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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Di Fiore

Vienna per due

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Sosto sotto a un balcone, frugando nella borsa.
La pioggia, adesso incessante, mi ha colto impreparato all'angolo di Corso Butera. Ho l'abitudine di portare con me, sempre, un piccolo ombrello, presente di amici ormai lontani. Lo tengo nelle viscere della tracolla, per l'evenienza dico sempre. E oggi l'evenienza è arrivata, finalmente.
- Ma che ti porti a fare un ombrello co' sto tempo! -  dice mia moglie quando vede ficcarmi alla rinfusa oggetti all'interno della borsa.
- Il tempo non è il nostro migliore amico - mi diverto a risponderle.
E oggi sono contento. Sì, sono contento. Posso andare dritto a casa e col sorriso sulle labbra entrare in cucina e dire - Te l'avevo detto! – Lei mi guarderà col sorriso sulle labbra e scuoterà la testa.
- Il tempo non è il nostro migliore amico, te lo dico sempre.
Ma oggi, chissà perchè, l'ombrello non l'ho portato. Mi poggio al muro rovistando all'interno della sacca di pelle. Lascio scivolare le dita che esperte improvvisano un valzer di carezze e strofinii su oggetti già conosciuti per poi, deluse, fermarsi e chiudersi in un pugno rassegnato.
Non mi resta altro che attendere qui allora, aspettare che la pioggia finisca per tornare a casa.
 
***
 
I lampioni si accendono all'improvviso, come luci di un unico lampadario. Illuminano di luce sintetica la gente che vagabonda, incurante della pioggia. Osservano le vetrine quasi con ansia, alla ricerca del baratto conveniente. Lasciano che le gocce scivolino sui loro cappotti di cachemire mentre le ombre, lunghe e inquietanti strisciano alle loro spalle, acquattate nel silenzio.
È da tanto che non mi fermo a osservare la gente. Di solito vado dritta per la mia strada, testa china e sguardo fisso. Non m'importa di ciò che mi accade attorno.
Un vecchio all'angolo cucina caldarroste, mentre il fumo vola verso l'alto, inghiottito dalla pioggia.
Poco più in là un ragazzo si ripara sotto un balcone di palloncini. La pioggia ticchetta stonata sulle teste di coniglio e sui gatti sorridenti. Nessuno li guarda, questo non è un giorno di festa. Oggi rimangono celati dal loro fumo e dai loro palloncini.
La pioggia non accenna a diminuire, la vedo fitta e regolare nel fascio di luce offerto dal lampione. Si posa lenta sull'asfalto e poi scivola a valle, verso il mare. O verso la fogna. Le auto proseguono lente, i tergicristalli che si muovono veloci. Mi dirigo verso un'agenzia di viaggi poco lontana. Sono tornata a casa per dare un saluto a mamma, ma questo posto mi opprime, ho bisogno di nuovi stimoli. Sceglierò la località meno costosa e partirò ancora.
 
***
 
Mi piace definirmi la Mangiaparole.
Nata con un difetto che di difettoso ha poco o niente.
Poggio annoiata il gomito sulla scrivania, la mano che mi regge il capo.
Sbuffo, il ticchettio dell'orologio che insegue regolare il ticchettio precedente. E fuori infuria la tempesta. Finisco la mia partita a carte sul pc e mi collego a internet. Click veloci sui soliti siti e poi il nulla. La noia che permane.
Non è periodo di vacanze, lo so bene, eppure rimango chiusa in quest'agenzia di viaggi, credendo che ci sia la possibilità che qualcuno entri e acquisti qualcosa.
E pensare che nemmeno volevo lavorarci qui. Avrei voluto fare la traduttrice di libri. Ma mio padre no, voleva che mi relazionassi con la gente, per sistemare quel piccolo difetto che ho sin da bambina.
Mangiaparole è il nome che mi son data. Mi capitava - mi capita ancora - di ingoiare le parole, di masticarle e mandarle giù, insipide.
Non so come funziona, ma col tempo ho imparato a conviverci. Prima, quando capitava, rimanevo bloccata, sentivo scendere la parola lungo l'esofago e provavo a vomitarla fuori, lottando con la peristalsi. Ma quella no, imperterrita scivolava fino al mio stomaco e io rimanevo in silenzio. Piangevo in un angolo, poi ho capito come fregarla. Bastava semplicemente, quando la parola scivolava verso l'oscuro, trovarne un'altra. Anche opposta, chissenefrega. La tecnica è stata affinata col tempo. Adesso riesco a snocciolare sinonimi come se fossero noccioline. Son diventata brava.
Non ho più bisogno di questo schifo di lavoro. Andrò dritta a casa e dirò a mio padre che non ci sto. Che non può costringermi a fare qualcosa che non voglio.
Mi alzo appena, le ruote della sedia che stridono sul pavimento. Un urlo secco e tagliente. Afferro le chiavi e spengo la luce. La mano va a stringersi alla maniglia mentre lascio scivolare la chiave all'interno della serratura, con delicatezza.
- Scusa, ma stai chiudendo?
Il suono della toppa si perde tra la pioggia.
 
