Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Attualità » Un paese speciale

Pagina dei contenuti


ATTUALITA'

Pier Paolo Di Mino

Un paese speciale

immagine
Mille anni fa (poco meno) un Ugo di San Vittore doveva lamentarsi che l'uomo aveva del tutto perso la capacità di leggere in maniera metaforica il reale: il mondo era in mano a gente che prendeva tutto alla lettera, come i matti.

Del resto, che ce ne rendiamo conto o meno, sempre dobbiamo fare ricorso ad una recuperata lettura metaforica del reale quando siamo minacciati dalla follia, individuale o collettiva, e dai vari corollari di disperazione, depressione, isteria e via dicendo.

Dopo la disgregazione dell'impero sovietico, i vari soggetti nazionali si sono trovati scoperti in un grave crisi sociale e morale, e in una ancora più grave di natura economica. La risposta a questo dramma, in molti casi, è stata di carattere culturale. In Ungheria, paese dotato di una grande e tradizionale vocazione intellettuale, la popolazione spende i pochi risparmi a disposizione e il tempo libero per visitare musei della tradizione ed etno-antropologici: gli ungheresi combattono la loro crisi finanziaria cercando di capire chi sono, allo stesso modo in cui, alle loro origini c'è l'atto volitivo di un gruppo di nomadi che decide di diventare stanziale e di adottare una cultura, la latina, in chiave universale: il loro primo scrittore si darà da sé il nome di Pannonius per continuare da magiaro la tradizione romana, e il re Corvino, in nome di questa tradizione a vocazione imperiale, darà al suo popolo una costituzione in cui è dettato il dovere all'ospitalità e alla concordia transnazionale.

Ma si pensi anche alla nascita dell'Atene democratica: e quindi alla nascita della democrazia. In un'Attica devastata dalla crisi economica e minacciata dalla sommossa generale delle classi deboli, le famiglie aristocratiche decidono di rinunciare ad alcuni privilegi e distribuirne molti altri per pacificare la polis e rinnovarla a beneficio, prima di tutto, della propria personale potenza, del proprio prestigio e della propria ricchezza. Ora le classi popolari lavoreranno in maniera più solerte e convinta di prima; le donne saranno più ubbidienti di prima; e tutto sarà più bello in questa nuova democrazia che (vorrei avanzare il dubbio) quanto a libertà e giustizia scompare decisamente nei confronti di qualsiasi società nomade delle steppe, prive come esse sono di classi sociali, gerarchie basate su alcunché, (capirai la differenza di sesso), e in cui tutto è deciso in collegi presieduti dal più anziano.

Insomma voglio dire che Atene, quanto a democrazia, ha molto da imparare dal campo nomadi vicino a casa mia, ma il campo nomadi vicino a casa mia ha molto da imparare in quanto a letteratura: è questo fa un'enorme differenza.

Potremmo moltiplicare i casi all'infinito: i cinesi che scoprono nelle zone più remote della loro civiltà biondi in tartan; i giapponesi che tutti i giorni si devono ripetere che non è vero che sono stati per mille anni servi dei coreani; e poi la questione rumena, francese, sassone. E, insomma, lo sappiamo tutti: la nostra identità è una questione unicamente letteraria.

Lo sappiamo tutti, perché sappiamo tutti che da più di duemila anni le fantasie letterarie di diversi invasati e poeti, riscritte a tradizione da geniali editori quali sono i redattori della Bibbia, hanno condizionato i nostri gusti alimentari e sessuali; i nostri comportamenti sociali e le nostre idee politiche; e, soprattutto, hanno dato un robusto senso e una millenaria missione alla nostra vocazione al monomaniacale, istradandoci sulla via dell'intolleranza militante e dell'eccidio continuato.

Noi siamo la nostra letteratura, e, detto questo, veniamo a noi: dico a noi italiani.

