RECENSIONI
Giorgio Manganelli
Esperimento con l'India
Adelphi, Pag.104 Euro 8,50
Penoso stato di eccitazione all'arrivo. La Porta dell'India. Spaccato, naturalmente fantasmagorico, di Bombay. Una enorme folla di asciugamani. Moravia va a letto: una esibizione di intrepidezza nell'avventurarmi nella notte indiana. La dolcezza di Sadar e di Sundar.
Nel dicembre 1960, poco prima di Natale, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia partirono per l'India. Furono raggiunti il 16 gennaio da Elsa Morante.
Al rientro Pasolini cominciò a pubblicare sul Giorno una serie di articoli confluiti poi nel volume apparso nel 1962 da Longanesi col titolo L'odore dell'India (ora lo ritrovate nel meridiano mondadori curato da Walter Siti). Anche Moravia aveva ricavato da quell'esperienza un libro, col titolo diverso e speculare a quello del regista. Un'idea dell'India (Bompiani).
Per dire che il paese di Gandhi ha sempre affascinato non solo masse di turisti in cerca di emozioni passeggere, ma anche l'intellettualità a noi più vicina (sempre che una definizione del genere abbia un valore e un significato).
Non poteva sottrarsi a questo tour de force un'altra penna fine: Giorgio Manganelli. Partì per l'India nel 1975 come inviato della rivista Il Mondo. Ci rimase quasi un mese e da quel turbinio di fascinazione nacque questo resoconto che fu raccolto in volume solo nel 1992, quindi dopo la sua morte avvenuta nel 1990, da Adelphi. Ora viene ripubblicata la sesta edizione.
Si ha l'impressione che lo scrittore di origine milanese se la sia cavata egregiamente nel tentativo di evitare le paludi dell'ovvietà e della banalità nel trattare una materia così prevedibile: non solo attraverso l'uso di un linguaggio brillante e figurativo (Bevo, piuttosto lappo, una lama di whisky. E' dolce, è un ultimo saluto occidentale), ma nello scavalcare il fossato del misticismo di moda e della metafisica.
Ricordiamolo: era il 1975, il grosso dell'emigrazione intellettuale verso le terre indiane era già avvenuto ed una certa stanchezza di fondo si profilava all'orizzonte. Di lì a poco le isterie ascetiche sarebbero stato un ricordo. Manganelli si trova dunque di fronte ad un bivio: deve far i conti anche col passato, ma annusa l'aria di nuovo.
Ma non è nel bilanciamento della materia grassa che sta la forza di questo libro, quanto nell'avvicendarsi di considerazioni istintive. Penso all'idea dell'Assoluto: ... mi dico, mi confesso che io vengo da un continente dove da tempo di Assoluto non se ne produce più, e dove esiste un riso secco e tormentoso che forse ha definitivamente disegnato i nostri volti – pag.18. Penso al sociologico dispiegamento di una concettualità non cristiana: E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura non c'è posto per la pietà individuale, non c'è quella dolorosa, disperata carità che lega l'Occidente al naturalmente morituro: Né il mendicante, lo sventurato, ha pietà di se stesso – pag.36. Penso alla decodifica di una religione che non è un assunto aprioristico, ma un'interiorizzazione personale: L'indiano religioso conosce la propria religiosità nella misura in cui conosce se stesso; lui, l'indiano è la sua stessa superstizione – pag.90, con relativo confronto con la "deriva" occidentale: Le nostre viscere laiche sono ridotte alla povera libertà e follia delle malattie psicosomatiche – pag.91.
Dicevo all'inizio, c'è il rischio di una banalizzazione del "corpo". Manganelli la sfiora, soprattutto di fronte al degrado dell'insediamento urbano (Se non avete visto Calcutta, voi non avete visto, non già l'India, ma il mondo – pag.98), ma in esso, nello stesso tempo, trova il modo di svicolare con astuzia e magistrale naturalezza (se fosse stato di corporatura atletica avrei detto che lo scrittore riesce ad evitare l'ostacolo con un gagliardo scatto di reni) ed arriva ad un conclusivo riquadro dell'India che ci sembra coerente con la sua intelligenza: ... ma che cosa è l'India? Se è un "altrove"mi sfinisce, ma non la temo; quel che temo è questa capacità, illusionistica e metafisica, di illudermi che l'altrove sia non solo a portata di mano, ma dentro di me.
di Alfredo Ronci
Nel dicembre 1960, poco prima di Natale, Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia partirono per l'India. Furono raggiunti il 16 gennaio da Elsa Morante.
