INTERVISTE
Tommaso Pincio
Vorrei intanto che mi dicessi la tua su una notizia recente. Lo "Standard Hotel" di Manhattan, un albergo che stando ai giornali vorrebbe "caratterizzarsi per il suo profilo culturale", ha commissionato a Salman Rushdie la selezione di alcuni titoli da lasciare in ogni camera, accanto alla Bibbia, "per allietare il soggiorno degli ospiti", Nella scelta dello scrittore anglo-indiano troviamo classici come "L'urlo e il furore" di Faulkner, "Il grande Gatsby" di Fitzgerald, "Il dono di Humboldt" di Bellow, "Il lamento di Portnoy" di Roth, etc. Il frequentatore di alberghi Tommaso Pincio come reagirebbe? Non sarebbe come tarpare le ali al narratore di "Hotel a zero stelle", alla sua immaginazione?
Penso agli alberghi come a un luogo simbolico, un'immagine mentale nel quale vedo specchiato un lato importante della mia anima. Mi piace dunque che restino come li immagino, pieni di stanze senza libri fuorché la classica Bibbia nel cassetto, che però si trova perlopiù negli alberghi americani. Quella dello Standard Hotel è una simpatica trovata che però mi lascia indifferente. Forse la mia reazione sarebbe di rubare il libro qualora fosse un'edizione di mio gusto.
In questa tua erranza fra stanze reali e immaginarie ho notato l'assenza del mondo rock, pure notoriamente importante nella tua storia letteraria. Forse perché le rock-star non frequentano le bettole che sembrano affascinarti maggiormente?
Certamente le rockstar non costituiscono l'ospite tipo delle stamberghe che idealizzo in Hotel a zero stelle. Nel corso degli anni mi è capitato di incontrarne diverse per interviste e quasi tutte le volte la conversazione ha avuto luogo in alberghi più che lussuosi. Non è però questa la ragione della loro assenza. Che io sia uno scrittore rock è un'aberrazione che immagino generata dal fatto di avere scritto un romanzo dedicato a Kurt Cobain. Nei miei altri romanzi — e ne ho dati alle stampe altri quattro — il rock o è del tutto assente, vedi Lo spazio sfinito o Cinacittà, o vi compare come motivo di sfondo, ed è il caso di La ragazza che non era lei. Non voglio affatto negare le mie passioni musicali, ma solo precisare che esse non costituiscono il centro primigenio e imprescindibile del mio immaginario. Hotel a zero stelle è una sorta di piccola autobiografia spirituale nella quale racconto come da una vocazione perduta, quella della pittura, ne è scaturita un'altra ovvero, per dirla alla Wallace, come da un fallimento di gioventù sia nata una piccola vittoria della maturità o quantomeno una pacificazione dell'anima. Non per nulla nel libro parlo molto degli scrittori che mi hanno aiutato lungo il cammino e un poco anche di pittura e pittori.
Sulla frase attribuita a Balzac e poi commentata a proposito di Simenon sui bravi romanzieri che hanno spesso un cattivo rapporto con la madre. La ritieni plausibile?
Non sono in grado di confermare se la frase sia da attribuire veramente a Balzac. Malgrado gli sforzi non sono riuscito a risalire alla fonte e mi piace pertanto pensare che si tratti di una frase pescata chissà dove e che Simenon ha finito col tempo per deformare a sua immagine e somiglianza attribuendola a Balzac per pudore o magari per uno di quegli scherzi che l'inconscio spesso fa alla memoria. Ciò che essa esprime è comunque molto plausibile. La madre è all'origine di tutto. Resta ovviamente da intendersi: "cattivo rapporto" non significa necessariamente la reciproca e acerrima diffidenza che divideva Simenon dalla propria genitrice. Può bastare soltanto un rapporto morboso o non risolto per far sì che in un individuo insorgano quei conflitti affettivi che indubbiamente costituiscono la benzina di molte narrazioni.
Nell'attrazione del narratore di "Hotel a zero stelle" per l'Oriente dicevamo non manca il motivo delle donne, specie vietnamite.
