CINEMA E MUSICA
Adriano Angelini Sut
Toto XIV è la dimostrazione che i Toto sono immortali. Nonostante la sfiga che li perseguita.
La maledizione dei Toto continua. Dei sette membri della band originale formatasi negli anni'70, tre sono morti. Due sono i fratelli Porcaro, Jeff e Mike, morti a distanza di quindici anni. Mike è deceduto nel marzo di quest'anno. La band di Los Angeles tuttavia non ha mai demorso. Dopo Toto IV, album sontuoso che li ha consacrati nella storia di sempre del rock, e col quale hanno vinto tre dischi di platino, il cantante Bobby Kimball venne accusato di droga e nel 1984 la band lo mandò via, nonostante venne poi assolto. Eravamo nel 1982. I Toto persero anche il bassista David Hungate. Per fortuna che la casa discografica voleva stracciare il loro contratto perché Turn Back, anno 1981, l'altro sontuoso album precedente a Toto IV, era stato un flop commerciale. A 9 anni di distanza dall'ultimo, deludente album, Falling in Between, il gruppo torna a sfornare un capolavoro assoluto che la critica di tutto il mondo ha già incensato. Si chiama The XIV e ha il marchio di fabbrica dei Toto più creativi ed eclettici.
Undici pezzi di cui è quasi impossibile parlare. Andrebbe consigliato l'ascolto e il silenzio. C'è poco da dire. Running out of Time apre le danze come sapevano fare negli anni'70. Le chitarre ululano. La voce di Steve Lukather, che non ha mai fatto rimpiangere Kimball, è feroce. Il rock è mimetico, dolcissimo, melodico. Burn è una splendida ballata di tastiere e batteria che sale quasi epica. Holy War è come risentire quel capolavoro (lo ripeto, un capolavoro, forse il loro album più bello a parare di chi scrive) che era Turn Back; quello che non aveva venduto abbastanza. Non sembra esserci tregua, il loro rock è un panzer sofisticato. Ma anche un blues un po' suonato; 21first Century Blues si rifà il verso. Giocoso e canterino. “How can we believe the world is round”, dice il ritornello. Come credere che il mondo sia rotondo? Come credere che facciano ancora musica così alta?
Orphan ti spiazza. Esce come primo singolo e non fai nemmeno in tempo che già t'è rimasta in testa. C'è tutto il loro repertorio migliore di assoli e schitarrate, di pezzi costruiti con elaborate geometrie sonore. Unknown Soldier è un lento ballatone strappalacrime. Bellissimo, d'altri tempi, cinematografico, passionale. Quanti di voi sapevano che alcuni dei componenti dei Toto hanno suonato in Thriller di Michael Jackson? Ecco, la loro capacità musicale e strumentistica credo abbia pochi uguali ancora oggi. The Little Things è un'altra dolcissima serenata d'America (dove la voce di Lukather in certi momenti va pericolosamente a sfiorare quella di Michael Jackson, appunto).
Chinatown è un uggiolio simpatico, un'elaborata 'canzonetta' che cambia genere in meno di trenta secondi, passa dal blues al rock al soul al funky come se gli strumentisti fossero computer posseduti da uno strano virus elettronico. All The Tears That Shine è un'altra ballata imponente. Splende in un firmamento di piccoli momenti, promesse mai mantenute. Fortune fa ripartire le danze. Quasi un funky rock dove Lukather arriva ad altezze vocali perforanti (come del resto in tutto l'album). Si chiude con Great Expectations che probabilmente è il brano più riuscito: il più difficile, il più concept. Anche qui, non basta loro un solo genere; rock, jazz e funky si fondono nello stesso momento. Chissà se li avrà ispirati Dickens, di certo, non li ha deteriorati la sfiga con cui hanno dovuto fare i conti in questi anni. Come per esempio dopo la morte dell'altro vocalist, Fergie Frederiksen, che aveva cantato in Isolation del 1985, altro album ingiustamente considerato minore ma che vanta capolavori come 'Till The End e I'll be Over You. Nel 1997, Kimball era tornato all'ovile e lui e Steve Porcaro si erano imbarcati in una reunion della band originale che aveva prodotto due discreti album, The XX e Mindfields. Poi una nuova scissione, la rottura che pareva definitiva del 2008 e adesso eccoli qui. Più battaglieri che mai. Li aspettiamo a Roma, a luglio, all'Auditorium Parco della Musica. Per veri cultori.
The XIV – Toto
2015 Frontiers Records
Undici pezzi di cui è quasi impossibile parlare. Andrebbe consigliato l'ascolto e il silenzio. C'è poco da dire. Running out of Time apre le danze come sapevano fare negli anni'70. Le chitarre ululano. La voce di Steve Lukather, che non ha mai fatto rimpiangere Kimball, è feroce. Il rock è mimetico, dolcissimo, melodico. Burn è una splendida ballata di tastiere e batteria che sale quasi epica. Holy War è come risentire quel capolavoro (lo ripeto, un capolavoro, forse il loro album più bello a parare di chi scrive) che era Turn Back; quello che non aveva venduto abbastanza. Non sembra esserci tregua, il loro rock è un panzer sofisticato. Ma anche un blues un po' suonato; 21first Century Blues si rifà il verso. Giocoso e canterino. “How can we believe the world is round”, dice il ritornello. Come credere che il mondo sia rotondo? Come credere che facciano ancora musica così alta?
Orphan ti spiazza. Esce come primo singolo e non fai nemmeno in tempo che già t'è rimasta in testa. C'è tutto il loro repertorio migliore di assoli e schitarrate, di pezzi costruiti con elaborate geometrie sonore. Unknown Soldier è un lento ballatone strappalacrime. Bellissimo, d'altri tempi, cinematografico, passionale. Quanti di voi sapevano che alcuni dei componenti dei Toto hanno suonato in Thriller di Michael Jackson? Ecco, la loro capacità musicale e strumentistica credo abbia pochi uguali ancora oggi. The Little Things è un'altra dolcissima serenata d'America (dove la voce di Lukather in certi momenti va pericolosamente a sfiorare quella di Michael Jackson, appunto).
Chinatown è un uggiolio simpatico, un'elaborata 'canzonetta' che cambia genere in meno di trenta secondi, passa dal blues al rock al soul al funky come se gli strumentisti fossero computer posseduti da uno strano virus elettronico. All The Tears That Shine è un'altra ballata imponente. Splende in un firmamento di piccoli momenti, promesse mai mantenute. Fortune fa ripartire le danze. Quasi un funky rock dove Lukather arriva ad altezze vocali perforanti (come del resto in tutto l'album). Si chiude con Great Expectations che probabilmente è il brano più riuscito: il più difficile, il più concept. Anche qui, non basta loro un solo genere; rock, jazz e funky si fondono nello stesso momento. Chissà se li avrà ispirati Dickens, di certo, non li ha deteriorati la sfiga con cui hanno dovuto fare i conti in questi anni. Come per esempio dopo la morte dell'altro vocalist, Fergie Frederiksen, che aveva cantato in Isolation del 1985, altro album ingiustamente considerato minore ma che vanta capolavori come 'Till The End e I'll be Over You. Nel 1997, Kimball era tornato all'ovile e lui e Steve Porcaro si erano imbarcati in una reunion della band originale che aveva prodotto due discreti album, The XX e Mindfields. Poi una nuova scissione, la rottura che pareva definitiva del 2008 e adesso eccoli qui. Più battaglieri che mai. Li aspettiamo a Roma, a luglio, all'Auditorium Parco della Musica. Per veri cultori.
The XIV – Toto
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