghese che mi piacciono molto. Del resto la mia casa editrice, Cavallo di Ferro, è nata come casa editrice specializzata in letteratura lusofona. Oggi invece, pubblichiamo di tutto, anche qualche italiano.
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