RACCONTI
Vinny Brando
Una valigetta più pesante del solito
Oscar scese le scale ed entrò in cucina in uno stato di perdizione. Sentiva che non sarebbe stato in grado di affrontare un’altra giornata così, non se si fosse svolta come le altre migliaia di giornate vissute fino ad allora.
Guardò sua moglie, quella stronza presuntuosa ed egoista, che metteva la colazione nei piatti e li appoggiava in tavola con noncuranza.
Guardò suo figlio, quell’ingrato figlio, appunto, di una stronza. Giocava col cellulare e cosa ancora peggiore giocava col cibo che ormai dava per scontato.
Oscar si sedette al suo posto, quello che era stato scelto per lui, gli sfilò l’iPhone nuovo di zecca dalle mani e se lo lasciò cadere dentro alla tasca profonda della giacca scolorita di velluto a coste.
– Hey! – esclamò il figlio, – Nemmeno un buongiorno?
– Mi sono rotto le palle di vederti con ’sto coso in mano già di prima mattina. Non te lo voglio più ripetere!
– Stavo ripassando… Oggi ho la verifica di chimica!
– E io sono nato ieri…
– A volte sembra davvero di sì! – Ecco come gli rispondeva il figlio.
Prima di recarsi al piano di sotto, Oscar aveva preso la vecchia pistola Beretta che era stata l’arma in dotazione al padre poliziotto, e dopo averla caricata l’aveva riposta all’interno della valigetta di vecchio cuoio sgualcito, nascosta sul fondo, coperta dal registro di classe e dai libri. Non comprendeva neanche lui il motivo di quel gesto, ma aveva percepito una strana consapevolezza al risveglio, come se qualcosa che non ricordava l’avesse indottrinato nel sonno con credi che mai avrebbe immaginato di poter condividere.
Ma le idee rimanevano confuse, avrebbe dovuto usare la rivoltella, quindi? E contro chi avrebbe dovuto puntarla, si chiedeva adesso davanti al figlio che lo insultava. Sarebbe stato così facile estrarla e fargli saltare le cervella, ma poi avrebbe imbrattato la tappezzeria, una delle poche cose che gli era stato concesso di scegliere riguardo all’arredamento della casa. Il gioco non valeva la candela.
Staccò gli occhi dalla valigetta posata accanto alla gamba della sedia e li riportò sul figlio. Riprese a parlare: – Chimica, eh? Non proprio il tuo forte, diciamo. – Oscar rise da solo alla sua battuta, lasciandolo senza parole, inebetito dall’inconsueta ironia, così continuò: – Forse è meglio cominciare a preoccuparsi di trovare un lavoretto, non credi? Questa storia del liceo in vista dell’università mi sembra stia partendo per la tangente. Poi sono io che dovrò mantenerti quando a trent’anni rimarrai con un pugno di mosche…
Sua moglie, che se n’era stata girata a lavare le padelle e non l’aveva ancora degnato d’uno sguardo che fosse uno, decise che era proprio quello il momento di intervenire.
– Ma lo vuoi lasciare in pace? Che ti è preso stamattina? Sei stato il primo a gioire per la scelta del liceo, non fare finta di niente! – disse.
– Forse se tu non gli avessi regalato il maledetto telefonino, anche se ti avevo pregato di ascoltarmi, ora si starebbe concentrando su cose più importanti! – rispose Oscar prima di far scomparire in bocca una forchettata di uova strapazzate. Udì la moglie sbattere una padella sul lavello con insensata forza e sorrise tra sé.
– Forse se potessi fare quello che voglio senza dover sempre rendere conto a voi di qualsiasi cosa, magari la troverei la mia vocazione… – Il figlio si lasciò scappare queste parole nel primo momento di totale quiete, cosa che le rese ancora più rumorose quando si abbatterono con violenza sulla coscienza dei genitori.
– Fai una cosa, portalo a scuola che è già tardi. Non ho proprio voglia, adesso, di ascoltare certe cose, – disse la moglie.
– Perché scusa, che ore sono? – Oscar si sentì disorientato.
– Oggi entra un’ora prima, hanno il ritrovo per andare in gita. Immaginavo ti saresti scordato… – Ora era la moglie a ridere sotto i baffi, anche se non poteva vederla, ancora rivolta verso la finestra sopra il lavandino che dava sul cortile.
– Va bene, ho capito, – disse lui. Non poteva sopportarla quando si metteva a evidenziare le sue mancanze. Non poteva di certo dirle che era stata proprio lei, nel corso degli anni, a fottergli la mente con tutte le sue pretese. Si alzò e afferrò la valigetta. – Andiamo, – disse al figlio.
– Veramente io starei ancora finendo, qui! – rispose il ragazzo.
– Muoviti, non discutere. L’hai preparato il bagaglio?
– Ovvio…
– Veramente l’ho preparato io, – lo corresse la madre.
Oscar guardò la schiena, il culo della moglie, le sue spalle che si curvavano sgonfiandosi insieme a un lungo respiro, mentre con le braccia si appoggiava al lavello.
In macchina, padre e figlio rimasero in silenzio l’uno accanto all’altro. Il ragazzo non aveva il cellulare, altrimenti sarebbe stato col capo chino, perso in chissà quale diabolica applicazione. Oscar lo sapeva, lo aveva visto fin troppe volte combattere la nausea stoicamente, la sua era una generazione che andava studiata per ricavarne l’antidoto. Capì che non avrebbe avuto altre occasioni per parlargli senza distrazioni.
– Senti… Lo pensi davvero che non puoi fare ciò che vuoi? – Il figlio rimase muto. – Perché è normale che un ragazzo della tua età non possa fare proprio tutto ciò che gli passa per la testa, se no a cosa serve il ruolo genitoriale? Il discorso è un altro, cioè avere la possibilità di scelta, e io penso che te ne abbiamo date sempre molte. Alla fine dei conti hai sempre potuto fare la tua scelta…
– Ne sei davvero convinto, papà?
– Be’, sotto la nostra supervisione, certo!
– No, papà… Il cazzo!
– Scusa?
– Il cazzo, la vostra supervisione!
– Continuo a non capire. Cosa c’entra il cazzo?
– È per dire! Dio santo, nel senso che non è vero!
Oscar s’immaginò la Beretta che intanto riposava sul fondo della valigetta, chiusa nel baule. – Non so davvero cosa ti aspetti di più. A me pare che tu abbia tutto ciò che un ragazzo della tua età possa desiderare, – disse.
– E smettila di rivolgerti a me dicendo un ragazzo della tua età! Cazzo!
– Ok, vorrà dire che comincerò a chiamarti un vecchietto come te, se preferisci…
– Tu sei il vecchio, fino a prova contraria!
– Tu invece, sai dire solo cazzo? È questo l’unico termine che hai imparato?
– Cazzo… Lo puoi dire forte! – Il figlio ghignò.
– Mi fa piacere. Se pensi che sia così che si conquista una ragazza, siamo a posto.
– E cosa ti fa credere che me ne freghi qualcosa? – il ghigno era già scomparso, – Pensi che ne abbia bisogno? Poveraccio…
– Guarda che se sei gay puoi dirmelo. Sono tuo padre e ti sarò sempre vicino. No matter what!
Oscar non aveva mai sfottuto suo figlio in tale maniera e si rese subito conto del livello d’immaturità raggiunto con una sola frase. Eppure non si sentì in colpa. Era come se per la prima volta non provasse la benché minima preoccupazione per le potenziali conseguenze della sua uscita infelice, come se nel profondo fosse consapevole che questa volta la giornata si sarebbe conclusa in modo atipico. Sentiva che era la volta buona che avrebbe provocato la morte di qualcuno. E sapeva anche che chiunque gli fosse passato vicino lo avrebbe fatto inconsapevole dell’enorme rischio corso. Per ora si era limitato a prendere per il culo il figlio, provocando in lui una reazione di incredulo sconforto.
– Tu non ce la fai più… – aveva risposto il ragazzo affranto, ed erano ripartiti gli insulti; non banali parolacce, ma questioni che volutamente sperava avrebbero ferito il padre nell’anima. Aveva colpito Oscar sputandogli contro che di certo non era frocio (aveva usato questo esatto appellativo), ma che non avrebbe preso lezioni da lui, come aveva specificato: uno che si era trovato una donna che lo comandava a bacchetta e che era pure brutta!
A questo punto Oscar girò il capo nella sua direzione, mentre arrestava il veicolo in prossimità del pullman intorno al quale si era già riunito un drappello di compagni di classe del figlio. Sul viso aveva disegnata una smorfia divertita, mista a quella che aveva compreso essere una vibrante malinconia, cosa che suo figlio non riuscì a intuire e che al contrario lo lasciò ancora più spiazzato. Anche lui, poverino, inconsapevole che l’intoccabilità che un ragazzo solitamente possiede sui genitori, e che dà per assodata, nel suo caso si era improvvisamente estinta. Disse solo: – Posso riavere il mio cellulare adesso, o hai intenzione di farmi partire senza? Poi la senti tu la mamma… – cercando di suonare più duro di quanto realmente fosse.
