RACCONTI
Stefano Ghisleri
Teoria del destino
La notizia aveva sconvolto il mondo. Aveva dato uno scossone alle scienze, alle arti e alle religioni: la conferma di un pianeta abitato da una vita intelligente era finalmente arrivata.
L’agenzia spaziale internazionale, dopo esser riuscita a portare un gruppo di uomini e donne su Marte, aveva optato per sospendere le missioni spaziali. Il suolo del pianeta rosso era stato calpestato cinquant’anni prima, ma la morte dell’intero equipaggio aveva fatto perdere ogni speranza e ogni interesse verso quel tipo di missione. Avrebbero dovuto costruire una civiltà sotto la superficie di Marte, ma il corpo umano degli astronauti non si era abituato a una forza di gravità ridotta a un terzo di quella in cui si era evoluto: la fine era stata inevitabile. I nomi degli astronauti che si erano offerti per quell’avventura senza ritorno erano stati dimenticati dopo un paio di generazioni.
Non era stata solo la perdita di vite umane a limitare le missioni spaziali successive: erano i finanziamenti il vero problema. Ritentare una missione per colonizzare Marte, o magari per andare alla ricerca di altri pianeti, era qualcosa di inaffrontabile dal punto di vista economico. Qualcuno giudicò che sarebbe stato immorale spendere miliardi per imprese del genere piuttosto che utilizzarli per riequilibrare un mondo che ormai vedeva il cinque per cento della popolazione sfruttare il novanta per cento delle risorse. Si era scelto quindi di dirottare tutti gli sforzi nell’invio di segnali nello spazio, nella speranza di ricevere, un giorno, una risposta.
Quel giorno arrivò: venticinque anni dopo l’invio del segnale, che consisteva nella sequenza dei cinque più piccoli numeri primi, due, tre, cinque, sette e undici, le antenne dei satelliti ricevettero un messaggio. L’informazione letta corrispondeva a quella inviata: cinque numeri primi in sequenza partendo da due.
Gli scienziati ne dedussero che la risposta doveva provenire da un pianeta distante: espressa in anni luce, la metà degli anni intercorsi tra l’invio e la ricezione. Il segnale aveva quindi impiegato dodici anni e mezzo a raggiungere il pianeta, era stato riflesso e in altri dodici anni e mezzo era tornato fino a noi.
Quello che all’inizio gli scienziati non riuscirono a spiegare era perché, quando spedivano un nuovo segnale, questo giungeva identico dopo venticinque anni alle loro antenne, mentre era chiaro che le risposte giungevano dopo cinquanta. Per un paio di secoli dedussero che le onde inviate venivano parzialmente riflesse da qualche oggetto nello spazio e non se ne curarono particolarmente.
Si decise di intraprendere un dialogo con l’altro pianeta. Ci volle moltissimo tempo per realizzare un alfabeto comprensibile a entrambi, giacché, per ricevere una risposta, era necessario attendere mezzo secolo. Presto scoprirono che la comunicazione era molto più semplice di quanto avessero temuto.
Un giorno, improvvisamente, capirono. L’ultimo messaggio dava le coordinate in cui era situato il nostro pianeta e chiedeva quelle del loro; tutto sarebbe stato possibile attraverso un complicato sistema di triangolazioni astronomiche. Non c’era nessun corpo che riflettesse i nostri segnali; Terra2, così era stato battezzato quel pianeta, non rispediva indietro i nostri messaggi, ma ne spediva di identici appena i nostri lo avevano raggiunto.
Nei secoli successivi si capì come stavano le cose: Terra2 era esattamente identico a noi. Lo era in ogni particolare, non solo dal punto di vista morfologico e chimico: vi abitavano le stesse persone, con gli stessi nomi; erano accaduti i medesimi eventi storici, le stesse guerre, gli stessi genocidi. Inizialmente, leggendo la loro storia, eravamo rimasti inorriditi dalla crudeltà della loro società, poi, quando capimmo che erano una nostra immagine riflessa, ci facemmo molto più comprensivi.
L’unica cosa che sembrava essere diversa era che gli avvenimenti accadevano con venticinque anni di ritardo. Se da noi avevamo festeggiato l’inizio del 3095, loro avevano festeggiato quello del 3070. Naturalmente anche inviando un messaggio per predire cosa sarebbe loro successo venticinque anni dopo, il tempo impiegato dall’onda luminosa per raggiungerli lo avrebbe reso del tutto inutile: il fatto sarebbe accaduto nell’istante d’arrivo. In un certo senso, le cose accadevano nello stesso momento.
