ATTUALITA'
Stefano Torossi
Tirolesizzarsi
Oggi, 7 luglio 2018, dopo anni di oblio, il castello di Giulio II al borgo di Ostia Antica, finalmente restaurato, riapre al pubblico. Naturalmente ci siamo precipitati. E abbiamo fatto bene perché in una sola gita ci siamo chiariti ben tre temi che ci ronzano in testa in questi giorni: l’irresistibile tendenza verso la tirolesizzazione dei siti turistici, la damnatio memoriae spiegata con un esempio semplice e massiccio, e l’apparizione della pinsa nell’Agro Pontino.
Il castello è bello e ben tenuto. La visita guidata ci è piaciuta per quello che abbiamo visto, ma anche perché ci ha permesso di mescolarci con un gruppo di vacanzieri il cui divertimento principale ci è sembrato non fosse ammirare i massici torrioni o le profonde segrete, ma fotografarsi l’un l’altro con i caschetti gialli obbligatori in testa.
Poi siamo usciti in giro per il borgo. Certo nell’epoca in cui fu fondato, gli abitanti mica se la passavano tanto bene: dal mare gli arrivavano piuttosto spesso i pirati saraceni, per cui tutti chiusi dentro le mura di difesa a tremare per la paura; dalle paludi sotto casa gli arrivava ogni estate la malaria, per cui bambini scheletrici e adulti gialli e febbricitanti; da dentro casa gli arrivavano le corvèe di lavoro obbligatorie imposte dal papa o da qualche vescovo suo rappresentante, per cui, giù a lavorare per i padroni, portando a casa solo le briciole.
C’era poco da stare allegri. Adesso che il borgo è diventato un’attrazione turistica, le catapecchie di una volta, di cui, sotto il nuovo vestito, si intravvede comunque la laziale miseria di fondo, si sono tirolesizzate (ultimamente, a noi, come terminologia immaginifica la Crusca ci fa un baffo) ed esibiscono biciclette, fiorellini e spalliere di rampicanti che neanche in alta Val Gardena.
Invece la questione della condanna della memoria (la damnatio memoriae) non ci si era mai presentata così evidente e massiccia come su questa lapide esposta proprio davanti all’episcopio del borgo. Anche senza saper troppo il latino si capisce che questa Tutilia Rufa dichiara sul marmo (che doveva essere collocato in bella vista di fronte a un monumento importante: una tomba? un portico? un mausoleo?) che vuole dedicare l’opera a sé, a suo padre Tutilio, a sua madre Seia, e…
…e poi una manaccia sacrilega ha scalpellato via altre parole, certo un altro nome, il nome di qualcuno che doveva averla fatta grossa, molto grossa. Chiaro, la mano che ha cancellato era dello scalpellino, ma la decisione doveva essere arrivata da molto in alto. Rovinare così una lastra di marmo di Carrara, di quella bellezza e di quello spessore, che aveva viaggiato fino a quaggiù con una bella spesa, e poi era stato così ben lavorata e incisa, spendendoci un altro bel po’ di sesterzi… quel tizio doveva averla fatta grossa davvero.
Ecco, un giallo di venti secoli fa che ci piacerebbe risolvere, ma come?
Al bar di fronte all’ingresso del borgo ci hanno servito la pinsa romana (proprio così, con la “s”), entità gastronomica a noi finora del tutto sconosciuta: una schiacciata croccante ben coperta di varie verdure cotte. Ottima davvero. Ottimo anche il bar, che al nostro arrivo vibrava fin dall’esterno di un’orribile musica tecno. Bene, a una semplice richiesta: miracolo! La musica è stata spenta e così siamo riusciti a gustare la pinsa, accompagnati (solo!) dalle chiacchiere degli altri avventori e dalle cicale.
Cosa desiderare di più?
Il castello è bello e ben tenuto. La visita guidata ci è piaciuta per quello che abbiamo visto, ma anche perché ci ha permesso di mescolarci con un gruppo di vacanzieri il cui divertimento principale ci è sembrato non fosse ammirare i massici torrioni o le profonde segrete, ma fotografarsi l’un l’altro con i caschetti gialli obbligatori in testa.
Poi siamo usciti in giro per il borgo. Certo nell’epoca in cui fu fondato, gli abitanti mica se la passavano tanto bene: dal mare gli arrivavano piuttosto spesso i pirati saraceni, per cui tutti chiusi dentro le mura di difesa a tremare per la paura; dalle paludi sotto casa gli arrivava ogni estate la malaria, per cui bambini scheletrici e adulti gialli e febbricitanti; da dentro casa gli arrivavano le corvèe di lavoro obbligatorie imposte dal papa o da qualche vescovo suo rappresentante, per cui, giù a lavorare per i padroni, portando a casa solo le briciole.
C’era poco da stare allegri. Adesso che il borgo è diventato un’attrazione turistica, le catapecchie di una volta, di cui, sotto il nuovo vestito, si intravvede comunque la laziale miseria di fondo, si sono tirolesizzate (ultimamente, a noi, come terminologia immaginifica la Crusca ci fa un baffo) ed esibiscono biciclette, fiorellini e spalliere di rampicanti che neanche in alta Val Gardena.
Invece la questione della condanna della memoria (la damnatio memoriae) non ci si era mai presentata così evidente e massiccia come su questa lapide esposta proprio davanti all’episcopio del borgo. Anche senza saper troppo il latino si capisce che questa Tutilia Rufa dichiara sul marmo (che doveva essere collocato in bella vista di fronte a un monumento importante: una tomba? un portico? un mausoleo?) che vuole dedicare l’opera a sé, a suo padre Tutilio, a sua madre Seia, e…
…e poi una manaccia sacrilega ha scalpellato via altre parole, certo un altro nome, il nome di qualcuno che doveva averla fatta grossa, molto grossa. Chiaro, la mano che ha cancellato era dello scalpellino, ma la decisione doveva essere arrivata da molto in alto. Rovinare così una lastra di marmo di Carrara, di quella bellezza e di quello spessore, che aveva viaggiato fino a quaggiù con una bella spesa, e poi era stato così ben lavorata e incisa, spendendoci un altro bel po’ di sesterzi… quel tizio doveva averla fatta grossa davvero.
Ecco, un giallo di venti secoli fa che ci piacerebbe risolvere, ma come?
Al bar di fronte all’ingresso del borgo ci hanno servito la pinsa romana (proprio così, con la “s”), entità gastronomica a noi finora del tutto sconosciuta: una schiacciata croccante ben coperta di varie verdure cotte. Ottima davvero. Ottimo anche il bar, che al nostro arrivo vibrava fin dall’esterno di un’orribile musica tecno. Bene, a una semplice richiesta: miracolo! La musica è stata spenta e così siamo riusciti a gustare la pinsa, accompagnati (solo!) dalle chiacchiere degli altri avventori e dalle cicale.
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