– Vedi di chiamarla appena arrivi. E ricordati che questo non è tuo, – gli intimò Oscar porgendogli il prezioso oggetto.
Mentre si recava al lavoro si chiese quando suo figlio avesse iniziato a odiarlo. Lui che era un insegnante, un uomo che aveva scelto come professione la formazione dei più piccoli e che aveva sempre e solo desiderato la felicità del suo unico discendente.
Posteggiò nella striscia di parcheggi pubblici davanti alla scuola elementare, spense la radio, la sua sola accompagnatrice, e si ritrovò nella solitudine dell’abitacolo a osservare i bambini che gli passavano accanto, vivaci e saltellanti nonostante le pesanti cartelle ripiene di volumi, sempre in eccesso. Anche la valigetta di Oscar quel mattino pesava in maniera insolita, quel tanto che bastava a ricordargli dell’inquietante ma elettrizzante novità al suo interno.
Fumare: ecco cosa si era ancora scordato di fare, preso dalla frenesia di quell’inizio giornata, e ora il bisogno gli esplodeva nel petto.
S’infilò le mani nelle tasche senza trovare traccia del pacchetto di sigarette. L’aveva lasciato a casa, proprio sul maledetto tavolo della cucina. Quello delle colazioni, dei pranzi e di quelle cene estenuanti, incompatibili con il concetto di serenità. Drammatici, ma comuni esempi di un’altrettanto comune famiglia sull’orlo del disastro.
Fu preso da una rabbia improvvisa e si chiese se a quel punto non rimanesse altro da fare se non sparare a quel signore che stava portando a spasso il cane; oppure alla giovane e inesperta supplente di francese che sprizzava un ingenuo e irritante entusiasmo da tutti i pori e trattava gli altri con la massima gentilezza, sempre interessata a qualsiasi cosa le si dicesse, come se fosse l’infermiera in un ospizio. Poi decise che forse per ora era meglio fare un salto a casa a prendere le sigarette, tanto ci avrebbe messo poco e aveva ancora una mezz’ora buona prima che scattassero le nove.
Ripercorse la strada al contrario passando per il punto di ritrovo del figlio, radio accesa, solite frequenze, solita noiosa trasmissione del mattino che oggi lo infastidiva in maniera particolare. Il pullman era in partenza e una lingua di genitori, fermi sul marciapiede, salutava i rispettivi e cresciuti pargoli. Oscar gli passò accanto a moto lento, sulle loro facce riusciva a leggere un orgoglio ingiustificato. Quella falsa certezza, forse comoda, rassicurante, che ognuno dei loro figli fosse destinato a grandi traguardi in futuro, cosa che li avrebbe resi dei modelli invidiabili.
Scorse la testa anche del suo di figlio, dietro a un finestrino del grosso bus. Sedeva con gli occhi rivolti verso il basso, e seppur i suoi compagni stavano ancora in piedi, appoggiati sui sedili in preda all’eccitazione del viaggio che si prospettava loro, irrequieti e pronti a sperimentare in libertà le loro relazioni adolescenziali, lui invece si era già chiuso con gli occhi incollati su quel dannato iPhone. Oscar avrebbe potuto prendere la pistola e fare fuoco a casaccio contro i finestrini e contro il coro di adulti; avrebbe sicuramente colpito qualcuno.
Proseguì e poco dopo fu sul vialetto di casa. Il suo vicino non si trovava più nel giardinetto a lavare la macchina. Prima, uscendo, Oscar aveva cercato di evitarlo, ma l’uomo, rozzo come al solito, maleducato come al solito, si era sentito in diritto, dentro alla sua sudicia canottiera bianca, di renderlo partecipe, ancora una volta, di quanto il suo mezzo fosse superiore alla carretta che guidava lui. Mentre apriva la portiera lo aveva sentito dire alle sue spalle: – Hey, Oscar! Ancora non ti sei deciso a rottamarlo quel bidone della spazzatura? Quando vuoi provare l’ebbrezza della velocità fammi sapere che ti faccio fare un giro sulla mia Alfa! Te la faccio provare! – e rise.
Certo, avrebbe potuto finalmente accettare l’offerta e schiantarsi contro qualche albero dalla parte del passeggero, facendo così ambo in un colpo solo. Era un’idea che lo divertiva. E pensare che sua moglie aveva pure avuto il coraggio di invitarlo a cena, perché come diceva lei: È buona creanza fra vicini di casa instaurare e mantenere dei rapporti civili.
Aprì la porta d’entrata e fu travolto dalla musica. Sua moglie aveva messo su un disco di Battisti e lo stava ascoltando a tutto volume. Oscar lo odiava, lo aveva sempre trovato una lagna e non capiva dove si nascondesse quel fantomatico genio di cui tutti parlavano, dal momento che le canzoni praticamente non le scriveva nemmeno lui. Fu tentato di cambiare il disco, a mo’ di sfregio, poi però si accorse che la voce stonata di Battisti era ora più lamentosa del solito. Così si diresse lungo il corridoio fino in cucina.
Quel giorno non aveva ancora visto il viso di sua moglie e la trovò di spalle, di nuovo. Riusciva a riconoscere la nuca, ma il resto del corpo era coperto da quello in sovrappeso e unto del vicino di casa che la cavalcava ansimante. Una scena riprovevole. L’uomo indossava ancora la canottiera infradiciata, portava i pantaloni e le mutande calati sulle caviglie e Oscar rimase qualche istante a osservargli, con crescente movimento nello stomaco, il sedere piatto e flaccido, bianco come un lenzuolo, molto più bianco della canottiera, che spingeva con ritmo costante sul sedere olivastro e pieno della moglie, il quale costante andava a scontrarsi contro il lavello da cui ancora scorreva acqua; e le chiappe di lui che raggrinzivano contraendosi a ogni colpo.
Sua moglie gemeva e il vicino grugniva, non avevano avuto nemmeno la decenza di chiudere le tendine della finestra. Oscar immaginò le mammelle mature della moglie in bella mostra alla mercé dei passanti.
Non si erano accorti di nulla, avrebbe potuto piazzare con facilità due proiettili nei loro crani, li avrebbe bucati e il contenuto sarebbe schizzato sul vetro, coprendo così l’immagine nuda e adultera della moglie al mondo esterno. Sarebbe diventato famoso come il povero sfigato che ha un raptus omicida, quello tradito e mazziato, questo è vero, però che risate quando avrebbero trovato i corpi incastrati e piegati nel lavandino, immersi nella loro stessa materia e coi culi per aria. Anche loro sarebbero rimasti negli annali, ai Darwin Awards le loro morti sarebbero state di sicuro premiate.
Oscar tirò fuori il piccolo cellulare Nokia, che al contrario di quello del figlio era raramente utilizzato, e iniziò a filmarli attraverso l’altrettanto piccola telecamera di bassa qualità incorporata all’interno.
Quindi tornò alla macchina e aprì il baule con l’intento di impugnare l’arma. Poi pensò ai loro squallidi orgasmi frettolosi da cucina e provò solo una gran pena. Però pensò anche che se sua moglie si era ridotta ad andare con un uomo del genere, doveva esserci qualcosa di molto sbagliato in lui. Probabilmente lei provava la medesima grande pena nei suoi confronti.
Così si ributtò sulla strada.
Dentro ribolliva e lo aspettavano quattro ore buone alle prese con una classe di bambini esuberanti sotto il suo controllo. Se solo i genitori fossero venuti a conoscenza dello stato mentale alterato con cui l’educatore a cui avevano affidati i loro pargoli si era svegliato quel mattino, Oscar si sarebbe ritrovato, alla meglio, davanti a un’aula sgombra; ma per il resto della gente ignara era iniziata una giornata come le altre.
I bambini lo accolsero salutandolo diligenti, ma ripresero subito a confabulare e gli ci volle un intero minuto per riuscire a calmarli tutti. Prima di iniziare la lezione appoggiò la valigetta per terra dietro la cattedra, nascosta alla vista della classe, sfilò la Beretta e con un gesto veloce la buttò dentro al cassetto. Pronta all’evenienza, pensò. Poi fece l’appello e chiese se qualcuno aveva finito di leggere il romanzo che aveva assegnato la settimana prima: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepúlveda.
Si alzò solo una mano, quella di Priscilla. Oscar la ignorò, continuando: – Va bene… Allora… Tirate fuori il quaderno di matematica.
Priscilla però non ci stava, come al solito, non le andava giù di essere evitata.
– Ma professore, non vuole che leggo ad alta voce quello che ho capito della gabbianella e del gatto? – gli chiese alzando anche la voce.
– Priscilla, ti ho già detto che non devi chiamarmi professore, io sono il vostro maestro! E ti ho anche detto che quando alzi la mano devi attendere il mio permesso e solo dopo parlare, non il contrario. O mi sbaglio?
– Va bene, maestro… – Lasciò cadere le spalle e intrecciò le braccia offesa.