Era come se ci fosse una lama che tagliava l’universo alla velocità di trecentomila chilometri al secondo e che decideva tutto. Sapevamo quale sarebbe stato il loro destino, poiché era identico al nostro, ma eravamo anche coscienti di non poterli informare in tempo.
In un anno che poi sarebbe stato ribattezzato come miracoloso, un fisico italiano teorizzò un’ardita unione tra la fisica e la spiritualità. Il Dottor Enrico Rampolli aveva postulato che il destino fosse un’onda che si propagava nell’universo alla velocità della luce. L’idea sembrava assolutamente perfetta: nella teoria della relatività la velocità della luce è un invariante, ovvero ha lo stesso valore per tutti i sistemi di riferimento; così il destino era lo stesso per tutti i mondi con i quali veniva in contatto. Naturalmente ci volle molto tempo perché venisse completata: nei decenni seguenti la maggior parte dei fisici avrebbe dedicato il proprio dottorato e le proprie ricerche alle questioni cruciali: che tipo di onda era? Poteva essere rifratta? Risentiva della curvatura dello spazio-tempo? Perché alcuni pianeti seguivano un destino e altri no? Era un effetto di risonanza? E, infine, quanti destini esistono? Sono infiniti oppure finiti?
Molti optarono per un numero finito giacché, argomentavano, il numero dei pianeti dell’universo è finito e non avrebbe avuto quindi senso avere infiniti destini: un numero infinito di essi sarebbe rimasto inutilizzato. Altri controbatterono con la teoria dell’universo a fisarmonica: i dati più recenti sembravano confermare che la densità media dell’universo superava il valore critico e che quindi, un giorno, l’universo avrebbe smesso di espandersi per invertire il proprio moto; divenuto un punto infinitesimale, avrebbe poi ricominciato a espandersi ripetendo il ciclo all’infinito. Ogni ciclo avrebbe avuto i suoi destini.
Altri invece sostennero solo parzialmente questa ipotesi: ogni ciclo doveva avere i medesimi destini del precedente e coniarono quindi l’idea del destino dei destini. La teoria degli universi paralleli portò al concetto del destino del destino dei destini.
La maggior parte dei teologi commentò che il destino del destino dei destini era semplicemente Dio. Altri, invece, risero della teoria: citarono Milton, che in quei tempi era considerato un vero e proprio profeta. Secondo loro, (Paradiso perduto, 8-75 e seg.): Egli ha lasciato la fabbrica del cielo a quelle loro dispute, forse per poter ridere, in seguito, di quelle loro opinioni così improbabili e strane, quand’essi arriveranno a modellare il cielo e calcolare le stelle.
Qualche teologo trovò blasfema l’idea che Cristo fosse disceso su due pianeti: quello vero poteva essere solo il nostro, giacché il Messia non avrebbe potuto trovarsi in due posti contemporaneamente; altri affermarono che tale critica era assurda, poiché il Cristo poteva tutto; altri ancora, invece, lo lodarono con una fede rinnovata per essersi sacrificato due volte.
Pochi furono gli oppositori della nuova teoria e per lo più vennero tacciati di essere conservatori dalla mentalità ristretta. Venivano additati come antidestinisti coloro che ancora negavano l’esistenza del destino.
Giovanni Colli era uno di loro. Non voleva accettare quella teoria: se era vero che Terra2 aveva il nostro medesimo sviluppo in ogni particolare, allora probabilmente anche noi eravamo il destino differito di un altro pianeta. Giovanni non poteva concordare con questa visione del mondo; gli sembrava che in questo modo ci fosse in realtà qualcun altro che prendeva le decisioni per lui e di essere, in sostanza, niente di più che un clone.
Decise allora di studiare più a fondo possibile quella teoria dedicandovi prima il dottorato e, in seguito, la breve carriera di ricercatore.
Il Dottor Rampolli era invece diventato una vera e propria celebrità. La sua teoria del destino aveva colpito l’opinione pubblica come la relatività di Einstein molti secoli prima, e ora si dedicava all’attività di conferenziere nelle più prestigiose università del mondo.
Enrico e Giovanni si conoscevano dai tempi dell’università: si erano incontrati a un corso semestrale di teoria dei campi e, da allora, si erano frequentati sempre più. Si ritrovavano la sera per discutere delle teorie dominanti nel mondo della fisica e, entrambi brillanti, ideavano esperimenti mentali per verificare o confutare le nuove ipotesi. Enrico era più intuitivo, mentre la forza di Giovanni stava nella riflessione. Accomunati da un amore inesauribile per il sapere, avevano scoperto presto una passione comune anche per Leonora, una ragazza che studiava matematica.