Pare che l'Italia sia, al postutto, quel paese che qualsiasi persona nata dopo il 1970 sogna di abbandonare come una nave che affonda, magari dopo avergli dato fuoco; e io voglio chiederlo in maniera forse più accorata che provocatoria: è veramente impossibile trovare una nuova chiave immaginale, un soluzione retorica e letteraria all'estinzione italiana che non sia, per dire, l'invenzione di quel improbabile popolo padano che il povero Miglio plagiò in maniera confusa da un brutto romanzo di Gibson? O quello, ancora più diffuso, dell'Italia come terra del rutto libero e della scoreggia in libertà?

L'Italia, dopo essere stata fino alla fine degli anni Ottanta una potenza di medio livello del Mediterraneo, o per dirla in altro modo, uno dei più prestigiosi e progrediti paesi del Terzo Mondo, da venti anni precipita vertiginosamente, giorno dopo giorno, in un baratro di disagio e instabilità economica, sociale, politica e culturale.

Nella percezioni delle altre nazioni l'Italia è un paese del tutto squalificato: povero, mafioso, corrotto, instabile, la cui popolazione, mantenuta in uno stato di ignoranza piuttosto grave (con picchi di considerevole analfabetismo reale in alcune sue regioni), è inerme. Questa percezione alimenta la fantasia dell'italiano come ladruncolo grottesco; del goffo furbetto che finisce sempre per essere fregato; dell'italiano vanamente intrigante e via dicendo.

Questa immagine nasce sicuramente dopo il Rinascimento, quando l'Occidente inclina il proprio asse verso nord, e si dota di un carattere protestante; abbandona la fantasia greca e politeista del cattolicesimo romano per votarsi a quella ebraica e monomaniacale di Lutero. Viene bollata come falsa, vana, se non folle tutta l'elaborazione culturale quale si raccolse nelle immaginifiche opere di Ficino, Bruno, Michelangelo e amici cari, e si puntò il dito contro l'aspetto deleterio della piccola Italia divisa, in cui ogni città si combatte contro l'altra a colpi bassi; contro la corruzione politica e, soprattutto, quella sessuale delle nostri corti quale i buoni luterani, con quegli occhi torvi da profeti infelici che hanno, non potevano proprio tollerare. L'Italia era la terra dove i romani avevano inventato il Diritto e dove ora un Cepola scriveva le Cautelae utilissimae, ossia un manuale per raggirare la giustizia.

Questa immagine bisogna dire che pochi italiani si sono ingegnati di smentirla; e se un Leopardi, pieno di vergogna per lo stato in cui l'amata Patria s'era ridotta, sperava di salvarla ridandogli unità e indipendenza, si sbagliava di grosso.

Il nostro Risorgimento, disse bene Gobetti, è stato un risorgimento senza eroi: L'Italia non si sa chi la volle, ma si sa che se la tenne un re ignorante, con tare intellettuali, che non ne parlava la lingua, e che la disprezzava al punto che, incoronato Primo re d'Italia volle rimanere Vittorio Emanuele, Secondo del suo bel regno piemontese. Ed ecco l'Italia del migliore offerente e dei giani bifronti: Crispi, Giolitti, Mussolini, Togliatti, Andreotti, Moro. Fino al capolavoro: Berlusconi.

Bene. Questa è l'immagine dell'Italia quale, in maniera più o meno uniforme, si è stratificata nei secoli, e quale gli ultimi venti anni, nella loro grottesca disperazione, hanno esaltato: come uscirne fuori? Con quale parole raccontare di nuovo la nostra realtà?

Io una soluzione ce l'avrei. Ma certo ci vuole vero coraggio e piacere per le idee. Ardimento, e contorcimento, perché più ci penso è più mi è chiaro che lo sforzo della nostra generazione dovrebbe essere quello di leggere il nostro paese invivibile e incivile come un paese che è anormale perché è speciale.

Certo, mi è piovuta in testa questa idea, che noi siamo un paese speciale perché a vivere da bestie come viviamo lo facciamo apposta, per aiutare gli altri; che data certa innata vocazione all'universale; data certa tradizione culturale, la nostra è una grande performance letteraria, in chiave satirica, in cui col nostro comportamento additiamo il male di tutto l'occidente.