Quella bambina cominciava a dargli sui nervi, veniva da una famiglia vomitevolmente ricca, ma nonostante ciò i genitori avevano deciso di iscriverla alla scuola pubblica, volendo dimostrare chissà cosa. Come se non bastasse, era una minuta e fastidiosa secchiona, voleva sempre fare la saputella della situazione e non passava ora senza che s’intromettesse in qualunque argomento venisse affrontato. E infatti, non appena Oscar iniziò a ricopiare sulla lavagna un problema da risolvere, lei lo informò, senza chiedere la parola, che si trattava di un quesito che avevano già eseguito il giorno precedente.
Oscar non ci pensò su due volte, gli si accese una miccia nello stomaco, come si suol dire, si voltò e scagliò il gessetto con cui stava scrivendo in direzione di Priscilla. Una freccia polverosa che fischiò nell’aria chiusa e che, sfiorando alcune teste, si andò a scontrare contro la parete in fondo finendo in mille pezzi. Aveva letteralmente volato e si era scheggiato deviando il suo tragitto sulla spallina del vestitino blu della bimba che Oscar aveva scambiato per un bersaglio, lasciando sul tessuto una strisciata bianca.
– Ho detto. Che non devi. Parlare. Senza il mio permesso! – urlò da dietro la cattedra. Alcuni lapilli di saliva spruzzarono fin sulle facce intontite degli alunni seduti in prima fila.
Priscilla esplose in un pianto singhiozzante, aveva il respiro spezzato. Oscar buttò un occhio sul cassetto che lo separava dalla Beretta e fu tentato di aprirlo. Mentre appoggiava la mano sul pomello vide la bambina scattare in piedi e correre verso la porta per poi catapultarsi fuori.
Passarono alcuni istanti, forse più di quanto Oscar potesse avvertire, preso com’era a fissare con occhi di ghiaccio il resto degli studenti, che se ne stavano impietriti ad aspettare una sua mossa. Infine, sull’uscio sbucò il bidello del piano, avvisandolo che era desiderato in presidenza. Immediatamente, precisò.
Mentre usciva dall’aula e si inoltrava nel corridoio, Oscar lo immaginò ergersi appagato del suo ruolo, stretto dentro al camice grigio da bidello, anziano e analfabeta.
Si era curato di rimettere, senza farsi notare, la pistola al suo posto e si era portato dietro la valigetta; poteva tranquillamente freddarlo il povero ignorante, e porre fine ad almeno una di queste infinite e inutili esistenze sulla terra. Ne valeva la pena? Ne valeva la pelle?
Entrò in presidenza e si sedette sulla poltrona accanto a Priscilla che nella sua risultava ancor più minuta e vulnerabile.
La bambina ebbe un sussulto, non riusciva a guardarlo e si stringeva contro il bracciolo più lontano da lui.
– Tranquilla, – disse il preside, – Non succede niente. Ci sono qua io.
Ci sono qua io, pensò Oscar, cosa sono, un mostro? Magari un mostro no, ma di sicuro oggi sono un uomo con una valigetta più pesante del solito.
Il preside si rivolse a lui: – Ho già detto a Priscilla che il tuo è stato un comportamento sconsiderato, che lo sai, che anche agli adulti ogni tanto può capitare di esagerare e di sbagliare, ma che non per questo è giustificabile quando succede. Giusto?
E perché, idiota, mi dai del tu, pensò Oscar. Perché non ti rivolgi a me col mio cognome? Chi ti ha detto che siccome sei il Preside mi puoi dare del tu?
Poi aveva lasciato cadere gli occhi sulla foto della moglie che l’uomo teneva su uno scaffale dietro alla scrivania: una sorridente signora di mezz’età in carne, vestita di fiori e con un seno straripante, da tuffarcisi dentro. Ci avrebbe sguazzato. Chissà l’effetto che avrebbero causato due colpi di rivoltella su quei dirigibili, si chiese. Poteva andare a casa sua e scoprirlo, era convinto che quella comune signorotta si sarebbe rivelata una vera cavalla da monta sotto le lenzuola. Quelle sono le più esperte alla fine, le più arrapate.
– Oscar… – ripeté il preside, – Giusto?
– Ah, sì, giusto, – rispose.
Il preside lo fulminò con lo sguardo.
Tu sei il primo coglione che deve stare attento, pensò Oscar, ho sempre più voglia di sbattermi la tua donna. Ho sempre più voglia di ucciderla.
– Quindi… mi sembra giusto che il maestro ti porga delle scuse. Perché quando uno sbaglia… – disse il coglione.
– Quando uno sbaglia deve imparare ad ammetterlo e a scusarsi! – concluse ligia Priscilla tirando su col naso.
Niente, la piccola secchiona non la voleva smettere di essere sé stessa. Una vera, odiosa snob in costruzione, Oscar già se l’immaginava.
Nuovamente, il preside lo riprese, scuotendolo dai suoi pensieri cattivi.
– Be’, credo che Priscilla sia in attesa… – disse.
– Scusa Priscilla, non accadrà più. – Oscar pronunciò queste parole come lo farebbe un suo coetaneo, apposta, senza degnarla di uno sguardo, per poi aggiungere: – Posso andare ora?
Il preside sembrava sul punto di esplodere e a sforzo si trattenne: – No, non puoi andare, resta dove sei! Tu invece sei scusata, Priscilla. Per qualsiasi cosa sono qui, li chiamo io i tuoi genitori, non ti preoccupare. Torna in classe ora, tesoro.
– Perché, ha pure un cellulare la mocciosa? Alla sua età? – chiese Oscar sbigottito.
Non appena la porta si richiuse e la bimba fu fuori, il preside prese a esporre le sue preoccupazioni. Cercò di essere cauto.
– Allora Oscar, come andiamo? Che succede? Lo sai che non puoi esprimerti così con loro, e sinceramente non te l’ho mai visto fare. E poi, Oscar… lanciare un oggetto contro una bambina… Ma come ti è venuto in mente? Questo è grave, Cristo! Lo capisci?
Vuoi lasciarmi l’opportunità di rispondere a qualcosa? Altrimenti non farmele le domande, pensò Oscar. Disse: – Un gesso.
– Come? – Il preside si sporse sulla scrivania.
– Ho detto un gesso! Ho lanciato un cazzo di gessetto, mica una granata!
– Ma sei diventato scemo tutto in una notte? No, spiegami!
Non sono uno scemo, sono uno che potrebbe farti cessare di respirare e nemmeno lo sai, pensò Oscar. – Non sono uno scemo, sono uno che oggi non vuole più ascoltare certe stronzate, – disse afferrando la valigetta.
– Non ci siamo, Oscar. Non ci siamo proprio, – rispose il preside che non sapeva più che pesci pigliare.
– Infatti mi sto alzando e me ne sto andando.
– Dovrò prendere provvedimenti… E stavolta saranno seri! I Baumgartner non saranno entusiasti di sapere quello che è successo…
Ma Oscar era già nell’atrio, distante dalle parole intimidatorie del suo superiore, anch’esso incredibilmente fortunato e illeso a sua insaputa.
Vaffanculo i Baumgartner, pensò, chi se ne fotte di quei borghesi dei genitori di Priscilla. Va a finire che faccio fuori loro, sarebbe comunque un favore all’umanità.
Si rinchiuse in macchina dove rimase fino a fine lezioni, seduto, senza avviare il motore, la valigetta accanto a sé sul sedile del passeggero, la pistola adagiata sulle gambe. Il ferro freddo gli gelava le cosce. Gli apparvero in mente le immagini delle persone con cui aveva fino ad allora interagito. Chissà se qualcuno di essi aveva anche minimamente intuito la precarietà della propria vita standogli vicino. Sarebbero andati avanti con le loro vite incoscienti del fatidico bivio davanti al quale si erano ritrovati quel giorno.
Oscar, dal canto suo, sentiva di aver perso ghiotte occasioni per scaricare le proprie frustrazioni, e la rabbia cieca iniziava a scemare dando spazio a una straziante inquietudine. Si maledì nello scoprire quella debolezza che avanzava, lo faceva dubitare della sua capacità di prendere decisioni drastiche.
Con la coda degli occhi vide lo stesso furgone nero dai vetri oscurati che gli era passato accanto già tre volte, fermarsi sul lato opposto della carreggiata. Non uscì nessuno. Si chiese se il fato non gli stesse suggerendo delle nuove potenziali vittime. Fece per appoggiare la mano sulla manopola d’apertura della portiera, quando il furgone si mosse riprendendo la sua marcia. Un’altra opportunità sfumata. Forse non era sul serio destino. Cosa gli stavano suggerendo gli eventi?
Oscar si sentì perso, un’improvvisa e primordiale paura s’impossessò di lui. Non vedeva un futuro. Invece vide Priscilla che usciva dal portone dell’antico edificio scolastico e camminava nella sua direzione. La bambina però non l’aveva notato, stava guardando tra le automobili ferme in cerca della Mercedes blu e dell’autista in divisa che la veniva a prendere tutti i giorni al suono dell’ultima campanella per riaccompagnarla a casa, e che quel giorno sembrava irrimediabilmente in ritardo. Come pensavano che non sarebbe cresciuta viziata, era fuori dalla sua comprensione.