Leggendoti mi è tornato in mente un titolo arcinoto, "Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore": è una domanda che passa mi pare da Goffredo Parise a Graham Green quando faticano – se capisco bene – a liquidare come puttane le ragazze vietnamite che svolgono il mestiere con una dolcezza spiazzante. Sembrerebbe quasi (è qui il recupero del titolo carveriano) un bell'esercizio per mettere a repentaglio le nostre certezze sulla natura dell'amore.
Farei una distinzione. Graham Greene era un puttaniere inveterato, tant'è che meditò più volte di aprire un bordello arrivando anche al punto di dar corso ai suoi propositi. Parise era uomo di altra pasta: aveva una concezione meno utilitaristica dell'universo femminile. Erano però attratti entrambi dal modo in cui le donne orientali esercitano il mestiere, ma qui entrano in gioco codici culturali e le vie attraverso cui i sentimenti prendono forma. Gli asiatici hanno una diversa idea dell'individuo. Non concependo l'io come perno centrale e irrinunciabile della persona non hanno la nostra stessa inclinazione a confondere in un grande calderone chiamato amore cose e sentimenti spesso in contrasto tra loro. Per essere più chiari, la loro morale non prevede il peccato così come noi lo intendiamo e la cosa ha i suoi inevitabili riflessi sul modo di considerare l'esercizio della prostituzione. Naturalmente, l'estremo oriente è un mondo vastissimo e le differenze tra un paese e l'altro possono essere abissali. Limitandosi a un generico sguardo dall'alto e per quel che un simile sguardo può valere, direi che la prostituta orientale riesce a esercitare la professione con divertita noncuranza. Ciò non significa che soffra meno, sebbene a molti uomini occidentali faccia comodo pensarlo.
Pensi si potrebbero dire cose analoghe su Bellow o Houellebecq a proposito delle ragazze thailandesi?
Non credo. La donna vietnamita ha una propensione all'amore romantico pressoché sconosciuta a quella thailandese. Peraltro la nostra visione del mondo thailandese è in buona parte confinata agli effetti determinati dal turismo sessuale, che in Vietnam non esiste o perlomeno non viene esercitato in termini altrettanto espliciti. Giusto per rimanere in tema di alberghi, la legge vietnamita proibisce che un uomo occidentale prenda una stanza insieme a un'indigena in assenza di una relazione chiara. Al tempo stesso, è abbastanza significativo che per sposare una vietnamita sia richiesto un certificato di sanità mentale. Venendo ai due autori che nomini, ho la sensazione che, soprattutto per quanto concerne Houellebecq, le ragazze orientali non costituiscano il vero oggetto delle loro attenzioni ma semplicemente un pretesto, la cartina di tornasole per meglio mostrare aspetti dell'abiezione di noi occidentali.
Importante nel tuo libro il tema dell'impostura. Ricordi la domanda che Foster Wallace rivolge a se stesso, se voglia davvero essere una brava persona o soltanto sembrarla. In fondo questa roba c'è tutta nella tradizione italiana antiaccademica del primo novecento. Prima che a Pirandello, penserei a "La Coscienza di Zeno" che è uno dei pochi libri che possiamo confrontare con – e uso il termine solo per comodità – il canone europeo di quel periodo. O in DFW c'è dell'altro?
Se ricordo bene David Foster Wallace scrisse quella frase in margine a una lunga riflessione su Dostoevkij. Possiamo dunque considerarla un retaggio del canone europeo. A questo proposito me ne viene in mente anche una di Simone Weil la cui esistenza fu spesa tra il Nuovo e il Vecchio Mondo: "L'uomo intelligente che va fiero della propria intelligenza è come un condannato che va fiero dell'ampiezza della propria cella". È un pensiero che sarebbe stato benissimo in testa a Wallace. Quel che voglio dire è che non credo a una geografia o un canone dell'impostura. Si tratta di una tipica ossessione della mente depressa, attenente a quello speciale tipo di eccesso di consapevolezza con cui spesso gli scrittori di ogni tempo e paese debbono fare i conti.
Ecco, i lettori ti conoscono per la tua formazione chiaramente "americana". Influenze e interessi dalla nostra storia letteraria invece?