Al rientro Pasolini cominciò a pubblicare sul Giorno una serie di articoli confluiti poi nel volume apparso nel 1962 da Longanesi col titolo L'odore dell'India (ora lo ritrovate nel meridiano mondadori curato da Walter Siti). Anche Moravia aveva ricavato da quell'esperienza un libro, col titolo diverso e speculare a quello del regista. Un'idea dell'India (Bompiani).
Per dire che il paese di Gandhi ha sempre affascinato non solo masse di turisti in cerca di emozioni passeggere, ma anche l'intellettualità a noi più vicina (sempre che una definizione del genere abbia un valore e un significato).
Non poteva sottrarsi a questo tour de force un'altra penna fine: Giorgio Manganelli. Partì per l'India nel 1975 come inviato della rivista Il Mondo. Ci rimase quasi un mese e da quel turbinio di fascinazione nacque questo resoconto che fu raccolto in volume solo nel 1992, quindi dopo la sua morte avvenuta nel 1990, da Adelphi. Ora viene ripubblicata la sesta edizione.
Si ha l'impressione che lo scrittore di origine milanese se la sia cavata egregiamente nel tentativo di evitare le paludi dell'ovvietà e della banalità nel trattare una materia così prevedibile: non solo attraverso l'uso di un linguaggio brillante e figurativo (Bevo, piuttosto lappo, una lama di whisky. E' dolce, è un ultimo saluto occidentale), ma nello scavalcare il fossato del misticismo di moda e della metafisica.
Ricordiamolo: era il 1975, il grosso dell'emigrazione intellettuale verso le terre indiane era già avvenuto ed una certa stanchezza di fondo si profilava all'orizzonte. Di lì a poco le isterie ascetiche sarebbero stato un ricordo. Manganelli si trova dunque di fronte ad un bivio: deve far i conti anche col passato, ma annusa l'aria di nuovo.
Ma non è nel bilanciamento della materia grassa che sta la forza di questo libro, quanto nell'avvicendarsi di considerazioni istintive. Penso all'idea dell'Assoluto: ... mi dico, mi confesso che io vengo da un continente dove da tempo di Assoluto non se ne produce più, e dove esiste un riso secco e tormentoso che forse ha definitivamente disegnato i nostri volti – pag.18. Penso al sociologico dispiegamento di una concettualità non cristiana: E capii istantaneamente che in quella società, in quella cultura non c'è posto per la pietà individuale, non c'è quella dolorosa, disperata carità che lega l'Occidente al naturalmente morituro: Né il mendicante, lo sventurato, ha pietà di se stesso – pag.36. Penso alla decodifica di una religione che non è un assunto aprioristico, ma un'interiorizzazione personale: L'indiano religioso conosce la propria religiosità nella misura in cui conosce se stesso; lui, l'indiano è la sua stessa superstizione – pag.90, con relativo confronto con la "deriva" occidentale: Le nostre viscere laiche sono ridotte alla povera libertà e follia delle malattie psicosomatiche – pag.91.
Dicevo all'inizio, c'è il rischio di una banalizzazione del "corpo". Manganelli la sfiora, soprattutto di fronte al degrado dell'insediamento urbano (Se non avete visto Calcutta, voi non avete visto, non già l'India, ma il mondo – pag.98), ma in esso, nello stesso tempo, trova il modo di svicolare con astuzia e magistrale naturalezza (se fosse stato di corporatura atletica avrei detto che lo scrittore riesce ad evitare l'ostacolo con un gagliardo scatto di reni) ed arriva ad un conclusivo riquadro dell'India che ci sembra coerente con la sua intelligenza: ... ma che cosa è l'India? Se è un "altrove"mi sfinisce, ma non la temo; quel che temo è questa capacità, illusionistica e metafisica, di illudermi che l'altrove sia non solo a portata di mano, ma dentro di me.
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