Un’inaspettata convinzione si instaurò in lui: se Priscilla, una volta giunta sul marciapiede, avesse girato e fosse venuta verso la sua macchina non avrebbe perso altro tempo e l’avrebbe uccisa, basta indugi; se invece si fosse allontanata nella direzione opposta, allora forse voleva dire che non gli restava altra soluzione se non l’inevitabile.
La bimba muoveva le gambine compiendo brevi passi, cosa che lo fece irritare. Quando sul marciapiede si girò dandogli le spalle, Oscar si accorse di aver smesso di respirare. Osservò il corpicino che si rimpiccioliva allontanandosi, scampando ancora una volta alla tragedia. Oscar rise. Fino all’ultimo la vita si prendeva gioco di lui.
Strinse il calcio della Beretta e appoggiò l’indice sul grilletto. Cosa gli restava?
Alzò l’arma e se l’avvicinò alla bocca. Infilò la canna spigolosa giù per l’umido anfratto e si graffiò il palato. Cominciò a piangere. Sul primo proiettile, quindi, era stato inciso fin dall’inizio il suo nome. Quale sorpresa, pensò con cinismo, ma si trovò impossibilitato a sorridere con quel rigido fallo dal sapore metallico in bocca, mentre alcune lacrime scivolavano sulle scanalature della pistola. Stava per farlo veramente.
A volte è questione di tempismo, che nel tessere le nostre vite non fa che smentire ogni teoria sulla casualità delle coincidenze. Avrebbe premuto il grilletto se solo il furgone nero dai vetri oscurati non fosse ricomparso di fronte a lui.
Il mezzo s’impegnò in una sconsiderata manovra a U, sgommando e imbarcandosi su un lato, poi accelerò e sfrecciò per un centinaio di metri. In fondo alla strada inchiodò, proprio di fianco a Priscilla che presa alla sprovvista fece un balzo all’indietro. Dal portellone scorrevole laterale saltarono fuori due figuri incappucciati che agguantarono la bambina e la caricarono senza mezzi termini sul cassone posteriore insieme a loro.
Oscar aveva assistito al fatto cingendo la morte argentea tra le labbra e quando il furgone scomparve dietro l’angolo, gettò la rivoltella nella valigetta, tremante. L’aveva quasi fatto, era andato spaventosamente vicino a togliersi la vita e ora provava un’irrefrenabile voglia di vivere. Girò la chiave d’accensione e il veicolo borbottò. Schiacciò il pedale dell’acceleratore e si lanciò all’inseguimento.
Mentre portava la sua modesta autovettura su di giri facendole provare l’emozione di toccare velocità mai raggiunte prima, Oscar si sentì sopraffatto nello scoprire un ennesimo lato di sé fino a quel momento sconosciuto. Cercò di concentrarsi sulla macchia nera che era diventato il furgone, diverse macchine davanti alla sua. Fortunatamente si era introdotto su una lunga e dritta strada statale che lo rendeva ben visibile, ed erano poche le possibili uscite.
I rapitori procedevano nel loro viaggio senza esagerare con le imprudenze. Era evidente, non volevano dare nell’occhio. Oscar si prodigò in un paio di sorpassi incerti che lo portarono a due veicoli di distanza. Quando intuì che dall’altro lato possedeva abbastanza spazio prima dell’arrivo di un lento camion, si buttò. L’auto strillava mentre lui esagerava nello spingere la quarta marcia. Sorpassò le due vetture e il camion davanti a lui si fece più grande del previsto.
L’autista dell’autocarro iniziò a premere il clacson e a quel punto Oscar si ritrovò fianco a fianco col furgone. Successe velocemente: oltrepassò il muso del mezzo e sterzò bruscamente verso destra impattandolo in un frastuono di ferraglie. Schivò il camion di poco e finì nel fossato trascinandosi con sé il furgone.
I motori fumavano e le frizioni stridevano. Oscar infilò una mano nella valigetta, d’istinto, e riprese possesso della sua compagna di sventura. I finestrini erano in frantumi e sul furgone al posto di guida rialzato riuscì a scorgere una testa immobile schiacciata contro il volante. Si voltò, cercando in maniera frenetica con lo sguardo altre possibili minacce. Dal retro del furgone comparvero gli assalitori di Priscilla, ancora incappucciati; quando videro il collega alla guida iniziarono a farneticare. Poi quello alto andò verso Oscar che sedeva ancora nell’abitacolo con la cintura di sicurezza allacciata. In lontananza cominciarono ad arrivare il suono delle sirene. Oscar le udì aumentare di volume. La voce dell’altro uomo tuonò, intimava che non c’era tempo, che dovevano scappare. L’uomo alto fece un altro passo verso Oscar, il quale alzò la Beretta, puntandogliela dritta sul cuore. Passarono istanti in cui credette di poter vedere nel profondo di quegli occhi espressivi, nonostante il passamontagna nascondesse il resto, poi l’uomo corse via, dissolvendosi nella radura circostante insieme al compare.
Oscar prese coraggio, scese dalla macchina accartocciata e aggirò il furgone. Non sapeva cosa lo aspettasse e quando vide Priscilla che terrorizzata si rannicchiava, chiudendosi a guscio sul fondo del cassone e strizzando gli occhi serrati, provò qualcosa che si potrebbe descrivere come un secondo risveglio. La bambina sembrava fare di tutto pur di scappare da quell’impensabile incubo.
– Priscilla… Sono Oscar!
La vide spalancare le palpebre ed esclamare: – Professore!
Oscar sorrise: – Sì, sono io, il maestro… Non c’è più nulla da temere! Vieni…
Priscilla scattò in piedi e gli saltò al collo abbracciandolo, stringendolo, donandogli una gratitudine onesta, sentimento che nessuno dei suoi cosiddetti cari aveva mai avuto la decenza di manifestargli. Le lacrime della bimba gli inumidirono la camicia e Oscar si lasciò andare, ricambiando l’abbraccio e posando le narici sui capelli fini al profumo di albicocca di quella fragile e innocente creatura.
Sul posto arrivò la polizia, ambulanze e il solito mucchio di curiosi; dopo una mezz’ora anche i Baumgartner. Cinsero la figlioletta come probabilmente mai fino ad allora. Oscar guardò la famiglia ricongiungersi, la madre inginocchiarsi ad ascoltare il racconto di Priscilla che intanto indicava nella sua direzione e si girava verso di lui, poi i genitori che si voltavano a guardarlo a loro volta e si recavano a parlare con degli agenti. Solo in seguito vennero da Oscar, il quale se ne stava seduto sul retro di un’ambulanza con la fida valigetta in suo possesso. Non l’avrebbe abbandonata per nessuna ragione. Di certo non ora che si trovava dalla parte del giusto, la scoperta dell’arma all’interno avrebbe comportato un serio problema.
– Noi… non sappiamo come ringraziarla, – iniziò a dire la madre.
– Non dovete. Ho fatto solo il mio dovere. – Oscar non si aspettava una svolta tanto imprevedibile, aveva appena salvato una bambina e non si capacitava di come e quando fosse successo.
– No, lei ha fatto una cosa che pochi avrebbero avuto il coraggio di fare! – continuò il padre, – Siamo in debito, questo è poco ma sicuro. Ci lasci fare qualcosa per lei!
Ma Oscar rifiutò ogni proposta, provava uno strisciante disgusto all’idea di accettare qualsiasi cosa da due delle persone che aveva fantasticato di ammazzare. Quando però il giorno seguente gli venne recapitata una busta sigillata e consegnata direttamente dall’avvocato della famiglia, non ci pensò su due volte ad accettare la somma di denaro scritta sull’assegno che conteneva. Una cifra inimmaginabile, inconcepibile, almeno per uno come Oscar.
Il fatto, lo svolgimento, le conseguenze, incredibili per l’appunto, scatenarono una serie di eventi collaterali.
Cominciarono a contattarlo le televisioni che se lo contendevano per averlo nei propri programmi di cronaca come protagonista insieme a Priscilla di quella storia drammatica e gloriosa che era ormai sulla bocca di tutti, trasformandolo così, dall’oggi al domani, in un eroe nazionale. Lo elogiavano sui social network e impazzavano online i commenti di apprezzamento. Forse adesso il figlio avrebbe cambiato opinione sul valoroso padre.
Di certo non avrebbe potuto ricavare vantaggi dalla fama mediatica e usufruire del nuovo conto corrente sua moglie, che si trovò la lettera di divorzio fra le mani nella quale si accennava a un’inappellabile prova video che mostrava un suo atto fedifrago con quel sudicio porco del vicino. Sconvolta e furiosa, rimase sull’uscio mentre Oscar sgasava via sulla sua nuova e fiammante Alfa Giulia, lasciando il maiale della porta accanto con la canna dell’acqua a penzoloni e grondante, e raggiungendo in un ristorante del centro la supplente di francese.