La faccenda della mia formazione americana è sopravvalutata o perlomeno non tiene conto di richiami, talvolta anche involontari ma forse proprio per questo ancor più significativi, alla nostra letteratura o meglio a un modo di vedere molto italiano. Lo spazio sfinito mette in scena un teatrino con figuranti sfacciatamente americani — Marilyn, Kerouac, la Coca-Cola e via dicendo — ma in sottotraccia si muove anche altro. La situazione in cui si trova il protagonista, ovvero il ritrovarsi a orbitare intorno al pianeta Terra in un'eterna contemplazione del nulla, è molto simile a quella proposta da Landolfi in Cancroregina. Marcatamente italiana è poi l'atmosfera fiabesca, trasognata, in cui la storia prende forma trasfigurando miti e icone del mondo reale. Come ho spiegato più volte, l'innegabile influenza che letteratura e cultura americane hanno esercitato su di me è dovuta alla lunga frequentazione di quel paese per ragioni che non avevano a che fare con lo scrivere. Poco più che ventenne mi impiegai presso una galleria d'arte newyorchese, un'esperienza protrattasi per quasi due decenni che mi ha segnato moltissimo. Ma non venivo dal nulla. Letture italiane ne avevo già fatte, ovviamente. E anche di queste è rimasto qualcosa. Le influenze e gli interessi sono quelli che si possono immaginare. Landolfi, Buzzati, il Brancati più malinconico e visionario. Ho amato molto Gadda, e non soltanto quello del Pasticciaccio. E poi Leopardi, Dante. I soli noti, insomma. A parte i sonetti del Belli, ma qui entra in gioco la romanità.
E tutto questo – compreso il lavoro di traduzione – che cosa ha implicato nella ricerca di una tua lingua peculiare?
La lingua di un narratore è in continua evoluzione. Muta a seconda del libro su cui si sta lavorando. Conta moltissimo l'ambientazione, ma anche il punto di vista. La confessione nevrotica di un romanzo come Cinacittà impone un registro più svaccato, per così dire, dell'occhio anonimo che osserva dall'esterno le disavventure di Homer Alienson in Un amore dell'altro mondo. Il lavoro di traduzione è una palestra utilissima perché impone una costante ricerca del migliore compromesso possibile. E la lingua cui tende un narratore dovrebbe essere proprio questo: il migliore compromesso possibile tra l'idioma esclusivo e personalissimo in cui egli scriverebbe se tutti fossero come lui e il cicaleccio assordante del mondo e del tempo in cui si trova costretto a vivere.
Penso agli alberghi come a un luogo simbolico, un'immagine mentale nel quale vedo specchiato un lato importante della mia anima. Mi piace dunque che restino come li immagino, pieni di stanze senza libri fuorché la classica Bibbia nel cassetto, che però si trova perlopiù negli alberghi americani. Quella dello Standard Hotel è una simpatica trovata che però mi lascia indifferente. Forse la mia reazione sarebbe di rubare il libro qualora fosse un'edizione di mio gusto.
In questa tua erranza fra stanze reali e immaginarie ho notato l'assenza del mondo rock, pure notoriamente importante nella tua storia letteraria. Forse perché le rock-star non frequentano le bettole che sembrano affascinarti maggiormente?
Certamente le rockstar non costituiscono l'ospite tipo delle stamberghe che idealizzo in Hotel a zero stelle. Nel corso degli anni mi è capitato di incontrarne diverse per interviste e quasi tutte le volte la conversazione ha avuto luogo in alberghi più che lussuosi. Non è però questa la ragione della loro assenza. Che io sia uno scrittore rock è un'aberrazione che immagino generata dal fatto di avere scritto un romanzo dedicato a Kurt Cobain. Nei miei altri romanzi — e ne ho dati alle stampe altri quattro — il rock o è del tutto assente, vedi Lo spazio sfinito o Cinacittà, o vi compare come motivo di sfondo, ed è il caso di La ragazza che non era lei. Non voglio affatto negare le mie passioni musicali, ma solo precisare che esse non costituiscono il centro primigenio e imprescindibile del mio immaginario. Hotel a zero stelle è una sorta di piccola autobiografia spirituale nella quale racconto come da una vocazione perduta, quella della pittura, ne è scaturita un'altra ovvero, per dirla alla Wallace, come da un fallimento di gioventù sia nata una piccola vittoria della maturità o quantomeno una pacificazione dell'anima. Non per nulla nel libro parlo molto degli scrittori che mi hanno aiutato lungo il cammino e un poco anche di pittura e pittori.