***
 
Sgattaiolo di città in città. Di paese in paese. È più forte di me. Non ho radici. Forse neppure un seme. Mi piace conoscere il mondo, ascoltare le lingue, anche senza capirle. Una clochard per scelta. Una barbona con i soldi in tasca. Di solito rimango in un posto per tre mesi, a volte meno. Trovo lavoro nei Mc Donald. Sfruttata ma sazia. Ho girato il mondo ma il richiamo di casa a volte è troppo forte, e ho bisogno di tornare. Ma basta poco per farmi ricordare perchè sia fuggita.
Sono a casa di mamma già da due settimane. Interminabili. Mi ha trovato lavori. Presentato uomini pur di costringermi a rimanere, ma no, ritenta cara mamma, forse sarai più fortunata. O forse no.
È inutile, questo posto mi opprime. Vado a letto e mi addormento subito. Non rimango a sbavare sul cuscino, fantasticando su ciò che sarà domani. Perché domani sarà oggi. Sarà ieri. Sarà domani l'altro. Le giornate si strascicano via, tutte uguali. Non un cambiamento, neppure un accenno.
Ti svegli fai colazione ti lavi ti vesti esci solita gente ritorni mangi dormi. E così all'infinito. Una spirale disegnata su un foglio così grande da non vederne la fine.
A mia madre va bene così, dice che la routine fortifica l'anima. A me invece la logora l'anima. La routine si arma di scalpello e ne smorza gli angoli. Non sono più tondi e lisci, ma aguzzi. Taglienti come filo spinato su un muretto. E io, per evadere, devo scavalcarlo. Mi arrampico ferendomi mani e ginocchia, poi salto dall'altra parte, sanguinando.
E sono cicatrici quelle che rimangono, come strade che non ho ancora calpestato.
Ma non mi importa di farmi male, magari prendendo una storta atterrando al di là del muro, l'importante è fuggire. Scappare dalla propria città. Cosa c'è di complicato nel farlo? Ma a volte le cose facili diventano difficilissime. Verrebbe voglia di delegare la propria vita al primo che passa. Ma poi ci pensi bene e capisci che non è la cosa migliore. Allora respiri e senza fermarti vai verso il cambiamento, in questo caso una minuscola agenzia di viaggi mezza chiusa al centro città. E se la tizia che vi lavora sta per chiudere un motivo ci sarà. Segno? Avvertimento divino? Che mi frega. Ho così tanta fame di emozioni che potrei spingerla dentro e costringerla a regalarmi un viaggio.
Ma penso che sia meglio iniziare con uno scocciato:
- Scusa, ma stai chiudendo?
La tizia sobbalza. Le chiavi le sfuggono di mano e finiscono in una pozza d'acqua.
- Hai intenzione di comprare? - mi chiede.
Inarco appena un sopracciglio, chiedendomi che problema abbia.
- Beh, tu che dici?
Si limita a chinarsi e afferrare le chiavi, zuppe.
- Accomodati - mi dice entrando e accendendo la luce.
- Stavo chiudendo, non viene mai nessuno.
Sai che mi importa? mi verrebbe da dirle. Però non lo dico. Negli anni ho imparato a masticare le parole, scomponendole. Separare le lettere formandone di nuove. Anagrammi infiniti che mi portano a comporre nuove parole, di solito più belle.
E il mio - sai che mi importa - diventa un - Mi spiace -, accompagnato da lettere inutilizzate che vengono ingoiate all'istante, o nascoste sotto la lingua, per l'evenienza.
- Bene, dove vorresti andare?
La ventola del computer scandisce le nostre battute.
- Nel posto meno caro.
 
***
 
Da bambina non andavo a comprare mai nulla. Avevo paura di arrivare davanti al salumiere di passaggio e non riuscire a dirgli: - Due etti di prosciutto.
Una volta o due è capitato che non riuscissi a parlare. Di avere delle parole così tanto appiccicose da non riuscire a staccarle dalla lingua. Non c'era niente da fare. Lo imploravo con gli occhi, cercando di fargli capire, col movimento delle pupille, ciò che volessi.
Riuscivo a dire - Due etti - e poi mi bloccavo. Come se il prosciutto mi stesse antipatico. Cavolata, mi piaceva anche tanto.
Entrambe le volte acquistai del salame. Non ho mai capito il perchè non riuscissi a dire prosciutto. Forse le doppie lettere. O forse perchè mi piaceva davvero tanto, e quando ti piace qualcosa non riesci a dirlo. Ti limiti a fissarlo come se nel pronunciarlo si allontanasse da te.
Entrambe le volte che portai il salame a casa mio padre mi picchiò. E io rimanevo notti intere a fissarmi allo specchio e a ripetere: - Due etti di prosciutto -, come un'idiota.
In realtà non ho ancora il coraggio di andare a chiederlo al salumiere. Lo compro già a fette, nel bancone frigo.
- Abbiamo Madrid a 120€ andata e ritorno.
- Solo andata per favore. E a Madrid ci sono già stata.
Stavo per chiudere quando sta stronza è arrivata qui. Vuole qualcosa di poco caro, fortuna che è bassa stagione.
- Sola andata? Ti trasferisci?
Non la guardo neppure. Visito siti velocemente, alla ricerca di qualcosa che la soddisfi e la mandi a casa, lasciandomi libera.
- Già, sono stufa di questo posto.
- Stufa?
La osservo, confusa.
-Si, Palermo e la Sicilia sono la scarpa d’Italia.
Avrei voglia di prenderla a calci sul sedere e buttarla sotto la pioggia. Non rispondo ma vorrei rifilarle un biglietto falso o una meta oscena. Poi incontrarla per caso in piazza e domandarle se crede ancora che Palermo sia così male.
Palermo non è la scarpa dell’Italia, non è neppure la sua testa, per carità.
Ma non porta calzini spaiati, e non puzza.
- Londra? Barcellona? Monaco?
- Già stata.
- E a fanculo ci sei già stata?
Non lo dico, ma avrei voglia di scoprire se le mie parole appiccicose riuscissero a venir fuori.
- Parigi? Tolosa?
- No, la Francia no.
La fisso per una decina di secondi, odiandola.
 
***
 
L'unica cosa che mi tiene incollata a questo posto è mia madre. E la soluzione è così tanto semplice che mi chiedo perchè non ci sia arrivata prima.
Scuoto appena il capo, sorridendo.
- Cosa c'è? - mi chiede la tizia dell'agenzia.
- Niente.
- Atene? Praga?
- Già stata.
E poi ricordo quanto mia madre sia innamorata della storia della principessa Sissi e la meta mi esplode nella mente, chiara.
- Vienna? - le dico.
Lei mi guarda.
- Certo. Vienna è bellissima. Per una persona?
-No, Vienna per due.
 