La giovane, proprio come gli alunni, aveva rivelato un improvviso interesse e si era dimostrata molto disponibile nei confronti di Oscar nella sua nuova pelle di prode uomo.
Guardò sua moglie, quella stronza presuntuosa ed egoista, che metteva la colazione nei piatti e li appoggiava in tavola con noncuranza.
Guardò suo figlio, quell’ingrato figlio, appunto, di una stronza. Giocava col cellulare e cosa ancora peggiore giocava col cibo che ormai dava per scontato.
Oscar si sedette al suo posto, quello che era stato scelto per lui, gli sfilò l’iPhone nuovo di zecca dalle mani e se lo lasciò cadere dentro alla tasca profonda della giacca scolorita di velluto a coste.
– Hey! – esclamò il figlio, – Nemmeno un buongiorno?
– Mi sono rotto le palle di vederti con ’sto coso in mano già di prima mattina. Non te lo voglio più ripetere!
– Stavo ripassando… Oggi ho la verifica di chimica!
– E io sono nato ieri…
– A volte sembra davvero di sì! – Ecco come gli rispondeva il figlio.
Prima di recarsi al piano di sotto, Oscar aveva preso la vecchia pistola Beretta che era stata l’arma in dotazione al padre poliziotto, e dopo averla caricata l’aveva riposta all’interno della valigetta di vecchio cuoio sgualcito, nascosta sul fondo, coperta dal registro di classe e dai libri. Non comprendeva neanche lui il motivo di quel gesto, ma aveva percepito una strana consapevolezza al risveglio, come se qualcosa che non ricordava l’avesse indottrinato nel sonno con credi che mai avrebbe immaginato di poter condividere.
Ma le idee rimanevano confuse, avrebbe dovuto usare la rivoltella, quindi? E contro chi avrebbe dovuto puntarla, si chiedeva adesso davanti al figlio che lo insultava. Sarebbe stato così facile estrarla e fargli saltare le cervella, ma poi avrebbe imbrattato la tappezzeria, una delle poche cose che gli era stato concesso di scegliere riguardo all’arredamento della casa. Il gioco non valeva la candela.
Staccò gli occhi dalla valigetta posata accanto alla gamba della sedia e li riportò sul figlio. Riprese a parlare: – Chimica, eh? Non proprio il tuo forte, diciamo. – Oscar rise da solo alla sua battuta, lasciandolo senza parole, inebetito dall’inconsueta ironia, così continuò: – Forse è meglio cominciare a preoccuparsi di trovare un lavoretto, non credi? Questa storia del liceo in vista dell’università mi sembra stia partendo per la tangente. Poi sono io che dovrò mantenerti quando a trent’anni rimarrai con un pugno di mosche…
Sua moglie, che se n’era stata girata a lavare le padelle e non l’aveva ancora degnato d’uno sguardo che fosse uno, decise che era proprio quello il momento di intervenire.
– Ma lo vuoi lasciare in pace? Che ti è preso stamattina? Sei stato il primo a gioire per la scelta del liceo, non fare finta di niente! – disse.
– Forse se tu non gli avessi regalato il maledetto telefonino, anche se ti avevo pregato di ascoltarmi, ora si starebbe concentrando su cose più importanti! – rispose Oscar prima di far scomparire in bocca una forchettata di uova strapazzate. Udì la moglie sbattere una padella sul lavello con insensata forza e sorrise tra sé.
– Forse se potessi fare quello che voglio senza dover sempre rendere conto a voi di qualsiasi cosa, magari la troverei la mia vocazione… – Il figlio si lasciò scappare queste parole nel primo momento di totale quiete, cosa che le rese ancora più rumorose quando si abbatterono con violenza sulla coscienza dei genitori.
– Fai una cosa, portalo a scuola che è già tardi. Non ho proprio voglia, adesso, di ascoltare certe cose, – disse la moglie.
– Perché scusa, che ore sono? – Oscar si sentì disorientato.
– Oggi entra un’ora prima, hanno il ritrovo per andare in gita. Immaginavo ti saresti scordato… – Ora era la moglie a ridere sotto i baffi, anche se non poteva vederla, ancora rivolta verso la finestra sopra il lavandino che dava sul cortile.
– Va bene, ho capito, – disse lui. Non poteva sopportarla quando si metteva a evidenziare le sue mancanze. Non poteva di certo dirle che era stata proprio lei, nel corso degli anni, a fottergli la mente con tutte le sue pretese. Si alzò e afferrò la valigetta. – Andiamo, – disse al figlio.
– Veramente io starei ancora finendo, qui! – rispose il ragazzo.
– Muoviti, non discutere. L’hai preparato il bagaglio?
– Ovvio…
– Veramente l’ho preparato io, – lo corresse la madre.
Oscar guardò la schiena, il culo della moglie, le sue spalle che si curvavano sgonfiandosi insieme a un lungo respiro, mentre con le braccia si appoggiava al lavello.
In macchina, padre e figlio rimasero in silenzio l’uno accanto all’altro. Il ragazzo non aveva il cellulare, altrimenti sarebbe stato col capo chino, perso in chissà quale diabolica applicazione. Oscar lo sapeva, lo aveva visto fin troppe volte combattere la nausea stoicamente, la sua era una generazione che andava studiata per ricavarne l’antidoto. Capì che non avrebbe avuto altre occasioni per parlargli senza distrazioni.
– Senti… Lo pensi davvero che non puoi fare ciò che vuoi? – Il figlio rimase muto. – Perché è normale che un ragazzo della tua età non possa fare proprio tutto ciò che gli passa per la testa, se no a cosa serve il ruolo genitoriale? Il discorso è un altro, cioè avere la possibilità di scelta, e io penso che te ne abbiamo date sempre molte. Alla fine dei conti hai sempre potuto fare la tua scelta…
– Ne sei davvero convinto, papà?
– Be’, sotto la nostra supervisione, certo!
– No, papà… Il cazzo!
– Scusa?
– Il cazzo, la vostra supervisione!
– Continuo a non capire. Cosa c’entra il cazzo?
– È per dire! Dio santo, nel senso che non è vero!
Oscar s’immaginò la Beretta che intanto riposava sul fondo della valigetta, chiusa nel baule. – Non so davvero cosa ti aspetti di più. A me pare che tu abbia tutto ciò che un ragazzo della tua età possa desiderare, – disse.
– E smettila di rivolgerti a me dicendo un ragazzo della tua età! Cazzo!
– Ok, vorrà dire che comincerò a chiamarti un vecchietto come te, se preferisci…
– Tu sei il vecchio, fino a prova contraria!
– Tu invece, sai dire solo cazzo? È questo l’unico termine che hai imparato?
– Cazzo… Lo puoi dire forte! – Il figlio ghignò.
– Mi fa piacere. Se pensi che sia così che si conquista una ragazza, siamo a posto.
– E cosa ti fa credere che me ne freghi qualcosa? – il ghigno era già scomparso, – Pensi che ne abbia bisogno? Poveraccio…
– Guarda che se sei gay puoi dirmelo. Sono tuo padre e ti sarò sempre vicino. No matter what!
Oscar non aveva mai sfottuto suo figlio in tale maniera e si rese subito conto del livello d’immaturità raggiunto con una sola frase. Eppure non si sentì in colpa. Era come se per la prima volta non provasse la benché minima preoccupazione per le potenziali conseguenze della sua uscita infelice, come se nel profondo fosse consapevole che questa volta la giornata si sarebbe conclusa in modo atipico. Sentiva che era la volta buona che avrebbe provocato la morte di qualcuno. E sapeva anche che chiunque gli fosse passato vicino lo avrebbe fatto inconsapevole dell’enorme rischio corso. Per ora si era limitato a prendere per il culo il figlio, provocando in lui una reazione di incredulo sconforto.
– Tu non ce la fai più… – aveva risposto il ragazzo affranto, ed erano ripartiti gli insulti; non banali parolacce, ma questioni che volutamente sperava avrebbero ferito il padre nell’anima. Aveva colpito Oscar sputandogli contro che di certo non era frocio (aveva usato questo esatto appellativo), ma che non avrebbe preso lezioni da lui, come aveva specificato: uno che si era trovato una donna che lo comandava a bacchetta e che era pure brutta!
A questo punto Oscar girò il capo nella sua direzione, mentre arrestava il veicolo in prossimità del pullman intorno al quale si era già riunito un drappello di compagni di classe del figlio. Sul viso aveva disegnata una smorfia divertita, mista a quella che aveva compreso essere una vibrante malinconia, cosa che suo figlio non riuscì a intuire e che al contrario lo lasciò ancora più spiazzato. Anche lui, poverino, inconsapevole che l’intoccabilità che un ragazzo solitamente possiede sui genitori, e che dà per assodata, nel suo caso si era improvvisamente estinta. Disse solo: – Posso riavere il mio cellulare adesso, o hai intenzione di farmi partire senza? Poi la senti tu la mamma… – cercando di suonare più duro di quanto realmente fosse.
– Vedi di chiamarla appena arrivi. E ricordati che questo non è tuo, – gli intimò Oscar porgendogli il prezioso oggetto.
Mentre si recava al lavoro si chiese quando suo figlio avesse iniziato a odiarlo. Lui che era un insegnante, un uomo che aveva scelto come professione la formazione dei più piccoli e che aveva sempre e solo desiderato la felicità del suo unico discendente.
Posteggiò nella striscia di parcheggi pubblici davanti alla scuola elementare, spense la radio, la sua sola accompagnatrice, e si ritrovò nella solitudine dell’abitacolo a osservare i bambini che gli passavano accanto, vivaci e saltellanti nonostante le pesanti cartelle ripiene di volumi, sempre in eccesso. Anche la valigetta di Oscar quel mattino pesava in maniera insolita, quel tanto che bastava a ricordargli dell’inquietante ma elettrizzante novità al suo interno.
Fumare: ecco cosa si era ancora scordato di fare, preso dalla frenesia di quell’inizio giornata, e ora il bisogno gli esplodeva nel petto.
S’infilò le mani nelle tasche senza trovare traccia del pacchetto di sigarette. L’aveva lasciato a casa, proprio sul maledetto tavolo della cucina. Quello delle colazioni, dei pranzi e di quelle cene estenuanti, incompatibili con il concetto di serenità. Drammatici, ma comuni esempi di un’altrettanto comune famiglia sull’orlo del disastro.
Fu preso da una rabbia improvvisa e si chiese se a quel punto non rimanesse altro da fare se non sparare a quel signore che stava portando a spasso il cane; oppure alla giovane e inesperta supplente di francese che sprizzava un ingenuo e irritante entusiasmo da tutti i pori e trattava gli altri con la massima gentilezza, sempre interessata a qualsiasi cosa le si dicesse, come se fosse l’infermiera in un ospizio. Poi decise che forse per ora era meglio fare un salto a casa a prendere le sigarette, tanto ci avrebbe messo poco e aveva ancora una mezz’ora buona prima che scattassero le nove.
Ripercorse la strada al contrario passando per il punto di ritrovo del figlio, radio accesa, solite frequenze, solita noiosa trasmissione del mattino che oggi lo infastidiva in maniera particolare. Il pullman era in partenza e una lingua di genitori, fermi sul marciapiede, salutava i rispettivi e cresciuti pargoli. Oscar gli passò accanto a moto lento, sulle loro facce riusciva a leggere un orgoglio ingiustificato. Quella falsa certezza, forse comoda, rassicurante, che ognuno dei loro figli fosse destinato a grandi traguardi in futuro, cosa che li avrebbe resi dei modelli invidiabili.
Scorse la testa anche del suo di figlio, dietro a un finestrino del grosso bus. Sedeva con gli occhi rivolti verso il basso, e seppur i suoi compagni stavano ancora in piedi, appoggiati sui sedili in preda all’eccitazione del viaggio che si prospettava loro, irrequieti e pronti a sperimentare in libertà le loro relazioni adolescenziali, lui invece si era già chiuso con gli occhi incollati su quel dannato iPhone. Oscar avrebbe potuto prendere la pistola e fare fuoco a casaccio contro i finestrini e contro il coro di adulti; avrebbe sicuramente colpito qualcuno.
Proseguì e poco dopo fu sul vialetto di casa. Il suo vicino non si trovava più nel giardinetto a lavare la macchina. Prima, uscendo, Oscar aveva cercato di evitarlo, ma l’uomo, rozzo come al solito, maleducato come al solito, si era sentito in diritto, dentro alla sua sudicia canottiera bianca, di renderlo partecipe, ancora una volta, di quanto il suo mezzo fosse superiore alla carretta che guidava lui. Mentre apriva la portiera lo aveva sentito dire alle sue spalle: – Hey, Oscar! Ancora non ti sei deciso a rottamarlo quel bidone della spazzatura? Quando vuoi provare l’ebbrezza della velocità fammi sapere che ti faccio fare un giro sulla mia Alfa! Te la faccio provare! – e rise.
Certo, avrebbe potuto finalmente accettare l’offerta e schiantarsi contro qualche albero dalla parte del passeggero, facendo così ambo in un colpo solo. Era un’idea che lo divertiva. E pensare che sua moglie aveva pure avuto il coraggio di invitarlo a cena, perché come diceva lei: È buona creanza fra vicini di casa instaurare e mantenere dei rapporti civili.
Aprì la porta d’entrata e fu travolto dalla musica. Sua moglie aveva messo su un disco di Battisti e lo stava ascoltando a tutto volume. Oscar lo odiava, lo aveva sempre trovato una lagna e non capiva dove si nascondesse quel fantomatico genio di cui tutti parlavano, dal momento che le canzoni praticamente non le scriveva nemmeno lui. Fu tentato di cambiare il disco, a mo’ di sfregio, poi però si accorse che la voce stonata di Battisti era ora più lamentosa del solito. Così si diresse lungo il corridoio fino in cucina.
Quel giorno non aveva ancora visto il viso di sua moglie e la trovò di spalle, di nuovo. Riusciva a riconoscere la nuca, ma il resto del corpo era coperto da quello in sovrappeso e unto del vicino di casa che la cavalcava ansimante. Una scena riprovevole. L’uomo indossava ancora la canottiera infradiciata, portava i pantaloni e le mutande calati sulle caviglie e Oscar rimase qualche istante a osservargli, con crescente movimento nello stomaco, il sedere piatto e flaccido, bianco come un lenzuolo, molto più bianco della canottiera, che spingeva con ritmo costante sul sedere olivastro e pieno della moglie, il quale costante andava a scontrarsi contro il lavello da cui ancora scorreva acqua; e le chiappe di lui che raggrinzivano contraendosi a ogni colpo.
Sua moglie gemeva e il vicino grugniva, non avevano avuto nemmeno la decenza di chiudere le tendine della finestra. Oscar immaginò le mammelle mature della moglie in bella mostra alla mercé dei passanti.
Non si erano accorti di nulla, avrebbe potuto piazzare con facilità due proiettili nei loro crani, li avrebbe bucati e il contenuto sarebbe schizzato sul vetro, coprendo così l’immagine nuda e adultera della moglie al mondo esterno. Sarebbe diventato famoso come il povero sfigato che ha un raptus omicida, quello tradito e mazziato, questo è vero, però che risate quando avrebbero trovato i corpi incastrati e piegati nel lavandino, immersi nella loro stessa materia e coi culi per aria. Anche loro sarebbero rimasti negli annali, ai Darwin Awards le loro morti sarebbero state di sicuro premiate.
Oscar tirò fuori il piccolo cellulare Nokia, che al contrario di quello del figlio era raramente utilizzato, e iniziò a filmarli attraverso l’altrettanto piccola telecamera di bassa qualità incorporata all’interno.
Quindi tornò alla macchina e aprì il baule con l’intento di impugnare l’arma. Poi pensò ai loro squallidi orgasmi frettolosi da cucina e provò solo una gran pena. Però pensò anche che se sua moglie si era ridotta ad andare con un uomo del genere, doveva esserci qualcosa di molto sbagliato in lui. Probabilmente lei provava la medesima grande pena nei suoi confronti.
Così si ributtò sulla strada.
Dentro ribolliva e lo aspettavano quattro ore buone alle prese con una classe di bambini esuberanti sotto il suo controllo. Se solo i genitori fossero venuti a conoscenza dello stato mentale alterato con cui l’educatore a cui avevano affidati i loro pargoli si era svegliato quel mattino, Oscar si sarebbe ritrovato, alla meglio, davanti a un’aula sgombra; ma per il resto della gente ignara era iniziata una giornata come le altre.
I bambini lo accolsero salutandolo diligenti, ma ripresero subito a confabulare e gli ci volle un intero minuto per riuscire a calmarli tutti. Prima di iniziare la lezione appoggiò la valigetta per terra dietro la cattedra, nascosta alla vista della classe, sfilò la Beretta e con un gesto veloce la buttò dentro al cassetto. Pronta all’evenienza, pensò. Poi fece l’appello e chiese se qualcuno aveva finito di leggere il romanzo che aveva assegnato la settimana prima: “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepúlveda.
Si alzò solo una mano, quella di Priscilla. Oscar la ignorò, continuando: – Va bene… Allora… Tirate fuori il quaderno di matematica.
Priscilla però non ci stava, come al solito, non le andava giù di essere evitata.
– Ma professore, non vuole che leggo ad alta voce quello che ho capito della gabbianella e del gatto? – gli chiese alzando anche la voce.
– Priscilla, ti ho già detto che non devi chiamarmi professore, io sono il vostro maestro! E ti ho anche detto che quando alzi la mano devi attendere il mio permesso e solo dopo parlare, non il contrario. O mi sbaglio?
– Va bene, maestro… – Lasciò cadere le spalle e intrecciò le braccia offesa.