Sulla frase attribuita a Balzac e poi commentata a proposito di Simenon sui bravi romanzieri che hanno spesso un cattivo rapporto con la madre. La ritieni plausibile?
Non sono in grado di confermare se la frase sia da attribuire veramente a Balzac. Malgrado gli sforzi non sono riuscito a risalire alla fonte e mi piace pertanto pensare che si tratti di una frase pescata chissà dove e che Simenon ha finito col tempo per deformare a sua immagine e somiglianza attribuendola a Balzac per pudore o magari per uno di quegli scherzi che l'inconscio spesso fa alla memoria. Ciò che essa esprime è comunque molto plausibile. La madre è all'origine di tutto. Resta ovviamente da intendersi: "cattivo rapporto" non significa necessariamente la reciproca e acerrima diffidenza che divideva Simenon dalla propria genitrice. Può bastare soltanto un rapporto morboso o non risolto per far sì che in un individuo insorgano quei conflitti affettivi che indubbiamente costituiscono la benzina di molte narrazioni.
Nell'attrazione del narratore di "Hotel a zero stelle" per l'Oriente dicevamo non manca il motivo delle donne, specie vietnamite.
Leggendoti mi è tornato in mente un titolo arcinoto, "Di che cosa parliamo quando parliamo d'amore": è una domanda che passa mi pare da Goffredo Parise a Graham Green quando faticano – se capisco bene – a liquidare come puttane le ragazze vietnamite che svolgono il mestiere con una dolcezza spiazzante. Sembrerebbe quasi (è qui il recupero del titolo carveriano) un bell'esercizio per mettere a repentaglio le nostre certezze sulla natura dell'amore.
Farei una distinzione. Graham Greene era un puttaniere inveterato, tant'è che meditò più volte di aprire un bordello arrivando anche al punto di dar corso ai suoi propositi. Parise era uomo di altra pasta: aveva una concezione meno utilitaristica dell'universo femminile. Erano però attratti entrambi dal modo in cui le donne orientali esercitano il mestiere, ma qui entrano in gioco codici culturali e le vie attraverso cui i sentimenti prendono forma. Gli asiatici hanno una diversa idea dell'individuo. Non concependo l'io come perno centrale e irrinunciabile della persona non hanno la nostra stessa inclinazione a confondere in un grande calderone chiamato amore cose e sentimenti spesso in contrasto tra loro. Per essere più chiari, la loro morale non prevede il peccato così come noi lo intendiamo e la cosa ha i suoi inevitabili riflessi sul modo di considerare l'esercizio della prostituzione. Naturalmente, l'estremo oriente è un mondo vastissimo e le differenze tra un paese e l'altro possono essere abissali. Limitandosi a un generico sguardo dall'alto e per quel che un simile sguardo può valere, direi che la prostituta orientale riesce a esercitare la professione con divertita noncuranza. Ciò non significa che soffra meno, sebbene a molti uomini occidentali faccia comodo pensarlo.
Pensi si potrebbero dire cose analoghe su Bellow o Houellebecq a proposito delle ragazze thailandesi?
Non credo. La donna vietnamita ha una propensione all'amore romantico pressoché sconosciuta a quella thailandese. Peraltro la nostra visione del mondo thailandese è in buona parte confinata agli effetti determinati dal turismo sessuale, che in Vietnam non esiste o perlomeno non viene esercitato in termini altrettanto espliciti. Giusto per rimanere in tema di alberghi, la legge vietnamita proibisce che un uomo occidentale prenda una stanza insieme a un'indigena in assenza di una relazione chiara. Al tempo stesso, è abbastanza significativo che per sposare una vietnamita sia richiesto un certificato di sanità mentale. Venendo ai due autori che nomini, ho la sensazione che, soprattutto per quanto concerne Houellebecq, le ragazze orientali non costituiscano il vero oggetto delle loro attenzioni ma semplicemente un pretesto, la cartina di tornasole per meglio mostrare aspetti dell'abiezione di noi occidentali.