«Tu che diavolo ci fai qui?», si sentì dire alle spalle Giovanni. Riconosciuta la voce, si voltò senza rispondere.
«Sì può sapere cosa ci sei venuto a fare?», ripeté l’uomo.
«Sono venuto a salutare Leonora».
«E perché non sei venuto a salutarla durante il suo funerale o la veglia funebre?».
«Avevo da fare», rispose Giovanni abbassando gli occhi.
«Lo so dov’eri il giorno che l’abbiamo seppellita, me lo hanno detto i miei collaboratori. Eri all’osservatorio a lavorare. E so anche su cosa», aggiunse.
Giovanni alzò gli occhi verso l’uomo di successo che un giorno era stato un suo compagno di studi.
«Sei un antidestinista», disse Enrico, «stai facendo di tutto per confutare la mia teoria. Mi odi a tal punto da voler distruggere un gioiello così raffinato?».
Giovanni rimase fermo davanti alla lapide; guardò il piccolo schermo che riproduceva svariate fotografie della defunta nei suoi momenti di felicità, e si allontanò lentamente.
Quando fu a una ventina di passi si girò verso l’amico di un tempo e gli chiese: «Se dovessi scegliere tra l’esattezza della tua teoria e la vita di Leonora, cosa preferiresti?».
Enrico lo guardò confuso. Non rispose.
«Spera di sbagliarti, amico mio», aggiunse Giovanni, «ché una teoria è solo una serie di simboli su un foglio di carta».
Enrico lo lasciò andare: il dolore gli impediva di trovare la forza di intraprendere una discussione su ciò che è più o meno importante nella vita.
Non si rividero più.
Cinquant’anni dopo la teoria del destino sembrava esser giunta a una formulazione conclusiva. Morta la generazione che era adulta quando era stata formulata, quella nuova la accettò senza remore, così come era sempre accaduto. Ci si oppone solo a quello che non si è conosciuto da giovani.
Enrico, negli anni, era stato insignito di premi e lauree ad honorem da tutte le più prestigiose accademie scientifiche del mondo.
Ben altra era stata la sorte di Giovanni. Scoperto il suo antidestinismo, le università non si erano più mostrate interessate ad averlo come collaboratore. In realtà non aveva mai pubblicato una vera e propria teoria che confutasse quella di Enrico; aveva scritto articoli con astrusi esperimenti mentali, nei quali mescolava confuse nozioni di filosofia e di teologia con la fisica.
Visse dando lezioni private, lavoro che, in tutta onestà, trovava avvilente. Quasi tutti gli allievi, per lo più deludenti e completamente disinteressati alla materia, sedevano al tavolo della sua cucina, completamente ignari che nel cassetto era contenuto un articolo scientifico che, secondo Giovanni, confutava il paradigma di Rampolli.
Le mamme di quegli alunni, come quelle degli altri scolari in genere, cercavano di motivare i propri figli dicendo loro che, se avessero preso un brutto voto, lo avrebbe preso anche uno studente su Terra2, e che quindi, a causa loro, un altro bambino sarebbe stato sgridato e avrebbe rischiato la bocciatura. I ragazzi rispondevano che anche noi eravamo il futuro di un altro pianeta, che in genere tutti chiamavano Terra0 anche se in realtà non era ancora stato scoperto, e che quindi non potevano scegliere, perché la decisione l’aveva già presa un altro.
A tutti quelli che gli rispondevano così, Giovanni ribatteva: «Il destino non esiste».
Ma subito replicavano: «Come no, lo ha detto Rampolli».
Come si poteva dar torto a quei ragazzi? Sarebbe stato come dire, dopo Galileo, che la Terra era al centro dell’universo; affermare, ai tempi di Newton, che non esisteva la forza di gravità; come dire, ai tempi di Maxwell, che la luce non era un’onda elettromagnetica e che il tempo e lo spazio erano assoluti anche dopo la teoria di Einstein; erano diventate dichiarazioni prive di senso. Dopo la pubblicazione della teoria tutti sapevano che cosa fosse il destino.
Giovanni aveva prenotato l’osservatorio da più di un anno: aveva fissato il giorno e l’ora e, nelle ultime settimane, aveva chiamato svariate volte per verificare che la prenotazione non fosse andata perduta.
In realtà non c’era alcun rischio: una volta che la teoria del destino era stata ufficializzata e si era capito che l’altro pianeta era di fatto una copia del nostro, si era perso l’interesse per le comunicazioni.
Ma Giovanni attendeva un messaggio molto importante: lo attendeva ormai da cinquant’anni. Rimase seduto davanti al computer per più di un’ora. Poi, finalmente, la risposta arrivò:
Leonora è viva. Grazie.