***
 
Scivolo lungo i marciapiedi zuppi.
La tipa ha comprato il suo biglietto e mi ha lasciata libera, fortuna che ho trovato qualcosa di vantaggioso.
Sono carica, neppure nervosa.
Vado a casa e dico a mio padre: - Mi sono scocciata di lavorare in agenzia. Voglio fare la traduttrice di libri.
Lo ripeto ad alta voce, esorcizzando le parole che vengono fuori limpide e chiare. Non posso permettermi errori o titubanze, deve capire che sono guarita.
La porta di casa è aperta.
- Papà? - esclamo.
- Oh, eccoti.
Sta in cucina, a fumare.
- Andresti a comprare del prosciutto, per favore?
Lo fisso negli occhi e l'unica cosa che posso fare è dire: - ok.
La salumeria sta dietro casa, è vuota.
Mi ripeto: - Due etti di prosciutto - e mi viene bene. Non comprerò quello dal banco frigo, no, lo chiederò direttamente al salumiere. Sono guarita.
- Mi sono scocciata di lavorare in agenzia. Voglio fare la traduttrice di libri.
Perfetto.
Arrivo davanti al bancone.
- Cosa posso darti? - mi chiede quello.
Due etti di prosciutto mi ripeto.
- Due etti...
Ma il prosciutto no, quello si impiglia tra i denti e non vuole staccarsi.
Sono guarita.
- Due etti... di salame.
O forse no.
 
***
 
Le auto stanno impilate in due lunghe file indiane, immobili e luminose. La strada è in discesa, in fondo riesco a vedere il mare. Uno scorcio di azzurro, ormai nascosto tra le case. Da bambino passeggiavo qui. Non c'erano le auto, non c'erano neppure le case. Solo campagna e qualche animale. Ma la chiesa c'è sempre stata. La chiesa Madre è sempre stata lì, aperta a tutti. Per un attimo l'idea di raggiungerla mi accarezza la mente, ma riflettendo capisco che non è la cosa migliore da fare. La mia andatura basculante mi permetterebbe di raggiungerla in quindici minuti, forse venti, ma per un uomo senza ombrello è fin troppo. Mi inzupperei fino all'anima. No, è meglio rimanere qui, ad aspettare.
Dietro di me un'agenzia di viaggi. Una di quelle agenzie le cui vetrine sono imbrattatati di fogli. Di post-it pieni di numeri date e mete. Immagini di donne sdraiate al sole. Di posti nascosti chissà dove, visitati da chissà chi. Offerte ridondanti di menzogne.
Anch'io avrei voluto viaggiare da giovane. Sarei voluto saltare su una nave e fuggire via, a respirare il mondo.
Ma era impossibile. Avevo una moglie. Un lavoro poco retribuito, dei figli. Quindi l'unico modo per visitare il mondo era quello di sdraiarmi sul divano e leggere qualcosa. Sono sbarcato sull'isola di Montecristo, con Dantès. Ho navigato al fianco di Santiago tra le isole caraibiche. Ho cacciato la balena bianca. Ho risolto omicidi e catturato assassini. E va bene così. Potrei viaggiare adesso, è vero. Ma credo che ogni piccola cosa abbia un momento giusto per essere affrontata, un po’ come le stagioni. Le foglie cadono in autunno e rinascono in primavera, e non puoi invertirle. La vita è come se fosse una grande torta, dai minuscoli strati. Ogni strato un periodo della vita. La panna, dolce e cremosa, è di certo la tua infanzia, giocosa e spensierata. E poi via via scendi verso il basso, arrivando alla vecchiaia dura come un biscotto.
Le luci dell'agenzia si spengono. Due ragazze escono e si allontanano in direzioni opposte.
È ora di cena, i negozianti tirano giù le saracinesche e tornano a casa. L'uomo delle caldarroste rimbocca la sua bancarella e scappa via. Il ragazzo è volato assieme ai suoi palloncini.
Io sospiro e osservo il cielo, nel momento esatto in cui l'ultima goccia di pioggia si posa sull'asfalto.
- Era ora.
Nascondo le mani in tasca e mi allontano, come un pendolo.
All'angolo di Corso Butera, lì dove la pioggia mi aveva colto, una piccola busta sembra attendermi. Mi chino, il dolore all'anca che mi costringe a stringere i denti.
Afferro la busta e la apro.
All'interno un biglietto recita:
Vienna.
2 persone.
 
Si può dire di no al destino?



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