Importante nel tuo libro il tema dell'impostura. Ricordi la domanda che Foster Wallace rivolge a se stesso, se voglia davvero essere una brava persona o soltanto sembrarla. In fondo questa roba c'è tutta nella tradizione italiana antiaccademica del primo novecento. Prima che a Pirandello, penserei a "La Coscienza di Zeno" che è uno dei pochi libri che possiamo confrontare con – e uso il termine solo per comodità – il canone europeo di quel periodo. O in DFW c'è dell'altro?
Se ricordo bene David Foster Wallace scrisse quella frase in margine a una lunga riflessione su Dostoevkij. Possiamo dunque considerarla un retaggio del canone europeo. A questo proposito me ne viene in mente anche una di Simone Weil la cui esistenza fu spesa tra il Nuovo e il Vecchio Mondo: "L'uomo intelligente che va fiero della propria intelligenza è come un condannato che va fiero dell'ampiezza della propria cella". È un pensiero che sarebbe stato benissimo in testa a Wallace. Quel che voglio dire è che non credo a una geografia o un canone dell'impostura. Si tratta di una tipica ossessione della mente depressa, attenente a quello speciale tipo di eccesso di consapevolezza con cui spesso gli scrittori di ogni tempo e paese debbono fare i conti.
Ecco, i lettori ti conoscono per la tua formazione chiaramente "americana". Influenze e interessi dalla nostra storia letteraria invece?
La faccenda della mia formazione americana è sopravvalutata o perlomeno non tiene conto di richiami, talvolta anche involontari ma forse proprio per questo ancor più significativi, alla nostra letteratura o meglio a un modo di vedere molto italiano. Lo spazio sfinito mette in scena un teatrino con figuranti sfacciatamente americani — Marilyn, Kerouac, la Coca-Cola e via dicendo — ma in sottotraccia si muove anche altro. La situazione in cui si trova il protagonista, ovvero il ritrovarsi a orbitare intorno al pianeta Terra in un'eterna contemplazione del nulla, è molto simile a quella proposta da Landolfi in Cancroregina. Marcatamente italiana è poi l'atmosfera fiabesca, trasognata, in cui la storia prende forma trasfigurando miti e icone del mondo reale. Come ho spiegato più volte, l'innegabile influenza che letteratura e cultura americane hanno esercitato su di me è dovuta alla lunga frequentazione di quel paese per ragioni che non avevano a che fare con lo scrivere. Poco più che ventenne mi impiegai presso una galleria d'arte newyorchese, un'esperienza protrattasi per quasi due decenni che mi ha segnato moltissimo. Ma non venivo dal nulla. Letture italiane ne avevo già fatte, ovviamente. E anche di queste è rimasto qualcosa. Le influenze e gli interessi sono quelli che si possono immaginare. Landolfi, Buzzati, il Brancati più malinconico e visionario. Ho amato molto Gadda, e non soltanto quello del Pasticciaccio. E poi Leopardi, Dante. I soli noti, insomma. A parte i sonetti del Belli, ma qui entra in gioco la romanità.
E tutto questo – compreso il lavoro di traduzione – che cosa ha implicato nella ricerca di una tua lingua peculiare?
La lingua di un narratore è in continua evoluzione. Muta a seconda del libro su cui si sta lavorando. Conta moltissimo l'ambientazione, ma anche il punto di vista. La confessione nevrotica di un romanzo come Cinacittà impone un registro più svaccato, per così dire, dell'occhio anonimo che osserva dall'esterno le disavventure di Homer Alienson in Un amore dell'altro mondo. Il lavoro di traduzione è una palestra utilissima perché impone una costante ricerca del migliore compromesso possibile. E la lingua cui tende un narratore dovrebbe essere proprio questo: il migliore compromesso possibile tra l'idioma esclusivo e personalissimo in cui egli scriverebbe se tutti fossero come lui e il cicaleccio assordante del mondo e del tempo in cui si trova costretto a vivere.
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