Giovanni tirò un respiro di sollievo.
Durante il suo dottorato, nel quale aveva studiato il moto di Terra2, aveva scoperto una piccola anomalia. Si era accorto, utilizzando il metodo delle perturbazioni, che l’orbita del lontano pianeta era leggermente sfasata rispetto alla nostra. Lo stesso poteva dirsi della sua stella rispetto al centro della galassia. Aveva impiegato mesi per effettuare i calcoli necessari ma, quando Leonora aveva sposato Enrico, per lo sconforto aveva abbandonato tutto. Quando però aveva saputo della sua morte, era immediatamente corso all’osservatorio e aveva rispolverato quell’ammasso di fogli ormai impolverati. Aveva ridato fiducia alla sua ipotesi e aveva scoperto che, a intervalli regolari, la distanza tra la Terra e Terra2 si riduceva. Succedeva infatti che, ogni duecentocinquant’anni, la distanza diminuisse di 3 giorni luce. Quella minuscola finestra temporale cadeva esattamente tra l’incidente e i funerali di Leonora. Ci aveva messo due intere giornate per ricontrollare i suoi calcoli, ma poi aveva spedito il messaggio:
16 novembre: Leonora è morta in un incidente, non prendete l’autostrada.
Se la teoria di Rampolli fosse stata corretta, il suo sforzo sarebbe stato inutile: il segnale radio sarebbe giunto assieme all’onda del destino e sarebbe stato letto nel momento dell’invio, quando Leonora sarebbe stata già morta. Ma se lo sfasamento temporale tra i due pianeti non fosse dipeso dalla distanza, allora l’onda inviata sarebbe giunta a destinazione tre giorni prima di essere stata inviata (secondo il calendario di Terra2) e dall’altra parte avrebbero avuto un giorno di tempo per cambiare gli avvenimenti, cioè il destino.
Quando Giovanni lesse il messaggio, capì che la sua ipotesi era corretta.
Decise di comunicare la scoperta a Enrico: anche se non si parlavano da mezzo secolo, certamente gli avrebbe fatto piacere sapere che il suo alter-ego su Terra2 aveva avuto la possibilità di vivere tutta la vita con Leonora. Non ricevette mai risposta alla lettera.
Morì di lì a due settimane.
Meno di un mese dopo, il dieci dicembre, tutte le televisioni italiane erano sintonizzate sullo stesso canale: veniva mandata in diretta la consegna del riconoscimento scientifico più prestigioso al mondo.
Enrico aveva sognato quel momento fin da quando era ragazzo: a voler guardare il proprio animo con assoluta sincerità, non poteva negare che l’idea di vincere quel premio avesse contribuito alla foga dei suoi studi quasi quanto il desiderio di scoprire una nuova verità sull’universo. Negli anni aveva anche temuto di esser stato in qualche modo dimenticato: molti nomi si erano innestati nella sua teoria grazie a nuovi teoremi e a nuove congetture. Naturalmente aveva continuato a fare ricerca negli anni, ma non poteva negare che le nuove generazioni riuscivano a concepire idee che faticava a comprendere; da rivoluzionario quale era stato in gioventù, si era lentamente trasformato in uno scettico per quello che riguardava ogni novità.
Ma ormai era fatta: la comunicazione gli era arrivata in ottobre via posta (il comitato usava ancora quell’antiquato sistema di comunicazione) e lui aveva bagnato quel foglio di congratulazioni con le lacrime di una delle più grandi soddisfazioni della sua vita. Come avrebbe voluto che Leonora fosse stata lì con lui a festeggiare. Lei era rimasta la sua musa per tutti quegli anni: quando aveva dei dubbi era a lei che si rivolgeva. Le parlava a voce alta e immaginava quali risposte avrebbe potuto dargli. I suoi colleghi, vedendolo spesso parlare da solo, avevano temuto che fosse diventato schizofrenico.
Il giorno seguente gli era stata recapitata un’altra lettera. Aveva letto in quelle righe la più grande delusione della propria vita ma, allo stesso tempo, era stata la notizia più lieta che avesse mai ricevuto.
La sala era gremita di persone. Enrico si alzò come da cerimoniale: aveva ormai ottantacinque anni e non sembrava per nulla emozionato; lo sguardo, però, era felice e un commosso sorriso gli addolciva il volto. Il re di Svezia gli si avvicinò con in mano il cofanetto aperto contenente la medaglia. Quello che la gente non sapeva era che la sua felicità non era per se stesso, ma per Enrico2, il suo gemello lontano venticinque anni luce.