Noi siamo un paese speciale, potremmo inventarci, perché nel Bel Paese è rimasto vivo lo spirito del Rinascimento, prima di tutto nell'uso socratico dell'ironia; un'ironia che il nostro popolo, potremmo scrivere in quale libro, "usa programmaticamente per mettere sotto la lente di ingrandimento della caricatura tutti quei miti dell'Occidente che, nati in terra italiana, il Potere, il Diritto, la Religione Cristiana e anche la particolare, romana fantasia di Democrazia, costituiscono oggi il nerbo di quella contemporaneità global ormai in crisi."

Insomma, una lettura obliqua dello Stivale (una lettura quale può essere applicata al Machiavelli, non a caso) secondo la quale l'Italia sarebbe una specie di opera d'arte collettiva in cui l'ostentazione quasi innaturale del peggiore modo di vivere non può che essere la denuncia di tutti i mali del nostro mondo.

Per esempio la democrazia italiana deve smettere di essere il motivo della nostra afflizione e dobbiamo diventare orgogliosi di come essa altro non sia che la più grande accusa alle falle del sistema democratico in assoluto.

Sopra abbiamo già parlato di Atene e dell'invenzione aristocratica della governo del demo. Da allora, la democrazia, nella retorica con cui l'Occidente impone il mito di se stesso, è assunta come il governo dei più, e quindi il più giusto. A rigore, però, la democrazia è il governo del demo, cioè di una parte come un'altra, che essendo costituita da tanti, deve essere pragmaticamente rappresentata da pochi: ossia la democrazia, nella sua fondazione storica e nella sua ontologia, è, come in Italia da sempre sappiamo, un'oligarchia in cui a comandare sono pochi, e sempre gli stessi.

Consci di questo, non è forse vero che il percorso italiano di esclusione del popolo dalla gestione della cosa pubblica, dato sotto diversi colori ideologici nella sua storia unitaria, e oggi infine del tutto trionfante, è un atto volontario che ci siamo imposti per smascherare la vera natura della democrazia?

E si noti infatti come la seconda Repubblica abbia polemicamente significato la rinuncia volontaria (e democratica) da parte del demo dei suoi diritti fondamentali (lavoro, casa, sanità, scuola, libertà di parola, etc).

E si noti anche come solo in Italia si abbia il coraggio di denunciare la natura oligarchica, la vocazione all'ingiustizia sociale e alla privazione delle libertà della nostra civiltà, per esempio in una serie di creativi e coraggiosi manifesti di comunicazione politica in cui uno dei partiti del consesso oligarchico, il P.D., dice chiaramente più forti noi, più forti tu, ponendo con fermezza la distinzione fra quelli che comandano e quelli che possono beneficiare qualche elemosina dal potere: ed è qui che agisce la caricatura, la satira feroce con cui l'Italia addita il resto del mondo.

Satira che agisce sul concetto di famiglia (i nostri infaticabili performer che fanno campagne contro il divorzio con mille divorzi alle spalle, come il grande Casini); sul concetto di femminismo: non solo le nostre subrettine al potere; ma anche l'eccezionale Lario che si fa prendere a calci dal marito virilone come a dire che nella perdita di femminile che la donna in carriera subisce è in atto solo un fenomeno di isteria: fenomeno che coinvolge anche l'uomo con una diminuzione indignitosa della propria anima. E i vari razzisti che non sono razzisti ma vogliono solo difendere la loro identità culturale o il lavoro, in un paese in cui culturale è una parola troppo difficile da pronunciare per metà del Parlamento, e lavoro è sinonimo di chimera: come a dire che Splenger, nell'annunciarci il declino dell'Occidente, non ci aveva detto che questo sarebbe avvenuto nel grottesco: quel grottesco che qui Italia non ci vergogniamo di esibire a memento per gli altri. Perché noi siamo un paese speciale.

Un paese speciale.







CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube