ATTUALITA'
Stefano Torossi
Sorpresa quasi di famiglia
La Sala Cadorin
A Via Veneto, fra i tanti grandi alberghi, c’è il Grand Hotel Palace (ex Ambasciatori), costruito da Piacentini nel 1926. Come in tutti gli altri, anche in questo c’è il salone bar, che però non è un salone qualunque: è la “Sala Cadorin”.
Guido Cadorin, pittore veneziano della prima metà del ‘900 è stato probabilmente uno degli ultimi artisti del nostro tempo a ricevere una committenza privata: appunto la decorazione pittorica del salone bar del Palace.
È una delizia girare gli occhi sulle pareti (magari con in mano un buon Negroni), e trovarsi nel centro di un ciclo di affreschi che ripropongono l’atmosfera di una festa in villa, alla maniera cinquecentesca di Paolo Veronese (balconate, colonne e paesaggi), solo che i dipinti sono in stile decò e i personaggi in abito moderno.
La cosa divertente è riconoscere nelle figure i famosi dell’epoca: c’è lo stesso Cadorin autoritrattosi di spalle in frak, c’è la signora Piacentini, c’è Margherita Sarfatti, c’è una danzatrice nuda e una donna moderna (per l’epoca), non identificata ma vestita, che con aria insolente fuma una sigaretta, ci sono Giò Ponti, Emilio Cecchi, e abbiamo perfino riconosciuto nostro nonno, il pittore Felice Carena, intimo amico di Cadorin, in elegantissimo papillon bianco.
E, per aggiungere mistero alla vicenda, c’è anche un piccolo giallo: neanche un anno dopo l’inaugurazione gli affreschi vennero coperti da drappi con la scusa che la loro eccessiva audacia offendeva i clienti. In realtà la ragione di questa censura pare che andasse cercata nell’irritazione di un tizio seccato di non riconoscersi fra i personaggi dell’alta società riuniti negli affreschi.
Quel tizio era un certo Benito Mussolini.
La pericolosa deriva del collezionista
Voglia d’Italia. E’ il titolo di una mostra che apre il 6 a Palazzo Venezia. Inconsuetissima inaugurazione a suon di musica. Nella Sala Regia concerto “Omaggio a Duke Ellington” della Mario Corvini New Talents Jazz Band. Ottimi fiati, begli arrangiamenti; una sola pecca che non ci sentiamo di ignorare: come si può pensare di riprodurre lo swing di Ellington con un basso elettrico invece di un vero contrabbasso nella sezione ritmica?
Superato questo piccolo dispiacere musicale, procediamo a visitare la mostra che si srotola, per i magnifici saloni dell’appartamento Barbo riempiendo vetrinette e scaffali. Ma con cosa?
Qui viene fuori la discussa faccenda del collezionismo, che delle volte è una sacrosanta ispirazione a mettere insieme oggetti rari e preziosi. Ma altre volte a noi sembra solo una frenesia patologica di accumulare cose (belle qualche volta, certo, ma anche brutte, spesso) pur di fare numero.
Non abbiamo lo spazio per mostrare tutta la paccottiglia in esposizione, ma potrebbero bastare questi pupazzetti e questo boccale da birra intagliato in una zanna di elefante per capirci. E’ chiaro che questo più che un giudizio artistico è una freddura. Infatti sottocchio ci è caduta anche della roba molto bella e molto seria. E’ che la nostra esternazione nasce da quel certo brulichio esagerato che frullava intorno ai troppi oggetti e oggettini delle sale.
I responsabili sono una coppia di americani vissuti a Roma, a Villa Sciarra, fino agli anni trenta: lui, George Wurts, funzionario dell’ambasciata USA, presumibilmente la mente maniacale dell’operazione, lei Henriette Tower Wurts, ereditiera, con certezza il braccio economico della stessa.
Fatto sta che questi due, fissati, ma tutto sommato anche benefattori, finirono, dopo averla accumulata, col donare a Palazzo Venezia la loro collezione di oltre quattromila manufatti, che è quella che vediamo esposta. E poi, al Comune di Roma, anche la loro residenza di Villa Sciarra, che purtroppo, da quando è passata alla proprietà pubblica è andata sempre più degradando fino alla miseria di oggi.
La mostra proseguirebbe nei locali interni del Vittoriano, ma, francamente, è tardi, fa freddo, e soprattutto l’idea di attraversare Piazza Venezia: buia, senza un semaforo, con le strisce pedonali mezze cancellate e stravolta da un infernale carosello di traffico è una di quelle che farebbero venire i brividi anche a un veterano della Parigi-Dakar.
Noi che quella grinta non ce l’abbiamo, rinunciamo all’impresa e buona notte.
A Via Veneto, fra i tanti grandi alberghi, c’è il Grand Hotel Palace (ex Ambasciatori), costruito da Piacentini nel 1926. Come in tutti gli altri, anche in questo c’è il salone bar, che però non è un salone qualunque: è la “Sala Cadorin”.
Guido Cadorin, pittore veneziano della prima metà del ‘900 è stato probabilmente uno degli ultimi artisti del nostro tempo a ricevere una committenza privata: appunto la decorazione pittorica del salone bar del Palace.
È una delizia girare gli occhi sulle pareti (magari con in mano un buon Negroni), e trovarsi nel centro di un ciclo di affreschi che ripropongono l’atmosfera di una festa in villa, alla maniera cinquecentesca di Paolo Veronese (balconate, colonne e paesaggi), solo che i dipinti sono in stile decò e i personaggi in abito moderno.
La cosa divertente è riconoscere nelle figure i famosi dell’epoca: c’è lo stesso Cadorin autoritrattosi di spalle in frak, c’è la signora Piacentini, c’è Margherita Sarfatti, c’è una danzatrice nuda e una donna moderna (per l’epoca), non identificata ma vestita, che con aria insolente fuma una sigaretta, ci sono Giò Ponti, Emilio Cecchi, e abbiamo perfino riconosciuto nostro nonno, il pittore Felice Carena, intimo amico di Cadorin, in elegantissimo papillon bianco.
E, per aggiungere mistero alla vicenda, c’è anche un piccolo giallo: neanche un anno dopo l’inaugurazione gli affreschi vennero coperti da drappi con la scusa che la loro eccessiva audacia offendeva i clienti. In realtà la ragione di questa censura pare che andasse cercata nell’irritazione di un tizio seccato di non riconoscersi fra i personaggi dell’alta società riuniti negli affreschi.
Quel tizio era un certo Benito Mussolini.
La pericolosa deriva del collezionista
Voglia d’Italia. E’ il titolo di una mostra che apre il 6 a Palazzo Venezia. Inconsuetissima inaugurazione a suon di musica. Nella Sala Regia concerto “Omaggio a Duke Ellington” della Mario Corvini New Talents Jazz Band. Ottimi fiati, begli arrangiamenti; una sola pecca che non ci sentiamo di ignorare: come si può pensare di riprodurre lo swing di Ellington con un basso elettrico invece di un vero contrabbasso nella sezione ritmica?
Superato questo piccolo dispiacere musicale, procediamo a visitare la mostra che si srotola, per i magnifici saloni dell’appartamento Barbo riempiendo vetrinette e scaffali. Ma con cosa?
Qui viene fuori la discussa faccenda del collezionismo, che delle volte è una sacrosanta ispirazione a mettere insieme oggetti rari e preziosi. Ma altre volte a noi sembra solo una frenesia patologica di accumulare cose (belle qualche volta, certo, ma anche brutte, spesso) pur di fare numero.
Non abbiamo lo spazio per mostrare tutta la paccottiglia in esposizione, ma potrebbero bastare questi pupazzetti e questo boccale da birra intagliato in una zanna di elefante per capirci. E’ chiaro che questo più che un giudizio artistico è una freddura. Infatti sottocchio ci è caduta anche della roba molto bella e molto seria. E’ che la nostra esternazione nasce da quel certo brulichio esagerato che frullava intorno ai troppi oggetti e oggettini delle sale.
I responsabili sono una coppia di americani vissuti a Roma, a Villa Sciarra, fino agli anni trenta: lui, George Wurts, funzionario dell’ambasciata USA, presumibilmente la mente maniacale dell’operazione, lei Henriette Tower Wurts, ereditiera, con certezza il braccio economico della stessa.
Fatto sta che questi due, fissati, ma tutto sommato anche benefattori, finirono, dopo averla accumulata, col donare a Palazzo Venezia la loro collezione di oltre quattromila manufatti, che è quella che vediamo esposta. E poi, al Comune di Roma, anche la loro residenza di Villa Sciarra, che purtroppo, da quando è passata alla proprietà pubblica è andata sempre più degradando fino alla miseria di oggi.
La mostra proseguirebbe nei locali interni del Vittoriano, ma, francamente, è tardi, fa freddo, e soprattutto l’idea di attraversare Piazza Venezia: buia, senza un semaforo, con le strisce pedonali mezze cancellate e stravolta da un infernale carosello di traffico è una di quelle che farebbero venire i brividi anche a un veterano della Parigi-Dakar.
Noi che quella grinta non ce l’abbiamo, rinunciamo all’impresa e buona notte.
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