Quella sera, davanti al mondo intero, Enrico rifiutò il premio Nobel: accettarlo avrebbe significato preferire la teoria del destino a Leonora.
L’agenzia spaziale internazionale, dopo esser riuscita a portare un gruppo di uomini e donne su Marte, aveva optato per sospendere le missioni spaziali. Il suolo del pianeta rosso era stato calpestato cinquant’anni prima, ma la morte dell’intero equipaggio aveva fatto perdere ogni speranza e ogni interesse verso quel tipo di missione. Avrebbero dovuto costruire una civiltà sotto la superficie di Marte, ma il corpo umano degli astronauti non si era abituato a una forza di gravità ridotta a un terzo di quella in cui si era evoluto: la fine era stata inevitabile. I nomi degli astronauti che si erano offerti per quell’avventura senza ritorno erano stati dimenticati dopo un paio di generazioni.
Non era stata solo la perdita di vite umane a limitare le missioni spaziali successive: erano i finanziamenti il vero problema. Ritentare una missione per colonizzare Marte, o magari per andare alla ricerca di altri pianeti, era qualcosa di inaffrontabile dal punto di vista economico. Qualcuno giudicò che sarebbe stato immorale spendere miliardi per imprese del genere piuttosto che utilizzarli per riequilibrare un mondo che ormai vedeva il cinque per cento della popolazione sfruttare il novanta per cento delle risorse. Si era scelto quindi di dirottare tutti gli sforzi nell’invio di segnali nello spazio, nella speranza di ricevere, un giorno, una risposta.
Quel giorno arrivò: venticinque anni dopo l’invio del segnale, che consisteva nella sequenza dei cinque più piccoli numeri primi, due, tre, cinque, sette e undici, le antenne dei satelliti ricevettero un messaggio. L’informazione letta corrispondeva a quella inviata: cinque numeri primi in sequenza partendo da due.
Gli scienziati ne dedussero che la risposta doveva provenire da un pianeta distante: espressa in anni luce, la metà degli anni intercorsi tra l’invio e la ricezione. Il segnale aveva quindi impiegato dodici anni e mezzo a raggiungere il pianeta, era stato riflesso e in altri dodici anni e mezzo era tornato fino a noi.
Quello che all’inizio gli scienziati non riuscirono a spiegare era perché, quando spedivano un nuovo segnale, questo giungeva identico dopo venticinque anni alle loro antenne, mentre era chiaro che le risposte giungevano dopo cinquanta. Per un paio di secoli dedussero che le onde inviate venivano parzialmente riflesse da qualche oggetto nello spazio e non se ne curarono particolarmente.
Si decise di intraprendere un dialogo con l’altro pianeta. Ci volle moltissimo tempo per realizzare un alfabeto comprensibile a entrambi, giacché, per ricevere una risposta, era necessario attendere mezzo secolo. Presto scoprirono che la comunicazione era molto più semplice di quanto avessero temuto.
Un giorno, improvvisamente, capirono. L’ultimo messaggio dava le coordinate in cui era situato il nostro pianeta e chiedeva quelle del loro; tutto sarebbe stato possibile attraverso un complicato sistema di triangolazioni astronomiche. Non c’era nessun corpo che riflettesse i nostri segnali; Terra2, così era stato battezzato quel pianeta, non rispediva indietro i nostri messaggi, ma ne spediva di identici appena i nostri lo avevano raggiunto.
Nei secoli successivi si capì come stavano le cose: Terra2 era esattamente identico a noi. Lo era in ogni particolare, non solo dal punto di vista morfologico e chimico: vi abitavano le stesse persone, con gli stessi nomi; erano accaduti i medesimi eventi storici, le stesse guerre, gli stessi genocidi. Inizialmente, leggendo la loro storia, eravamo rimasti inorriditi dalla crudeltà della loro società, poi, quando capimmo che erano una nostra immagine riflessa, ci facemmo molto più comprensivi.
L’unica cosa che sembrava essere diversa era che gli avvenimenti accadevano con venticinque anni di ritardo. Se da noi avevamo festeggiato l’inizio del 3095, loro avevano festeggiato quello del 3070. Naturalmente anche inviando un messaggio per predire cosa sarebbe loro successo venticinque anni dopo, il tempo impiegato dall’onda luminosa per raggiungerli lo avrebbe reso del tutto inutile: il fatto sarebbe accaduto nell’istante d’arrivo. In un certo senso, le cose accadevano nello stesso momento.
Era come se ci fosse una lama che tagliava l’universo alla velocità di trecentomila chilometri al secondo e che decideva tutto. Sapevamo quale sarebbe stato il loro destino, poiché era identico al nostro, ma eravamo anche coscienti di non poterli informare in tempo.