Quella bambina cominciava a dargli sui nervi, veniva da una famiglia vomitevolmente ricca, ma nonostante ciò i genitori avevano deciso di iscriverla alla scuola pubblica, volendo dimostrare chissà cosa. Come se non bastasse, era una minuta e fastidiosa secchiona, voleva sempre fare la saputella della situazione e non passava ora senza che s’intromettesse in qualunque argomento venisse affrontato. E infatti, non appena Oscar iniziò a ricopiare sulla lavagna un problema da risolvere, lei lo informò, senza chiedere la parola, che si trattava di un quesito che avevano già eseguito il giorno precedente.
Oscar non ci pensò su due volte, gli si accese una miccia nello stomaco, come si suol dire, si voltò e scagliò il gessetto con cui stava scrivendo in direzione di Priscilla. Una freccia polverosa che fischiò nell’aria chiusa e che, sfiorando alcune teste, si andò a scontrare contro la parete in fondo finendo in mille pezzi. Aveva letteralmente volato e si era scheggiato deviando il suo tragitto sulla spallina del vestitino blu della bimba che Oscar aveva scambiato per un bersaglio, lasciando sul tessuto una strisciata bianca.
– Ho detto. Che non devi. Parlare. Senza il mio permesso! – urlò da dietro la cattedra. Alcuni lapilli di saliva spruzzarono fin sulle facce intontite degli alunni seduti in prima fila.
Priscilla esplose in un pianto singhiozzante, aveva il respiro spezzato. Oscar buttò un occhio sul cassetto che lo separava dalla Beretta e fu tentato di aprirlo. Mentre appoggiava la mano sul pomello vide la bambina scattare in piedi e correre verso la porta per poi catapultarsi fuori.
Passarono alcuni istanti, forse più di quanto Oscar potesse avvertire, preso com’era a fissare con occhi di ghiaccio il resto degli studenti, che se ne stavano impietriti ad aspettare una sua mossa. Infine, sull’uscio sbucò il bidello del piano, avvisandolo che era desiderato in presidenza. Immediatamente, precisò.
Mentre usciva dall’aula e si inoltrava nel corridoio, Oscar lo immaginò ergersi appagato del suo ruolo, stretto dentro al camice grigio da bidello, anziano e analfabeta.
Si era curato di rimettere, senza farsi notare, la pistola al suo posto e si era portato dietro la valigetta; poteva tranquillamente freddarlo il povero ignorante, e porre fine ad almeno una di queste infinite e inutili esistenze sulla terra. Ne valeva la pena? Ne valeva la pelle?
Entrò in presidenza e si sedette sulla poltrona accanto a Priscilla che nella sua risultava ancor più minuta e vulnerabile.
La bambina ebbe un sussulto, non riusciva a guardarlo e si stringeva contro il bracciolo più lontano da lui.
– Tranquilla, – disse il preside, – Non succede niente. Ci sono qua io.
Ci sono qua io, pensò Oscar, cosa sono, un mostro? Magari un mostro no, ma di sicuro oggi sono un uomo con una valigetta più pesante del solito.
Il preside si rivolse a lui: – Ho già detto a Priscilla che il tuo è stato un comportamento sconsiderato, che lo sai, che anche agli adulti ogni tanto può capitare di esagerare e di sbagliare, ma che non per questo è giustificabile quando succede. Giusto?
E perché, idiota, mi dai del tu, pensò Oscar. Perché non ti rivolgi a me col mio cognome? Chi ti ha detto che siccome sei il Preside mi puoi dare del tu?
Poi aveva lasciato cadere gli occhi sulla foto della moglie che l’uomo teneva su uno scaffale dietro alla scrivania: una sorridente signora di mezz’età in carne, vestita di fiori e con un seno straripante, da tuffarcisi dentro. Ci avrebbe sguazzato. Chissà l’effetto che avrebbero causato due colpi di rivoltella su quei dirigibili, si chiese. Poteva andare a casa sua e scoprirlo, era convinto che quella comune signorotta si sarebbe rivelata una vera cavalla da monta sotto le lenzuola. Quelle sono le più esperte alla fine, le più arrapate.
– Oscar… – ripeté il preside, – Giusto?
– Ah, sì, giusto, – rispose.
Il preside lo fulminò con lo sguardo.
Tu sei il primo coglione che deve stare attento, pensò Oscar, ho sempre più voglia di sbattermi la tua donna. Ho sempre più voglia di ucciderla.
– Quindi… mi sembra giusto che il maestro ti porga delle scuse. Perché quando uno sbaglia… – disse il coglione.
– Quando uno sbaglia deve imparare ad ammetterlo e a scusarsi! – concluse ligia Priscilla tirando su col naso.
Niente, la piccola secchiona non la voleva smettere di essere sé stessa. Una vera, odiosa snob in costruzione, Oscar già se l’immaginava.
Nuovamente, il preside lo riprese, scuotendolo dai suoi pensieri cattivi.
– Be’, credo che Priscilla sia in attesa… – disse.
– Scusa Priscilla, non accadrà più. – Oscar pronunciò queste parole come lo farebbe un suo coetaneo, apposta, senza degnarla di uno sguardo, per poi aggiungere: – Posso andare ora?
Il preside sembrava sul punto di esplodere e a sforzo si trattenne: – No, non puoi andare, resta dove sei! Tu invece sei scusata, Priscilla. Per qualsiasi cosa sono qui, li chiamo io i tuoi genitori, non ti preoccupare. Torna in classe ora, tesoro.
– Perché, ha pure un cellulare la mocciosa? Alla sua età? – chiese Oscar sbigottito.
Non appena la porta si richiuse e la bimba fu fuori, il preside prese a esporre le sue preoccupazioni. Cercò di essere cauto.
– Allora Oscar, come andiamo? Che succede? Lo sai che non puoi esprimerti così con loro, e sinceramente non te l’ho mai visto fare. E poi, Oscar… lanciare un oggetto contro una bambina… Ma come ti è venuto in mente? Questo è grave, Cristo! Lo capisci?
Vuoi lasciarmi l’opportunità di rispondere a qualcosa? Altrimenti non farmele le domande, pensò Oscar. Disse: – Un gesso.
– Come? – Il preside si sporse sulla scrivania.
– Ho detto un gesso! Ho lanciato un cazzo di gessetto, mica una granata!
– Ma sei diventato scemo tutto in una notte? No, spiegami!
Non sono uno scemo, sono uno che potrebbe farti cessare di respirare e nemmeno lo sai, pensò Oscar. – Non sono uno scemo, sono uno che oggi non vuole più ascoltare certe stronzate, – disse afferrando la valigetta.
– Non ci siamo, Oscar. Non ci siamo proprio, – rispose il preside che non sapeva più che pesci pigliare.
– Infatti mi sto alzando e me ne sto andando.
– Dovrò prendere provvedimenti… E stavolta saranno seri! I Baumgartner non saranno entusiasti di sapere quello che è successo…
Ma Oscar era già nell’atrio, distante dalle parole intimidatorie del suo superiore, anch’esso incredibilmente fortunato e illeso a sua insaputa.
Vaffanculo i Baumgartner, pensò, chi se ne fotte di quei borghesi dei genitori di Priscilla. Va a finire che faccio fuori loro, sarebbe comunque un favore all’umanità.
Si rinchiuse in macchina dove rimase fino a fine lezioni, seduto, senza avviare il motore, la valigetta accanto a sé sul sedile del passeggero, la pistola adagiata sulle gambe. Il ferro freddo gli gelava le cosce. Gli apparvero in mente le immagini delle persone con cui aveva fino ad allora interagito. Chissà se qualcuno di essi aveva anche minimamente intuito la precarietà della propria vita standogli vicino. Sarebbero andati avanti con le loro vite incoscienti del fatidico bivio davanti al quale si erano ritrovati quel giorno.
Oscar, dal canto suo, sentiva di aver perso ghiotte occasioni per scaricare le proprie frustrazioni, e la rabbia cieca iniziava a scemare dando spazio a una straziante inquietudine. Si maledì nello scoprire quella debolezza che avanzava, lo faceva dubitare della sua capacità di prendere decisioni drastiche.
Con la coda degli occhi vide lo stesso furgone nero dai vetri oscurati che gli era passato accanto già tre volte, fermarsi sul lato opposto della carreggiata. Non uscì nessuno. Si chiese se il fato non gli stesse suggerendo delle nuove potenziali vittime. Fece per appoggiare la mano sulla manopola d’apertura della portiera, quando il furgone si mosse riprendendo la sua marcia. Un’altra opportunità sfumata. Forse non era sul serio destino. Cosa gli stavano suggerendo gli eventi?
Oscar si sentì perso, un’improvvisa e primordiale paura s’impossessò di lui. Non vedeva un futuro. Invece vide Priscilla che usciva dal portone dell’antico edificio scolastico e camminava nella sua direzione. La bambina però non l’aveva notato, stava guardando tra le automobili ferme in cerca della Mercedes blu e dell’autista in divisa che la veniva a prendere tutti i giorni al suono dell’ultima campanella per riaccompagnarla a casa, e che quel giorno sembrava irrimediabilmente in ritardo. Come pensavano che non sarebbe cresciuta viziata, era fuori dalla sua comprensione.
Un’inaspettata convinzione si instaurò in lui: se Priscilla, una volta giunta sul marciapiede, avesse girato e fosse venuta verso la sua macchina non avrebbe perso altro tempo e l’avrebbe uccisa, basta indugi; se invece si fosse allontanata nella direzione opposta, allora forse voleva dire che non gli restava altra soluzione se non l’inevitabile.
La bimba muoveva le gambine compiendo brevi passi, cosa che lo fece irritare. Quando sul marciapiede si girò dandogli le spalle, Oscar si accorse di aver smesso di respirare. Osservò il corpicino che si rimpiccioliva allontanandosi, scampando ancora una volta alla tragedia. Oscar rise. Fino all’ultimo la vita si prendeva gioco di lui.
Strinse il calcio della Beretta e appoggiò l’indice sul grilletto. Cosa gli restava?
Alzò l’arma e se l’avvicinò alla bocca. Infilò la canna spigolosa giù per l’umido anfratto e si graffiò il palato. Cominciò a piangere. Sul primo proiettile, quindi, era stato inciso fin dall’inizio il suo nome. Quale sorpresa, pensò con cinismo, ma si trovò impossibilitato a sorridere con quel rigido fallo dal sapore metallico in bocca, mentre alcune lacrime scivolavano sulle scanalature della pistola. Stava per farlo veramente.
A volte è questione di tempismo, che nel tessere le nostre vite non fa che smentire ogni teoria sulla casualità delle coincidenze. Avrebbe premuto il grilletto se solo il furgone nero dai vetri oscurati non fosse ricomparso di fronte a lui.
Il mezzo s’impegnò in una sconsiderata manovra a U, sgommando e imbarcandosi su un lato, poi accelerò e sfrecciò per un centinaio di metri. In fondo alla strada inchiodò, proprio di fianco a Priscilla che presa alla sprovvista fece un balzo all’indietro. Dal portellone scorrevole laterale saltarono fuori due figuri incappucciati che agguantarono la bambina e la caricarono senza mezzi termini sul cassone posteriore insieme a loro.
Oscar aveva assistito al fatto cingendo la morte argentea tra le labbra e quando il furgone scomparve dietro l’angolo, gettò la rivoltella nella valigetta, tremante. L’aveva quasi fatto, era andato spaventosamente vicino a togliersi la vita e ora provava un’irrefrenabile voglia di vivere. Girò la chiave d’accensione e il veicolo borbottò. Schiacciò il pedale dell’acceleratore e si lanciò all’inseguimento.
Mentre portava la sua modesta autovettura su di giri facendole provare l’emozione di toccare velocità mai raggiunte prima, Oscar si sentì sopraffatto nello scoprire un ennesimo lato di sé fino a quel momento sconosciuto. Cercò di concentrarsi sulla macchia nera che era diventato il furgone, diverse macchine davanti alla sua. Fortunatamente si era introdotto su una lunga e dritta strada statale che lo rendeva ben visibile, ed erano poche le possibili uscite.
I rapitori procedevano nel loro viaggio senza esagerare con le imprudenze. Era evidente, non volevano dare nell’occhio. Oscar si prodigò in un paio di sorpassi incerti che lo portarono a due veicoli di distanza. Quando intuì che dall’altro lato possedeva abbastanza spazio prima dell’arrivo di un lento camion, si buttò. L’auto strillava mentre lui esagerava nello spingere la quarta marcia. Sorpassò le due vetture e il camion davanti a lui si fece più grande del previsto.
L’autista dell’autocarro iniziò a premere il clacson e a quel punto Oscar si ritrovò fianco a fianco col furgone. Successe velocemente: oltrepassò il muso del mezzo e sterzò bruscamente verso destra impattandolo in un frastuono di ferraglie. Schivò il camion di poco e finì nel fossato trascinandosi con sé il furgone.
I motori fumavano e le frizioni stridevano. Oscar infilò una mano nella valigetta, d’istinto, e riprese possesso della sua compagna di sventura. I finestrini erano in frantumi e sul furgone al posto di guida rialzato riuscì a scorgere una testa immobile schiacciata contro il volante. Si voltò, cercando in maniera frenetica con lo sguardo altre possibili minacce. Dal retro del furgone comparvero gli assalitori di Priscilla, ancora incappucciati; quando videro il collega alla guida iniziarono a farneticare. Poi quello alto andò verso Oscar che sedeva ancora nell’abitacolo con la cintura di sicurezza allacciata. In lontananza cominciarono ad arrivare il suono delle sirene. Oscar le udì aumentare di volume. La voce dell’altro uomo tuonò, intimava che non c’era tempo, che dovevano scappare. L’uomo alto fece un altro passo verso Oscar, il quale alzò la Beretta, puntandogliela dritta sul cuore. Passarono istanti in cui credette di poter vedere nel profondo di quegli occhi espressivi, nonostante il passamontagna nascondesse il resto, poi l’uomo corse via, dissolvendosi nella radura circostante insieme al compare.
Oscar prese coraggio, scese dalla macchina accartocciata e aggirò il furgone. Non sapeva cosa lo aspettasse e quando vide Priscilla che terrorizzata si rannicchiava, chiudendosi a guscio sul fondo del cassone e strizzando gli occhi serrati, provò qualcosa che si potrebbe descrivere come un secondo risveglio. La bambina sembrava fare di tutto pur di scappare da quell’impensabile incubo.
– Priscilla… Sono Oscar!
La vide spalancare le palpebre ed esclamare: – Professore!
Oscar sorrise: – Sì, sono io, il maestro… Non c’è più nulla da temere! Vieni…
Priscilla scattò in piedi e gli saltò al collo abbracciandolo, stringendolo, donandogli una gratitudine onesta, sentimento che nessuno dei suoi cosiddetti cari aveva mai avuto la decenza di manifestargli. Le lacrime della bimba gli inumidirono la camicia e Oscar si lasciò andare, ricambiando l’abbraccio e posando le narici sui capelli fini al profumo di albicocca di quella fragile e innocente creatura.
Sul posto arrivò la polizia, ambulanze e il solito mucchio di curiosi; dopo una mezz’ora anche i Baumgartner. Cinsero la figlioletta come probabilmente mai fino ad allora. Oscar guardò la famiglia ricongiungersi, la madre inginocchiarsi ad ascoltare il racconto di Priscilla che intanto indicava nella sua direzione e si girava verso di lui, poi i genitori che si voltavano a guardarlo a loro volta e si recavano a parlare con degli agenti. Solo in seguito vennero da Oscar, il quale se ne stava seduto sul retro di un’ambulanza con la fida valigetta in suo possesso. Non l’avrebbe abbandonata per nessuna ragione. Di certo non ora che si trovava dalla parte del giusto, la scoperta dell’arma all’interno avrebbe comportato un serio problema.
– Noi… non sappiamo come ringraziarla, – iniziò a dire la madre.
– Non dovete. Ho fatto solo il mio dovere. – Oscar non si aspettava una svolta tanto imprevedibile, aveva appena salvato una bambina e non si capacitava di come e quando fosse successo.
– No, lei ha fatto una cosa che pochi avrebbero avuto il coraggio di fare! – continuò il padre, – Siamo in debito, questo è poco ma sicuro. Ci lasci fare qualcosa per lei!
Ma Oscar rifiutò ogni proposta, provava uno strisciante disgusto all’idea di accettare qualsiasi cosa da due delle persone che aveva fantasticato di ammazzare. Quando però il giorno seguente gli venne recapitata una busta sigillata e consegnata direttamente dall’avvocato della famiglia, non ci pensò su due volte ad accettare la somma di denaro scritta sull’assegno che conteneva. Una cifra inimmaginabile, inconcepibile, almeno per uno come Oscar.
Il fatto, lo svolgimento, le conseguenze, incredibili per l’appunto, scatenarono una serie di eventi collaterali.
Cominciarono a contattarlo le televisioni che se lo contendevano per averlo nei propri programmi di cronaca come protagonista insieme a Priscilla di quella storia drammatica e gloriosa che era ormai sulla bocca di tutti, trasformandolo così, dall’oggi al domani, in un eroe nazionale. Lo elogiavano sui social network e impazzavano online i commenti di apprezzamento. Forse adesso il figlio avrebbe cambiato opinione sul valoroso padre.
Di certo non avrebbe potuto ricavare vantaggi dalla fama mediatica e usufruire del nuovo conto corrente sua moglie, che si trovò la lettera di divorzio fra le mani nella quale si accennava a un’inappellabile prova video che mostrava un suo atto fedifrago con quel sudicio porco del vicino. Sconvolta e furiosa, rimase sull’uscio mentre Oscar sgasava via sulla sua nuova e fiammante Alfa Giulia, lasciando il maiale della porta accanto con la canna dell’acqua a penzoloni e grondante, e raggiungendo in un ristorante del centro la supplente di francese.
La giovane, proprio come gli alunni, aveva rivelato un improvviso interesse e si era dimostrata molto disponibile nei confronti di Oscar nella sua nuova pelle di prode uomo.
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