In un anno che poi sarebbe stato ribattezzato come miracoloso, un fisico italiano teorizzò un’ardita unione tra la fisica e la spiritualità. Il Dottor Enrico Rampolli aveva postulato che il destino fosse un’onda che si propagava nell’universo alla velocità della luce. L’idea sembrava assolutamente perfetta: nella teoria della relatività la velocità della luce è un invariante, ovvero ha lo stesso valore per tutti i sistemi di riferimento; così il destino era lo stesso per tutti i mondi con i quali veniva in contatto. Naturalmente ci volle molto tempo perché venisse completata: nei decenni seguenti la maggior parte dei fisici avrebbe dedicato il proprio dottorato e le proprie ricerche alle questioni cruciali: che tipo di onda era? Poteva essere rifratta? Risentiva della curvatura dello spazio-tempo? Perché alcuni pianeti seguivano un destino e altri no? Era un effetto di risonanza? E, infine, quanti destini esistono? Sono infiniti oppure finiti?
Molti optarono per un numero finito giacché, argomentavano, il numero dei pianeti dell’universo è finito e non avrebbe avuto quindi senso avere infiniti destini: un numero infinito di essi sarebbe rimasto inutilizzato. Altri controbatterono con la teoria dell’universo a fisarmonica: i dati più recenti sembravano confermare che la densità media dell’universo superava il valore critico e che quindi, un giorno, l’universo avrebbe smesso di espandersi per invertire il proprio moto; divenuto un punto infinitesimale, avrebbe poi ricominciato a espandersi ripetendo il ciclo all’infinito. Ogni ciclo avrebbe avuto i suoi destini.
Altri invece sostennero solo parzialmente questa ipotesi: ogni ciclo doveva avere i medesimi destini del precedente e coniarono quindi l’idea del destino dei destini. La teoria degli universi paralleli portò al concetto del destino del destino dei destini.
La maggior parte dei teologi commentò che il destino del destino dei destini era semplicemente Dio. Altri, invece, risero della teoria: citarono Milton, che in quei tempi era considerato un vero e proprio profeta. Secondo loro, (Paradiso perduto, 8-75 e seg.): Egli ha lasciato la fabbrica del cielo a quelle loro dispute, forse per poter ridere, in seguito, di quelle loro opinioni così improbabili e strane, quand’essi arriveranno a modellare il cielo e calcolare le stelle.
Qualche teologo trovò blasfema l’idea che Cristo fosse disceso su due pianeti: quello vero poteva essere solo il nostro, giacché il Messia non avrebbe potuto trovarsi in due posti contemporaneamente; altri affermarono che tale critica era assurda, poiché il Cristo poteva tutto; altri ancora, invece, lo lodarono con una fede rinnovata per essersi sacrificato due volte.
Pochi furono gli oppositori della nuova teoria e per lo più vennero tacciati di essere conservatori dalla mentalità ristretta. Venivano additati come antidestinisti coloro che ancora negavano l’esistenza del destino.
Giovanni Colli era uno di loro. Non voleva accettare quella teoria: se era vero che Terra2 aveva il nostro medesimo sviluppo in ogni particolare, allora probabilmente anche noi eravamo il destino differito di un altro pianeta. Giovanni non poteva concordare con questa visione del mondo; gli sembrava che in questo modo ci fosse in realtà qualcun altro che prendeva le decisioni per lui e di essere, in sostanza, niente di più che un clone.
Decise allora di studiare più a fondo possibile quella teoria dedicandovi prima il dottorato e, in seguito, la breve carriera di ricercatore.
Il Dottor Rampolli era invece diventato una vera e propria celebrità. La sua teoria del destino aveva colpito l’opinione pubblica come la relatività di Einstein molti secoli prima, e ora si dedicava all’attività di conferenziere nelle più prestigiose università del mondo.
Enrico e Giovanni si conoscevano dai tempi dell’università: si erano incontrati a un corso semestrale di teoria dei campi e, da allora, si erano frequentati sempre più. Si ritrovavano la sera per discutere delle teorie dominanti nel mondo della fisica e, entrambi brillanti, ideavano esperimenti mentali per verificare o confutare le nuove ipotesi. Enrico era più intuitivo, mentre la forza di Giovanni stava nella riflessione. Accomunati da un amore inesauribile per il sapere, avevano scoperto presto una passione comune anche per Leonora, una ragazza che studiava matematica.
«Tu che diavolo ci fai qui?», si sentì dire alle spalle Giovanni. Riconosciuta la voce, si voltò senza rispondere.
«Sì può sapere cosa ci sei venuto a fare?», ripeté l’uomo.
«Sono venuto a salutare Leonora».
«E perché non sei venuto a salutarla durante il suo funerale o la veglia funebre?».
«Avevo da fare», rispose Giovanni abbassando gli occhi.
«Lo so dov’eri il giorno che l’abbiamo seppellita, me lo hanno detto i miei collaboratori. Eri all’osservatorio a lavorare. E so anche su cosa», aggiunse.
Giovanni alzò gli occhi verso l’uomo di successo che un giorno era stato un suo compagno di studi.
«Sei un antidestinista», disse Enrico, «stai facendo di tutto per confutare la mia teoria. Mi odi a tal punto da voler distruggere un gioiello così raffinato?».
Giovanni rimase fermo davanti alla lapide; guardò il piccolo schermo che riproduceva svariate fotografie della defunta nei suoi momenti di felicità, e si allontanò lentamente.
Quando fu a una ventina di passi si girò verso l’amico di un tempo e gli chiese: «Se dovessi scegliere tra l’esattezza della tua teoria e la vita di Leonora, cosa preferiresti?».
Enrico lo guardò confuso. Non rispose.
«Spera di sbagliarti, amico mio», aggiunse Giovanni, «ché una teoria è solo una serie di simboli su un foglio di carta».
Enrico lo lasciò andare: il dolore gli impediva di trovare la forza di intraprendere una discussione su ciò che è più o meno importante nella vita.
Non si rividero più.
Cinquant’anni dopo la teoria del destino sembrava esser giunta a una formulazione conclusiva. Morta la generazione che era adulta quando era stata formulata, quella nuova la accettò senza remore, così come era sempre accaduto. Ci si oppone solo a quello che non si è conosciuto da giovani.
Enrico, negli anni, era stato insignito di premi e lauree ad honorem da tutte le più prestigiose accademie scientifiche del mondo.
Ben altra era stata la sorte di Giovanni. Scoperto il suo antidestinismo, le università non si erano più mostrate interessate ad averlo come collaboratore. In realtà non aveva mai pubblicato una vera e propria teoria che confutasse quella di Enrico; aveva scritto articoli con astrusi esperimenti mentali, nei quali mescolava confuse nozioni di filosofia e di teologia con la fisica.
Visse dando lezioni private, lavoro che, in tutta onestà, trovava avvilente. Quasi tutti gli allievi, per lo più deludenti e completamente disinteressati alla materia, sedevano al tavolo della sua cucina, completamente ignari che nel cassetto era contenuto un articolo scientifico che, secondo Giovanni, confutava il paradigma di Rampolli.
Le mamme di quegli alunni, come quelle degli altri scolari in genere, cercavano di motivare i propri figli dicendo loro che, se avessero preso un brutto voto, lo avrebbe preso anche uno studente su Terra2, e che quindi, a causa loro, un altro bambino sarebbe stato sgridato e avrebbe rischiato la bocciatura. I ragazzi rispondevano che anche noi eravamo il futuro di un altro pianeta, che in genere tutti chiamavano Terra0 anche se in realtà non era ancora stato scoperto, e che quindi non potevano scegliere, perché la decisione l’aveva già presa un altro.
A tutti quelli che gli rispondevano così, Giovanni ribatteva: «Il destino non esiste».
Ma subito replicavano: «Come no, lo ha detto Rampolli».
Come si poteva dar torto a quei ragazzi? Sarebbe stato come dire, dopo Galileo, che la Terra era al centro dell’universo; affermare, ai tempi di Newton, che non esisteva la forza di gravità; come dire, ai tempi di Maxwell, che la luce non era un’onda elettromagnetica e che il tempo e lo spazio erano assoluti anche dopo la teoria di Einstein; erano diventate dichiarazioni prive di senso. Dopo la pubblicazione della teoria tutti sapevano che cosa fosse il destino.
Giovanni aveva prenotato l’osservatorio da più di un anno: aveva fissato il giorno e l’ora e, nelle ultime settimane, aveva chiamato svariate volte per verificare che la prenotazione non fosse andata perduta.
In realtà non c’era alcun rischio: una volta che la teoria del destino era stata ufficializzata e si era capito che l’altro pianeta era di fatto una copia del nostro, si era perso l’interesse per le comunicazioni.
Ma Giovanni attendeva un messaggio molto importante: lo attendeva ormai da cinquant’anni. Rimase seduto davanti al computer per più di un’ora. Poi, finalmente, la risposta arrivò:
Leonora è viva. Grazie.
Giovanni tirò un respiro di sollievo.
Durante il suo dottorato, nel quale aveva studiato il moto di Terra2, aveva scoperto una piccola anomalia. Si era accorto, utilizzando il metodo delle perturbazioni, che l’orbita del lontano pianeta era leggermente sfasata rispetto alla nostra. Lo stesso poteva dirsi della sua stella rispetto al centro della galassia. Aveva impiegato mesi per effettuare i calcoli necessari ma, quando Leonora aveva sposato Enrico, per lo sconforto aveva abbandonato tutto. Quando però aveva saputo della sua morte, era immediatamente corso all’osservatorio e aveva rispolverato quell’ammasso di fogli ormai impolverati. Aveva ridato fiducia alla sua ipotesi e aveva scoperto che, a intervalli regolari, la distanza tra la Terra e Terra2 si riduceva. Succedeva infatti che, ogni duecentocinquant’anni, la distanza diminuisse di 3 giorni luce. Quella minuscola finestra temporale cadeva esattamente tra l’incidente e i funerali di Leonora. Ci aveva messo due intere giornate per ricontrollare i suoi calcoli, ma poi aveva spedito il messaggio:
16 novembre: Leonora è morta in un incidente, non prendete l’autostrada.
Se la teoria di Rampolli fosse stata corretta, il suo sforzo sarebbe stato inutile: il segnale radio sarebbe giunto assieme all’onda del destino e sarebbe stato letto nel momento dell’invio, quando Leonora sarebbe stata già morta. Ma se lo sfasamento temporale tra i due pianeti non fosse dipeso dalla distanza, allora l’onda inviata sarebbe giunta a destinazione tre giorni prima di essere stata inviata (secondo il calendario di Terra2) e dall’altra parte avrebbero avuto un giorno di tempo per cambiare gli avvenimenti, cioè il destino.
Quando Giovanni lesse il messaggio, capì che la sua ipotesi era corretta.
Decise di comunicare la scoperta a Enrico: anche se non si parlavano da mezzo secolo, certamente gli avrebbe fatto piacere sapere che il suo alter-ego su Terra2 aveva avuto la possibilità di vivere tutta la vita con Leonora. Non ricevette mai risposta alla lettera.
Morì di lì a due settimane.
Meno di un mese dopo, il dieci dicembre, tutte le televisioni italiane erano sintonizzate sullo stesso canale: veniva mandata in diretta la consegna del riconoscimento scientifico più prestigioso al mondo.
Enrico aveva sognato quel momento fin da quando era ragazzo: a voler guardare il proprio animo con assoluta sincerità, non poteva negare che l’idea di vincere quel premio avesse contribuito alla foga dei suoi studi quasi quanto il desiderio di scoprire una nuova verità sull’universo. Negli anni aveva anche temuto di esser stato in qualche modo dimenticato: molti nomi si erano innestati nella sua teoria grazie a nuovi teoremi e a nuove congetture. Naturalmente aveva continuato a fare ricerca negli anni, ma non poteva negare che le nuove generazioni riuscivano a concepire idee che faticava a comprendere; da rivoluzionario quale era stato in gioventù, si era lentamente trasformato in uno scettico per quello che riguardava ogni novità.
Ma ormai era fatta: la comunicazione gli era arrivata in ottobre via posta (il comitato usava ancora quell’antiquato sistema di comunicazione) e lui aveva bagnato quel foglio di congratulazioni con le lacrime di una delle più grandi soddisfazioni della sua vita. Come avrebbe voluto che Leonora fosse stata lì con lui a festeggiare. Lei era rimasta la sua musa per tutti quegli anni: quando aveva dei dubbi era a lei che si rivolgeva. Le parlava a voce alta e immaginava quali risposte avrebbe potuto dargli. I suoi colleghi, vedendolo spesso parlare da solo, avevano temuto che fosse diventato schizofrenico.
Il giorno seguente gli era stata recapitata un’altra lettera. Aveva letto in quelle righe la più grande delusione della propria vita ma, allo stesso tempo, era stata la notizia più lieta che avesse mai ricevuto.
La sala era gremita di persone. Enrico si alzò come da cerimoniale: aveva ormai ottantacinque anni e non sembrava per nulla emozionato; lo sguardo, però, era felice e un commosso sorriso gli addolciva il volto. Il re di Svezia gli si avvicinò con in mano il cofanetto aperto contenente la medaglia. Quello che la gente non sapeva era che la sua felicità non era per se stesso, ma per Enrico2, il suo gemello lontano venticinque anni luce.
Quella sera, davanti al mondo intero, Enrico rifiutò il premio Nobel: accettarlo avrebbe significato preferire la teoria del destino a Leonora.
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